Dal 1958 l’osservatorio di Manua Loa, nelle isole Hawaii, misura la concentrazione di anidride carbonica e altri gas serra in atmosfera.
Le cifre, pur con variazioni stagionali e annuali (monitorate sul sito www.co2.earth/daily-co2), disegnano una curva in ascesa, con una concentrazione di C02 passata da 315 parti per milione (ppm) nel 1958 alle attuali 410 ppm circa.
E’ questo uno dei principali indicatori di cui tiene conto la comunità scientifica nel valutare le complesse trasformazioni del clima, cui si affiancano le variazioni della temperatura globale, cresciuta in media di 1 °C rispetto al periodo precedente la Rivoluzione industriale.
Per meglio inquadrare i mutamenti climatici e individuare l’impatto che questi avranno nel prossimo futuro, la 21° Conferenza delle parti della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, tenutasi a Parigi nel 2015, ha invitato il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) a stilare un rapporto speciale per evidenziare i rischi connessi a superare un aumento della temperatura globale di ulteriori 0,5 °C, che porterebbero la temperatura a +1,5 °C rispetto al periodo precedente la Rivoluzione industriale.
Pubblicato nel 2018, lo special report Riscaldamento globale di 1,5 °C ha analizzato diversi aspetti (dagli eventi meteorologici estremi allo sfruttamento del suolo, dalla perdita di biodiversità all’acuirsi della povertà), mettendo in evidenza le possibili conseguenze dei mutamenti climatici in due “futuri” molto diversi: quello in cui saremo riusciti a contenere l’aumento delle temperature a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, e quello in cui, invece, l’incremento avrà raggiunto o superato i 2 °C. Sembra poco, ma non lo è affatto.
Gli sforzi e le iniziative per cercare di contenere l’aumento della temperatura a 1,5 °C riguardano, naturalmente, anche il nostro Paese. Lo sottolinea il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) nel recente rapporto Analisi del rischio.
I cambiamenti climatici in Italia, a cura di Donatella Spano e Valentina Mereu, incentrato su cinque settori chiave: ambiente urbano, rischio geo-idrologico, risorse idriche, agricoltura e incendi boschivi.
Mentre evidenzia l’impatto dei cambiamenti climatici sull’ambiente, il report pone l’accento sulle sue conseguenze a livello economico e sociale: oltre a pesare sul Pil nazionale, i mutamenti climatici aumentano la disuguaglianza economica tra regioni, influenzando negativamente una serie di attività, come l’agricoltura e il turismo, di vitale importanza per l’Italia.
Per comprendere meglio che cosa ci aspetta, abbiamo voluto analizzare, con l’aiuto di alcuni esperti, cinque diverse tematiche: eventi meteorologici estremi, rischio geo-idrologico e risorse idriche, acidificazione degli oceani, specie vegetali, biodiversità. Ecco quali sono gli scenari cui stiamo andando incontro.
1. Gli eventi meteorologici si fanno sempre più estremi (allagamenti, dissesto e pericolo desertificazione)
Tra gli ambiti in cui i cambiamenti climatici si manifestano con maggior evidenza c’è quello dei cosiddetti eventi meteorologici estremi, divenuti in questi anni più numerosi e violenti.
In particolare, il rapporto dell'Ipcc ha sottolineato un aumento del rischio associato alle precipitazioni intense alle alte latitudini e/o ad altitudini elevate nell'emisfero settentrionale, in Estremo Oriente e nella parte orientale del Nord America.
E' la fisica stessa a insegnarcelo. Un’atmosfera più calda possiede anche più energia ed è in grado di generare fenomeni di maggiore intensità. Acquazzoni e grandinate che hanno colpito le nostre città in estate sono dunque la conseguenza diretta dei cambiamenti climatici?
Non si può dire che un singolo evento sia stato provocato dal cambiamento climatico: si tratta di fenomeni estremi e abbastanza rari, almeno considerando ogni singola località. I numeri sono piccoli e servono tempi lunghi per provare un legame.
Ma si prevede che sul lungo periodo, dato l'innalzarsi delle temperature, si verificherà un maggior numero di eventi intensi, alcuni dei quali saranno più violenti rispetto al passato.
Probabilmente i nostri colleghi di fine Duemila, che avranno a disposizione le statistiche dell’intero secolo, leggeranno chiaramente un incremento di questi fenomeni, sia come intensità che come frequenza. Noi ne stiamo vedendo solo l’inizio.
Per fenomeni intensi non si intendono solo violente precipitazioni, ma anche ondate di calore e, benché possa sembrare un paradosso, fenomeni di freddo intenso.
Anche questi ultimi sono dovuti alla destabilizzazione della circolazione generale e alla minore differenza di temperatura fra zone artiche ed equatore, dovute al fatto che ora nell’Artico fa più caldo: ciò significa venti meno forti, che si incurvano di più.
In tal modo, occasionalmente, flussi di aria artica possono raggiungere le basse latitudini, come gli Stati Uniti o l’Europa, e parallelamente flussi di aria tropicale possono spingersi fino alle latitudini polari.
L’aggravarsi dei fenomeni meteorologici è stato sottolineato anche nell’ambito del rapporto recentemente elaborato dalla Fondazione Cmcc (Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici), intitolato Analisi del rischio. I cambiamenti cimatici in Italia.
E' la prima analisi integrata del rischio climatico nel nostro Paese. Nei prossimi tre decenni, come ha evidenzialo nel corso della presentazione del report Donatella Spano, coordinatrice del team di trenta ricercatori che hanno co-firmato il documento, «l’intensità della pioggia, le notti tropicali, i giorni consecutivi senza precipitazioni sono visti in aumento sull’intero territorio nazionale, seppure con differenze a livello stagionale. Tali indicatori sono molto importanti, perché hanno influenza su diversi settori della società e dell’economia. Vale la pena ricordare l’aggravamento del rischio geo-idrologico e l’impatto sulla salute, sui consumi di energia elettrica, sull’agricoltura».
«Questi fenomeni intensi scaricano in pochissimo tempo molta acqua che, nelle città, spesso non riesce a essere veicolata dalle tubazioni di scarico, quindi tende ad accumularsi e a provocare allagamenti.
In periferia possono verificarsi fuoriuscite di corsi d'acqua tali da compromettere la viabilità, allagare quartieri, danneggiare i raccolti.
Viceversa, in caso di prolungate ondate di calore, con anticicloni che durano anche più di un mese, possiamo avere assenza di precipitazioni e, soprattutto in primavera-estate, conseguenti problematiche di approvvigionamento idrico».
All’aumento del numero di eventi di precipitazione intensa, si legge nel report del Cmcc, si associa «una crescente urbanizzazione del territorio che ha portato, da un lato, a un incremento dei deflussi e a una riduzione della capacità di smaltimento da parte degli alvei [...], dall’altro lato, a un aumento dell’esposizione al rischio» geologico, idrologico e idraulico, già particolarmente alto nel nostro Paese.
Se l’intensità massima di pioggia in un solo giorno è in aumento (un esempio lo abbiamo avuto in Piemonte, il 2 ottobre 2020, quando in poco meno di 24 ore è caduta la quasi totalità della precipitazione media annuale nella regione), lo studio attesta anche una riduzione delle precipitazioni, in particolare in estate per l’Italia Settentrionale e in primavera per il Centro e il Sud.
Unito allo sfruttamento delle risorse idriche e del suolo, all’urbanizzazione, agli incendi e alla siccità, ciò pone anche il nostro Paese a rischio desertificazione.
Come ha sottolineato la Corte dei conti europea, «la situazione è particolarmente grave in una vasta area della Spagna, nel Sud del Portogallo e dell’Italia, nella Grecia sudorientale, a Cipro e in alcune regioni di Bulgaria e Romania. [...] Le aree ad alto rischio di erosione interessano fino al 44% del territorio della Spagna, il 33% del Portogallo e quasi il 20% di Grecia e Italia».
2. L'aumento delle temperature e variazioni nelle precipitazioni influiscono sulle risorse idriche
Il report dell’Ipcc sottolinea che «i rischi legati al clima per la salute, i mezzi di sostentamento, la sicurezza alimentare, le scorte di acqua, la sicurezza umana e la crescita economica aumentano con un riscaldamento globale di 1,5 °C».
La minore disponibilità e il più difficile accesso alle risorse idriche costituiscono due delle tante facce del cambiamento climatico.
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione calcola che, nel 2025, 1,8 miliardi di persone conosceranno un’assoluta scarsità d’acqua, e due terzi del pianeta si troveranno in una situazione di stress idrico.
Un fenomeno che risulta particolarmente grave in alcune regioni del mondo e da cui il nostro Paese non è esente.
"Con un utilizzo medio tra il 30 e il 35% delle sue risorse idriche rinnovabili e con consumi in aumento (Who, 2018), l’Italia è considerata un Paese con stress idrico medio-alto" si legge nel rapporto del Cmcc, nel quale si sottolinea anche come il prelievo di acqua per uso potabile sia in crescita (+6,9% dal 1999), ponendo il nostro Paese al primo posto in Europa (Istat, 2019).
A ciò si aggiunge l’utilizzo in agricoltura, in ambito energetico e industriale, ancora una volta con numeri molto alti.
I mutamenti climatici hanno un impatto sempre più deciso sulle risorse idriche. In particolare, sottolineano i ricercatori del Cmcc, «i cambiamenti climatici modificheranno in modo marcato la variazione del flusso fluviale stagionale. [...] La crescente temperatura aumenterà l’evapotraspirazione e innalzerà il limite nevoso ad altitudini e latitudini maggiori e diminuirà le riserve nevose e glaciali».
Sorvegliato speciale è il Po, interessato da un anticipo del picco di portata primaverile da maggio ad aprile, a causa dell’accelerata fusione della neve. Allo stesso tempo, nel Nord Italia si evidenzia una riduzione del manto nevoso.
Il tipo di precipitazione è particolarmente rilevante per i bacini idrografici: per esempio, l’aumento delle piogge intense e la diminuzione della neve hanno come conseguenze un aumento delle portate minime fluviali e un maggior numero di eventi di magra.
A essere a rischio non è solo la quantità, ma anche la qualità dell’acqua: si legge nel report che le variazioni di temperatura e precipitazioni possono influire sui contenuti di ossigeno e sulla diffusione di organismi patogeni, così come rischiano di provocare alterazioni nel pH «instaurando condizioni di iperacidità o eccessiva salinità».
3. L'acidificazione degli oceani
Duplice è l’impatto del cambiamento climatico sugli oceani: aumento della temperatura per riscaldamento diretto e acidificazione, processo dovuto all’assorbimento della C02 in eccesso nell’acqua. In acqua, la CO2 si dissocia e forma acido carbonico, che libera ioni di idrogeno.
Questi sequestrano gli ioni di bicarbonato al calcio, con la conseguente riduzione del carbonato di calcio. Il risultato è un ambiente marino sempre più acido e corrosivo, depauperato del carbonato di calcio, mattone costituente del guscio di numerosi organismi marini, delle ossa dei pesci e nostre.
L’acidificazione comporta un abbassamento del pH dell'acqua, che ha già subito una riduzione di 0,1 unità rispetto ai livelli preindustriali, come sottolineato anche dal report dell’Ipcc: in 55 milioni di anni non era mai accaduto a tale velocità.
«Lo studio dei ghiacci antartici e i carotaggi hanno evidenziato che già in altre epoche l’oceano si è acidificato. Ma l’uomo sta accelerando questi processi. Se continuiamo così, entro la fine del secolo avremo un ulteriore abbassamento di 0,3-0,4 unità».
Il primo passo per invertire il processo è ridurre le emissioni di gas serra, interrompere le deforestazioni e incrementare la presenza di vegetali. A mare bisogna lavorare per proteggere le cosiddette “fanerogame”, piante marine come la Posidonia, che nei loro processi vitali rimuovono C02.
Per quanto riguarda, invece, la riforestazione a mare, si tratta di interventi molto costosi e poco efficaci; su larga scala oltretutto si rischia d’impattare due volte, perché le piante dovrebbero essere trapiantate da una zona all’altra.
Esistono soluzioni diverse, come i campi boe per limitare gli ancoraggi o il contrasto alla pesca illegale per ridurre/evitare l’impatto e la distruzione di Posidonia. Come sta il Mediterraneo?
Situato nella fascia temperata calda, il nostro mare è tra i più sensibili ai mutamenti climatici. Da un lato abbiamo avuto un significativo aumento della temperatura dalla metà degli anni Novanta.
Per quanto riguarda la riduzione di pH, è interessante notare che ci sono zone naturalmente più tendenti all’acidificazione: il nord Adriatico, che risente dell’immissione di molti fiumi; una parte del Mar Ligure, costeggiato da canyon che portano acque profonde (più acide) in superficie; e i cosiddetti “vents”, emissioni di C02 di origine vulcanica che fuoriescono dal fondo a Ischia, alle Eolie, in alcune isole greche, alle Baleari.
Queste aree, in cui si assiste a un naturale abbassamento del pH, sono laboratori portentosi; le chiamiamo “finestre sul futuro”, perché possiamo già assistere a quelle che saranno le conseguenze dell’acidiflcazione nel caso in cui le emissioni di gas serra dovessero mantenersi ai livelli attuali o aumentare. Su tutte, la perdita di metà delle specie marine, come osservato nei vents di Ischia.
4. Si altera la naturale armonia dei cicli vitali delle piante (a loro volta legati a quelli di insetti e altri animali)
Il legame che unisce clima e piante è complesso e reciproco.
Alle nostre latitudini siamo abituati a vedere che in autunno le foglie ingialliscono e si staccano, e la pianta va in riposo vegetativo; questa fase è seguita in primavera dal risveglio, quando le piante, data la maggiore disponibilità di acqua e luce, riprendono le attività.
Nel caso dei cambiamenti climatici, però, l'equilibrio instauratosi nel corso dei millenni rischia di alterarsi.
Potrebbe esserci una ripresa anticipata delle attività vegetative e, in caso di gelate tardive primaverili, potrebbero verificarsi danni, perché la pianta, anziché trovarsi ancora nella fase di riposo, si sarà risvegliata e avrà già le gemme aperte. Inoltre, potrebbe iniziare la fioritura precocemente, e questo è un problema, perché magari in quel periodo gli insetti impollinatori potrebbero essere ancora dormienti.
La desincronizzazione tra il ciclo vitale della pianta e quello degli impollinatori potrebbe avere conseguenze anche a lungo termine, impedendo la riproduzione. Inoltre, non si dovrebbero sottovalutare i rischi legati alla maggiore presenza di insetti fitofagi alloctoni (che trovano condizioni ambientali favorevoli grazie alle temperature più alte), di parassiti o microrganismi patogeni:
«Normalmente d'inverno uova e larve congelano, quindi in primavera abbiamo una minore proliferazione di organismi o insetti patogeni. Senza questo “effetto calmierante" le piante corrono il pericolo di dover sopportare un attacco parassitario molto più ingente.
Inoltre, tali patogeni trovano una pianta già debilitata (perché l’aumento delle temperature porta, per esempio, a una disidratazione del suolo) e incapace di difendersi. Anche le piante velenose, a causa dei mutamenti delle condizioni ambientali, potrebbero non essere più in grado di produrre quei metaboliti secondari che hanno sviluppato nel corso dei millenni e che consentono loro di difendersi dagli animali».
I cambiamenti climatici sono sempre esistiti: la Terra ha vissuto continuamente un’alternanza tra glaciazioni e periodi caldi.
Prima, però, i macrocambiamenti avvenivano in tempi lunghi, mentre le variazioni cui stiamo assistendo ora sono molto più veloci e c’è il rischio che gli ecosistemi non tengano il passo con le nuove condizioni ambientali, che le piante non riescano ad adattarsi.
5. I cambiamenti climatici mettono in pericolo la biodiversità e le ricchezze naturali del nostro pianeta
Nelle proiezioni dell’Ipcc, «approssimativamente il 4% [...] della superficie terrestre subisce una trasformazione da un tipo a un altro di ecosistema a 1°C di riscaldamento globale».
E ancora: «Su 105.000 specie studiate, nelle proiezioni con un riscaldamento globale di 1,5 °C, il 6% degli insetti, l'8% dei vegetali e il 4% dei vertebrati perdono più di metà delle loro aree geografiche di dislocazione climatica», con un grave impatto sulla biodiversità.
Notizie incoraggianti arrivano dalla Valutazione delle risorseforestali mondiali della Fao, che evidenzia come gli ettari di foresta andati perduti siano scesi da 7,8 milioni all’anno nel decennio 1990-2000 a 5,2 milioni all’anno nel periodo 2000-2010.
Dunque, le deforestazioni sono in calo (anche se proseguono in molte aree del pianeta) e le aree protette crescono.
Ma non dobbiamo dimenticare che, dal 1990 a oggi, abbiamo perso complessivamente 178 milioni di ettari di foreste, con tutto ciò che questo ha comportato in termini di conservazione delle numerose specie che le popolano.
Tra gli ambienti più a rischio troviamo l'Artico, le regioni alpine e le barriere coralline. Sono proprio queste ultime la vera emergenza.
L’acidificazione mette a rischio la sopravvivenza dei coralli. Tali organismi, poi, sono molto sensibili anche al riscaldamento; quando la temperatura sale, si assiste al bleaching: i coralli perdono i loro simbionti algali e si sbiancano come se fossero immersi nella varechina.
Teniamo conto che le barriere coralline hanno una distribuzione enorme in tutta la fascia tropicale-subtropicale del globo, sostenendo quasi 2 miliardi di persone.
Senza di esse, in queste zone non esisterebbe la vita come noi la conosciamo. Inoltre, si tratta degli ecosistemi più antichi e ricchi del pianeta, con una biodiversità che non può essere paragonata nemmeno a quella delle foreste tropicali.
La popolazione umana è numerosissima e richiede una quantità di cibo elevata, ma le fonti vegetali da cui estraiamo sostentamento non sono così numerose. In più, tendiamo a selezionare solo alcune cultivar che hanno determinate caratteristiche (per esempio, il frumento che dia solo chicchi grossi) e le coltiviamo in maniera estensiva.
Ma in questo modo abbiamo ridotto la biodiversità. Ed è un rischio: popolazioni così uniformi dal punto di vista genetico risultano anche deboli, perche un malanno, un parassita, un qualsiasi agente esterno che intervenga in modo negativo può causare una catastrofe.
C’è poi anche un aspetto culturale: ogni regione ha la sua varietà di fagiolo, pesca, ciliegia e così via: conservando la biodiversità proteggiamo anche le nostre tradizioni.