Infranse schemi e convenzioni della sua epoca; con il suo comportamento destò scandalo ma anche ammirazione: Livia Drusilla, divenuta Livia Augusta in seguito al matrimonio con Ottaviano, è senz’altro una delle grandi protagoniste della storia antica di Roma.
Su di lei gli storici antichi hanno scritto molto, senza tuttavia riuscire a dissipare le nebbie che occultano, in parte, la sua personalità.
Tacito e Svetonio, per esempio, la presentano come una donna intrigante e senza scrupoli, offrendone la visione poi ripresa dal romanzo Io, Claudio di Robert Graves (1895-1985); ma i loro testi rispondono a un chiaro intento politico: opporsi al Principato, che aveva cancellato l’antica libertas repubblicana.
Occorre perciò sfrondare le fonti antiche dai loro pregiudizi per riuscire a capire chi fu davvero Livia, una donna tanto influente da convincere il marito Augusto a scegliere come erede uno dei suoi figli, a scapito della stessa discendenza diretta dell’imperatore.
Ma chi era veramente Livia, la potentissima moglie di Augusto e imperatrice di fatto? Scopriamolo insieme.
1. Il divorzio e le nozze con Augusto
Livia proveniva da due delle famiglie più in vista di Roma. Il padre, Appio Claudio Pulcro, acquisì in seguito il nome di Marco Livio Druso Claudiano, essendo stato adottato da un tribuno amico del padre defunto.
I Claudii e i Livii erano stati protagonisti della storia della Roma repubblicana per secoli. La madre, Alfidia, apparteneva a una famiglia laziale di minore lignaggio, ma ugualmente facoltosa.
Da tale commistione di nobiltà e denaro, di orgoglio e pragmatismo, sarebbe nata la donna che avrebbe insegnato a generazioni di imperatrici come fare politica nell’ombra. Livia nacque il 30 gennaio dell’anno 58 a.C.
A 16 anni si sposò con Tiberio Claudio Nerone, senatore di basso rango. Nelle guerre civili che seguirono alla morte di Giulio Cesare (44 a.C.), suo padre e suo marito presero le parti della fazione repubblicana, costituita dai “liberatori” (gli autori del complotto per assassinare Cesare) e da Marco Antonio.
Entrambi ebbero cattiva sorte. Il padre si suicidò dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.), invece il marito dovette fuggire da Roma insieme con Livia e il piccolo Tiberio. Sarebbe rientrato in città solo nel 39 a.C.
A Roma Livia, incinta del suo secondo figlio, Druso, avviò una relazione con il peggior nemico di suo marito: Ottaviano, il futuro Augusto. In quei giorni di tumulti sociali, il fatto che l’erede di Cesare vivesse un’avventura adulterina con la moglie incinta di un seguace di Antonio destò scandalo.
Lo sconcerto aumentò quando Ottaviano divorziò dalla moglie Scribonia, nel giorno stesso in cui lei dava alla luce la sua unica figlia, Giulia. L’intenzione di Ottaviano era quella di sposare subito Livia, cosicché dovette chiedere un parere al collegio dei pontefici in merito alla possibilità di contrarre matrimonio con una donna gravida.
Il collegio decise a favore del governante, ma stabilì che il nascituro fosse riconosciuto figlio legittimo di Tiberio Claudio Nerone, anche se tutti sospettavano che il vero padre fosse Ottaviano. Alcuni mesi dopo, nato Druso, la coppia si sposò con una cerimonia sontuosa.
Tiberio Claudio morì opportunamente nel 33 a.C., e da quel momento i due figli vissero con Livia e Ottaviano, nominato loro tutore legale. La coppia formata da Livia e Ottaviano non fece più parlare di sé per i restanti 52 anni del matrimonio. Tutti gli storici antichi concordano sul fatto che Livia fu una moglie esemplare, virtuosa e fedele.
Ecco per esempio come Tacito, pur senza celare l’antipatia nei suoi confronti, descrive l’imperatrice: “Di una moralità d’antico costume, amabile al di là di quanto si reputava naturale nelle donne d’altri tempi, madre dominatrice, sposa compiacente, in sintonia con le astuzie del marito e con le dissimulazioni del figlio”.
Nella foto sotto, il tempio di Saturno. Edificato nel Foro romano attorno al V secolo a.c., era il più antico luogo sacro della città e l’emblema di quei valori della Roma antica che l’imperatore Augusto, anche tramite la figura di Livia, intendeva far rivivere.
2. Santificata in vita
All’epoca delle nozze tra Ottaviano e Livia, il regime del triunvirato, formato dallo stesso Ottaviano, da Marco Antonio e da Lepido, si stava incrinando.
Stanziatosi a Roma, Ottaviano diffuse l’immagine di una città virtuosa e conservatrice, in contrasto con la vita dissoluta che conduceva Marco Antonio ad Alessandria.
In questa immagine speculare della virtù romana e del vizio alessandrino, le donne giocavano un ruolo cruciale, e per questo alla sensuale Cleopatra Ottaviano volle contrapporre due figure femminili “all’antica”, incarnazioni delle virtù delle matrone romane: sua moglie Livia, appunto, e sua sorella Ottavia, che Antonio aveva lasciato a Roma per andarsene in Egitto.
Nel 35 a.C. Livia e Ottavia ricevettero dunque la sanctissima tribunicia, una sorta di santificazione in vita, con la protezione del potere statale. Non si poteva infliggere loro alcun danno, neanche uno sgarbo, pena l’accusa di attacco allo Stato.
Tale privilegio, di cui nessun’altra donna nella storia di Roma sarebbe stata insignita, fu concesso da Ottaviano con un duplice obiettivo: proteggere Ottavia dall’eventuale richiesta di divorzio di suo marito Antonio e garantirsi un pretesto per dichiarare guerra all’Egitto.
Inoltre, egli voleva rimarcare la virtù della moglie di un triunviro, Livia, al confronto con la corruzione dell’amante di un altro triunviro, Cleopatra, e santificare conseguentemente tutte le donne romane rispetto a quelle di Alessandria.
Infine, la sanctissima tribunicia garantiva a Ottavia e Livia la possibilità di disporre liberamente del proprio patrimonio, un diritto negato alle altre donne romane che non potevano vendere o comprare beni senza il consenso di un tutore legale (marito, padre ecc).
Tale privilegio avrebbe reso Livia una delle donne più ricche dell’Impero, con proprietà in varie province e un patrimonio di almeno 68 milioni di sesterzi (lo stipendio di un legionario si aggirava sui 300 sesterzi all’anno).
Oltre a queste concessioni particolari, le cosiddette Leges Iuliae, emanate tra il 18 a.C. e il 9 d.C., garantirono a Livia l’esenzione da qualsiasi tutela maschile (patria potestas), facendole acquisire, dal punto di vista legale, quasi gli stessi diritti di un uomo.
Nella foto sotto, la Porta Nigra di Treviri. Costruita in arenaria grigia tra il 180 e il 200 d.c., è il monumento- simbolo della città tedesca fondata da Augusto negli stessi anni in cui promulgava le Leges Iuliae (18 a.c.- 9 d.c.) a favore di Livia.
3. Potere nell’ombra
Il matrimonio di Livia con Ottaviano, che nel 27 a.C. acquisì il titolo di Augusto, fu, a giudicare dalle fonti storiche, felice: Livia divenne un autentico alter ego dell’imperatore.
Discuteva con lui di questioni di Stato, in particolare di politica interna, e grazie alla sua influenza molti dei suoi protetti ottennero posti di rilievo nel governo.
Livia era inoltre colei che muoveva i fili della politica dinastica, concertando matrimoni e divorzi. Dietro suo ordine furono compiute anche alcune delle esecuzioni che servirono a sfrondare i rami della dinastia Giulio-Claudia, favorendo l’ascesa al trono di suo figlio Tiberio.
Le cronache le attribuiscono con sicurezza la morte di Agrippa Postumo (nipote di Ottaviano, figlio di Giulia e di Agrippa) e, forse, quella di Marcello (il primogenito di Ottavia). Ma non tutto in Livia fu negativo: persino i suoi nemici le riconoscevano, per esempio, la dote di non abbandonare mai i familiari e gli amici in disgrazia.
Anche la figlia di Augusto, Giulia, mandata in esilio nell’isola laziale di Pandataria (Ventotene) con l’accusa di adulterio e di complotto contro l’Impero, godette della protezione di Livia, che in fin dei conti era sua suocera (Giulia infatti, dopo Agrippa, aveva sposato il fratellastro Tiberio su ordine dello stesso Augusto).
Nella gestione dei rapporti sociali, Livia mostrò chiaramente la sua volontà di diventare la “grande matrona di Roma”. Estese infatti la sua rete di conoscenze a parenti, amici e clienti in tutto il territorio dell’Impero romano, dall’Europa all’Asia fino all’Africa.
Tra i suoi protetti c’erano Salomè, sorella di Erode il Grande; Tolomeo di Mauritania e anche Urgulania, figlia di un console la cui nipote, Plauzia Urgulanilla, si sarebbe sposata con il futuro imperatore Claudio. Anche Servio Sulpicio Galba, imperatore tra il 68 e il 69 d.C., e Sesto Afranio Burro, prefetto pretoriano di Nerone, godettero del suo favore.
Il capolavoro di Livia fu, tuttavia, quello di far succedere ad Augusto il proprio figlio maggiore, Tiberio. L’imperatrice approfittò della morte di Agrippa, marito di Giulia, avvenuta nel 12 a.C., per proporre che suo figlio Tiberio, dopo il divorzio dalla moglie, sposasse la figlia di Augusto.
Tale unione appariva appropriata e anche vantaggiosa, poiché evitava che Giulia divenisse una vedova dai costumi dissoluti, e garantiva una figura paterna ai cinque figli di Agrippa, finché fossero giunti all’età di accedere al trono.
Tuttavia, sia per il comportamento libertino di Giulia, sia per il carattere di Tiberio, persona fredda e incline alla malinconia, il matrimonio non funzionò.
4. La successione di Tiberio
Tiberio ricevette da Augusto innumerevoli poteri e varie deleghe. Le qualità di Tiberio, che erano molte, non ebbero però nulla a che vedere con questi incarichi.
Il suo ruolo era importante solo in quanto genero/figliastro di Augusto e protettore dei suoi discendenti.
Nel 6 a.C., egli ricevette la potestà tribunizia (tribunicia potestas), primo passo verso la successione: la carica rendeva infatti sacra e inviolabile la persona di Tiberio, e gli conferiva inoltre il diritto di veto.
Ma Tiberio, stanco della moglie, e probabilmente anche della madre, chiese ad Augusto il permesso di ritirarsi sull’isola di Rodi. Forse a Tiberio andava stretto il suo ruolo di successore provvisorio, in attesa che i nipoti di Augusto raggiungessero la maggiore età.
E, di sicuro, non sopportava lo scomodo ruolo del marito tradito, dato che le infedeltà di Giulia erano note a tutti, tanto che Augusto definì la figlia come “un cancro”. Di fatto, la sua richiesta di andare a Rodi fu accettata, ma Augusto non perdonò al genero questa offesa e l’oltraggio inferto a sua figlia.
Cosicché, quando Tiberio chiese di ritornare e Livia appoggiò la sua richiesta, Augusto gli negò il permesso. Tiberio doveva rimanere a Rodi finché i nipoti fossero divenuti abbastanza adulti per succedere all’imperatore.
Augusto riteneva Tiberio responsabile anche dell’immoralità di Giulia, che aveva mandato in esilio per adulterio, anche se l’accusa probabilmente celava una grande congiura aristocratica ai danni dell’imperatore. Tiberio in esilio poteva però contare sull’appoggio di sua madre.
Il nipote minore di Augusto, Lucio Cesare (figlio di Giulia e del primo marito Marco Vipsanio Agrippa), morì in Gallia nel 2 d.C., in seguito a una malattia nella quale molti videro la mano della “malvagia matrigna” (infatti Augusto aveva adottato come figli i propri nipoti).
In tali circostanze, sembrò opportuno che Tiberio, in fin dei conti persona di grandi capacità militari e politiche, tornasse a Roma per aiutare Augusto, ormai sessantacinquenne.
Il trionfo di Livia fu completo quando poco dopo, nel 4 d.C., anche l’altro nipote Gaio Cesare, fratello di Lucio Cesare, morì in Licia a causa di una ferita forse avvelenata, e il terzo nipote, Agrippa Postumo, fu allontanato per la sua condotta mentalmente instabile.
Nel 4 d.C. Tiberio venne adottato come figlio e nominato successore dall’anziano Augusto, alla cui morte, nel 14 d.C., seguì l’immediata proclamazione di Tiberio imperatore e l’assassinio di Postumo, per mano di sicari inviati dal nuovo sovrano.
Nel testamento di suo marito, Livia veniva adottata da Augusto come figlia, acquisendo il titolo di Livia Augusta, il che significava che ella sarebbe stata considerata sia vedova sia orfana dell’imperatore defunto. Come se non bastasse, secondo le ultime volontà del marito avrebbe ricevuto un terzo dell’eredità.
Augusto, pertanto, disponeva che Livia fosse trattata da imperatrice, quasi sullo stesso piano del figlio. E il Senato assecondò appieno i desideri del fondatore dell’Impero, deliberando la concessione di innumerevoli titoli alla stessa Livia, finché proprio Tiberio non si oppose sostenendo che occorresse “mettere un limite agli onori concessi alle donne”.
Egli non poté tuttavia impedire l’esecuzione del testamento, in base al quale fu votata un’eccezione alla Lex Voconia, che limitava i diritti femminili all’eredità, né tantomeno che sua madre fosse nominata sacerdotessa del culto al nuovo “dio Augusto”.
Nella foto sotto, il pantheon Adrianeo. Eretto a Roma nel II secolo d.C. per ordine dall’imperatore Adriano, sorse sui resti di un precedente pantheon costruito nel 27 a.c. da Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto.
5. L’imperatrice divinizzata
Per alcuni anni, Tiberio e Livia condivisero il potere mostrando in pubblico grande correttezza reciproca, anche se il figlio non sopportava più la madre.
E i rapporti si deteriorarono ulteriormente dopo la morte del nipote di Livia, il generale Germanico, deceduto in circostanze sospette in Siria.
A Roma si vociferava che Livia avesse istruito il governatore del Paese, Gneo Calpurnio Pisone, e sua moglie Plancina, affinché avvelenassero Germanico, che rappresentava un pericolo per il potere di Tiberio.
Livia manovrò poi perché, nel processo intentato contro Pisone, la sua amica Plancina fosse assolta, indispettendo Tiberio. Alcuni anni più tardi, Tiberio si ritirò sull’isola di Capri; secondo Tacito, per sfuggire all’influenza materna.
Non tornò più a trovare Livia, tranne che in un’occasione. L’imperatrice morì nel 29 d.C., a ottantasei anni. Tiberio non assistette ai funerali della madre e si rifiutò di divinizzarla, come ella aveva desiderato.
Fu solo con i principati di Caligola e di Claudio, rispettivamente pronipote e nipote di Livia, che si compì il sogno dell’imperatrice di ascendere all’Olimpo degli dei. A quanto ci è dato sapere, Livia fu venerata come dea soprattutto nelle province asiatiche e in Egitto.
Ancora nel IV secolo, un poeta cristiano, Prudenzio, la cita come esempio di donna di scarsa moralità divinizzata dai pagani. Ma ciò avvenne solo perché il nome di Livia era ancora usato come sinonimo di buona fortuna, specie nei matrimoni.
Ancora oggi è possibile visitare i resti della casa di Livia sul Palatino, a Roma. La domus consiste in una serie di sale disposte intorno a un cortile coperto, con due colonne al centro.
Un corridoio conduce al peristilio a cielo aperto, circondato da vari cubicoli. Si ritiene che appartenesse a Livia poiché vi sono state rinvenute alcune tubature in piombo con l’iscrizione “Iulia Augusta”.
La casa dovrebbe risalire all’inizio del I secolo a.C., e i dipinti sulle pareti sembrano seguire il cosiddetto secondo stile pompeiano, la moda pittorica degli anni 35-20 a.C.
Secondo gli studiosi la casa fu acquistata da Ottaviano durante il triunvirato, e poi ceduta alla moglie quando l’imperatore stabilì la sua residenza ufficiale in un edificio adiacente sul colle.
Gli elementi più significativi della residenza sono i dipinti sulle pareti del tablinum (studio) e del triclinium (sala da pranzo), dove è rappresentata una bella scena mitologica: la sacerdotessa sorvegliata da Mercurio e Argo, forse copia di un originale affresco di Nicia, pittore greco del IV secolo a.C. (foto sotto).
L’altra villa di Livia è situata a Prima Porta, alla periferia nord di Roma. È probabile che Livia l’avesse ereditata da suo padre dopo che era stata confiscata nel 43 a.C., e che le fosse stata restituita come dote nuziale dopo il divorzio dal primo marito, Tiberio Claudio Nerone.
Abbarbicata su una collinetta, di essa è rimasto un padiglione con un vestibolo a volta, decorato con affreschi. Altri affreschi sono stati trasferiti al Museo nazionale Romano.