La Cavalcata de’ Magi era diventata ormai una consuetudine a Firenze e anche quel 6 gennaio 1449, come ogni Epifania, il sontuoso corteo guidato dai membri più illustri della casata dei Medici percorse la via Larga, per raggiungere il convento di San Marco.
Era l’occasione perfetta per ostentare ricchezza e potere, oltre che per celebrare la tradizione cristiana.
Per questo infatti avevano deciso di aspettare un paio di giorni in più del solito per battezzare l’ultimo arrivato: Lorenzo, figlio di Piero de’ Medici, il primo nipote maschio del vecchio Cosimo, il “gran mercante” fondatore delle fortune familiari.
Per quel frugoletto di cinque giorni appena, babbo Piero radunò una combriccola di padrini di tutto rispetto, tra cui il rappresentante del superbo signore d’Urbino, Federico da Montefeltro.
Uno dei tanti che, poco meno di una trentina di anni dopo, avrebbe provato a far fuori il proprio figlioccio. Questo significava vivere durante il Rinascimento, ma Lorenzo non poteva ancora saperlo. Viste le premesse, però, non c’è da stupirsi se il piccolo Gesù fiorentino crebbe orgoglioso, ambizioso e prepotente.
Ma chi fu veramente Lorenzo il Magnifico, l’abile banchiere, lo scaltro diplomatico, il visionario “talent scout” che diede vita a un mito che è durato secoli? Scopriamolo insieme.
1. TANTI VOLTI E NON SOLO PREGI
Capace di destreggiarsi con la stessa nonchalance fra le gonne delle belle dame, i brindisi all’osteria e i pugnali nascosti dietro la schiena nelle corti italiche, Lorenzo diede vita a un mito che è durato secoli, prima che gli studiosi moderni riuscissero a scalfirlo.
Scaltro diplomatico o crudele antilibertario? Generoso mecenate o genio della propaganda? Precoce talento letterario o rimatore dilettante? Abile banchiere o amministratore non del tutto capace e non proprio onesto dei beni della famiglia e della Repubblica di Firenze? Qual è la verità sul Magnifico protagonista della storia d’Italia di fine Quattrocento?
«La recente storiografia ha restituito un profilo più equilibrato di Lorenzo: quello cioè di politico molto accorto e prudente, di un mecenate di altissimo livello, che sulla gestione finanziaria ed economica della banca di famiglia non dimostrò però la stessa abilità del nonno Cosimo», spiega Gennaro Maria Barbuto, docente di Storia del pensiero politico medievale e rinascimentale all’Università Federico II di Napoli.
«Quanto al suo mito, affonda le radici nella pagine iniziali della Storia d’Italia, scritta da Francesco Guicciardini tra il 1537 e il 1540».
Prima di cominciare la tragica narrazione delle guerre d’Italia (una serie di conflitti combattuti prevalentemente nella nostra Penisola tra il 1494 e il 1559), Guicciardini esaltò il Magnifico come il grande politico che aveva saputo mantenere un equilibrio tra i potentati italici e trasformare la propria epoca in una specie di età dell’oro artistica ed economica.
Qua sotto, Lorenzo il Magnifico riceve il tributo di ambasciatori, 1556-1558 (quadro di Giorgio Vasari (1511-1574).
«Ma la visione dello storico era in parte condizionata dal tragico sacco di Roma del 1527, che lui stesso aveva vissuto. Prova ne sono le Istorie Fiorentine, scritte prima di quella catastrofe, in cui Niccolò Machiavelli tracciò un ritratto ambivalente di Lorenzo, includendone i difetti», prosegue l’esperto.
Del Magnifico, il collega di Guicciardini descrisse “la prudenzia sua [...], perché era nel discorrere le cose eloquente e arguto, nel risolverle savio, nello esequirle presto e animoso”. Ma notò anche che si dilettava troppo, per un uomo del suo livello, di “cose veneree” e “giuochi puerili”. Non occorre Freud per capire che quelle due anime contrapposte erano state alimentate dai genitori, a forza di parate scenografiche e precoci incarichi di responsabilità.
Nella foto sotto, "Il ritratto di famiglia" del Botticelli. L’immagine più emblematica dell’ambiente politico e culturale in cui visse il Magnifico è l’Adorazione dei Magi, pala d’altare realizzata intorno al 1475 da Sandro Botticelli e un tempo esposta nella basilica Santa Maria Novella.
Il dipinto fu commissionato da Giovanni del Lami, un personaggio di rilievo nel mondo delle finanze fiorentine e molto legato ai Medici da stretti rapporti d’affari. Nel tentativo di ingraziarsi le simpatie dell’influente casata, il committente suggerì al Botticelli una sorta di “ritratto di famiglia”, dove è possibile riconoscere i membri più illustri dei Medici accompagnati dalla loro “cerchia” di notabili e intellettuali.
Nello specifico, Cosimo il Vecchio, Piero il Gottoso e Giovanni sono raffigurati come i Re Magi in adorazione, mentre il giovane Lorenzo osserva la scena insieme al poeta Poliziano e al filosofo Pico della Mirandola. Nel dipinto compare anche lo stesso Botticelli.
1. Lorenzo de’ Medici, 2. Angelo Poliziano, 3. Pico della Mirandola, 4. Gaspare Zanobi del Lami (uomo d’affari, committente dell’opera), 5. Cosimo il Vecchio, 6. Piero il Gottoso, 7. Giovanni de’ Medici, 8. Giuliano de’ Medici, 9. Filippo Strozzi (banchiere), 10. Giovanni Argiropulo (scrittore e antichista), 11. Sandro Botticelli, 12. Lorenzo Tornabuoni (nobile fiorentino).
2. ESORDIO PREMATURO E LE SUE DONNE
Il padre, afflitto dalla gotta, lo diede infatti in pasto alla politica poco più che bambino.
Lorenzo fece la sua gavetta fra visite di rappresentanza e ambascerie alle corti di Milano, Roma, Napoli e Venezia: imparò così a muoversi tra i falsi sorrisi di veri e presunti alleati, ma non smise di trascorrere il tempo libero divertendosi con la sua chiassosa combriccola di amici, come qualsiasi viziato, ricco ragazzino.
Anche per questo, forse, non mostrò particolare entusiasmo quando, il 3 dicembre 1469, cioè la sera successiva alla morte di Piero, una delegazione di notabili fiorentini si presentò a Palazzo Medici “a confortarmi che pigliassi la cura della città e dello Stato, come avevano fatto l’avolo e il padre mio”, racconta lui stesso nei suoi Ricordi.
Accettò, ovviamente, ma “solo per conservazione delli amici e sustanzie nostre, perché a Firenze si può mal vivere ricco sanza lo Stato”: era il suo atto di fede alla religione del tornaconto, quella che avevano praticato anche il nonno e il padre.
«Come per tutte le famiglie italiche del Quattrocento, per i Medici l’interesse principale era rivolto a rafforzare il potere dei propri membri. Sta di fatto, però, che, grazie a Lorenzo, Firenze finì per godere in tutta Europa di grande prestigio culturale e politico», nota Barbuto.
Merito anche dei geni materni: da Lucrezia, che scriveva poemetti ed era amica di letterati e artisti, gli vennero infatti l’abilità con carta e penna, l’educazione umanistica e la precoce passione poetica, espressa in versi già a 14 anni.
Dalla madre, Lorenzo ebbe pure consigli matrimoniali: Clarice Orsini (foto sotto) fu infatti una sua scelta. A differenza del mondano fidanzato, l’impacciata ragazza aveva ricevuto un’educazione rigida e religiosa, ma possedeva i nobili natali che avrebbero aperto ai Medici la cerchia patrizia romana.
E, contro ogni pronostico, il matrimonio funzionò: dall’unione nacquero dieci figli e anche la reputazione di Lorenzo ne uscì migliorata. Con l’arrivo a Firenze della moglie, il giovane smise infatti di versare fiumi di inchiostro e di denaro per compiacere il suo primo grande amore, Lucrezia Donati, sposa di un ricco mercante fiorentino.
3. COME AUGUSTO
Ma se negli affetti Lorenzo era affabile e generoso, quando si trattava di lavoro alternava invece con facilità il pugno di ferro al guanto di velluto.
Se fosse vissuto nell’antica Roma, sarebbe stato una via di mezzo tra gli imperatori Augusto e Nerone: in politica interna collaborò infatti con le famiglie filomedicee atteggiandosi a primus inter pares (“primo fra uguali”) e cercando il consenso dei ceti più bassi a colpi di feste, spettacoli ed elargizioni, per usarlo come strumento di pressione nel braccio di ferro con gli aristocratici.
Perciò il popolo fiorentino lo amò e lo appoggiò sempre, soprattutto nei momenti più difficili, come durante la congiura dei Pazzi. L’agguato dei Pazzi (foto sotto) è tra le congiure più famose del Rinascimento, quella dei Pazzi, organizzata nel tentativo di metter fine alle vite di Lorenzo e di suo fratello Giuliano e al dominio della famiglia Medici su Firenze.
Il primo a lanciare l'idea pare fu Francesco de’ Pazzi, membro di una delle famiglie più influenti dell’oligarchia fiorentina. Lo seguirono a ruota il nipote del papa, Girolamo Riario,e l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati, con l’avallo del pontefice, del duca d’Urbino, del re di Napoli e della Repubblica di Siena: tutti avevano motivi politici e un tornaconto economico per avercela con Lorenzo.
I fratelli furono aggrediti il 26 aprile 1478, mentre ascoltavano la messa in Duomo: Giuliano fu ucciso con ferocia, Lorenzo, ferito in modo lieve, si barricò in sagrestia. Ma il popolo si sollevò contro i cospiratori e la vendetta fu terribile: alcuni furono subito impiccati e trucidati, altri braccati, mutilati e uccisi. Dei Pazzi, Lorenzo risparmiò solo suo cognato Guglielmo, costringendolo però all’esilio.
In quell’occasione, la vendetta di Lorenzo non si fermò neppure di fronte alle sottane degli ecclesiastici e questo peggiorò il suo già disastroso rapporto col pontefice Sisto IV.
Il papa, pur implicato nella congiura, si atteggiò a innocente scandalizzato e colse la palla al balzo per dichiarare guerra a Firenze, affiancato, tra gli altri, dal re Ferdinando I di Napoli e dal padrino di battesimo di Lorenzo. Ma quando stava ormai per avere la peggio, il Magnifico ribaltò la situazione.
Fu il suo più grande successo diplomatico: una strategia costruita allo scrittoio, dettando lettere convincenti, lusinghiere o minacciose, coronata dalla partenza segreta per Napoli alla fine del 1479.
Con questo viaggio, che si prolungò fino alla primavera dell’anno successivo, riuscì a sottrarre il re Ferdinando all’alleanza col papa e a scongiurare la minaccia che incombeva su Firenze. Ciò pose le basi della futura pace. Al suo ritorno, il 13 marzo 1480, il popolo lo salutò come il salvatore della patria.
Fu solo alla morte del pontefice (1484), però, che, grazie all’asse creato con Milano e Napoli, Lorenzo divenne l’ago della bilancia nelle complesse relazioni fra gli Stati più forti della penisola.
Anche agli occhi dei sovrani europei il Magnifico era diventato ormai il re senza corona di Firenze, fondatore di una “politica dell’equilibrio” fatta di alleanze, accordi e conquiste. Ma i giorni d’oro stavano per finire.
Dopo la sua morte, quando l’inetto figlio Piero non riuscì a evitare la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII (1494), cominciò un’altra storia: l’Italia non fu più il palcoscenico su cui esibire abilità diplomatica e politica, ma il teatro del primo grande conflitto dell’età moderna per la conquista dell’egemonia sull’Europa.
Lorenzo era morto da appena due anni, l’8 aprile 1492, logorato dalle complicanze della gotta. Un’altra spiacevole eredità di suo padre e di suo nonno.
Qua sotto, La Cavalcata dei Magi, dipinta nel 1459 da Benozzo Gozzoli nella cappella di Palazzo Medici Riccardi, ritrae in realtà il corteo dei Medici guidato da Lorenzo, seguito dal padre Piero e dal nonno Cosimo.
4. TALENT SCOUT
"Ammetteva nel gruppo dei suoi famigliari tutti quelli di cui aveva riconosciuto le doti naturali o il talento artistico, li trattava con generosità, li accarezzava e non li lasciava mai”.
Con queste parole Niccolò Valori, politico e letterato fiorentino contemporaneo di Lorenzo il Magnifico, sintetizzò l’attitudine di quest’ultimo a circondarsi di artisti, contribuendo così a donare a Firenze la sua “età dell’oro”.
Eppure, come sottolinea molta storiografia contemporanea, il suo mecenatismo non è paragonabile a quello del padre Piero o del nonno Cosimo il Vecchio, l’esponente della famiglia Medici che più di tutti si prodigò nel finanziare artisti e architetti per dar lustro alla città.
È a lui che si devono infatti molti monumenti ed edifici di Firenze, tra cui Palazzo Medici Riccardi, che racchiude la Cappella dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli. Appassionato di cultura umanistica, fu Cosimo a patrocinare la fondazione dell’Accademia neoplatonica, cenacolo di dotti e letterati presieduto dal filosofo umanista Marsilio Ficino.
Il ruolo di Lorenzo come mecenate è dunque una leggenda? Tutt’altro... Nei suoi oltre vent’anni di governo della Signoria (1469-1492), il Magnifico si dedicò alla protezione di artisti ed eruditi così come avevano fatto i suoi avi, ma a differenza loro portò avanti una politica culturale in cui le committenze dirette – che comunque vi furono – giocarono un ruolo secondario.
Nel complesso, come annotava il Valori, Lorenzo fu un “aggregatore” di talenti: «Ciò appare chiaro dal tipo di protezione che egli riservava a filosofi, artisti e letterati, ai quali amava presentarsi in qualità di amico, consigliere e collega, più che come principe che concede sovvenzioni in cambio di servitù cortigiana», conferma Giovanni Delle Donne, autore del saggio Lorenzo il Magnifico e il suo tempo (Armando Editore).
«Inoltre, fu egli stesso un letterato, s’interessò alle dottrine filosofiche e fu un grande collezionista di oggetti antichi». Lorenzo era un uomo di cultura a tutto tondo e, piuttosto che un mecenate nel senso classico del termine, preferì considerarsi un intenditore d’arte.
In questa veste, tentò di dare una specifica direzione alla produzione artistica fiorentina, preoccupandosi in prima persona della formazione di pittori e scultori.
5. IL MAGNIFICO GIARDINO, ARTISTI “AMBASCIATORI” E POETA TRA I POETI
L’esempio più nobile del mecenatismo di Lorenzo si riscontra nella fondazione della cosiddetta “Scuola del giardino di San Marco”, considerata la prima Accademia di Belle Arti d’Europa.
Si trattava di un laboratorio aperto a giovani talenti, che si trovava fra Palazzo Medici e piazza San Marco, dove Lorenzo conservava la propria collezione di sculture antiche. Il giardino di San Marco, fondato dopo il 1475, aveva lo scopo di offrire la possibilità di acquisire una formazione più vasta e accurata di quella che si riceveva nelle botteghe tradizionali.
Gli allievi potevano esercitarsi copiando i modelli antichi e imparando le “regole” della tradizione classica, sotto la direzione dello scultore Bertoldo di Giovanni, discepolo di Donatello».
Altra peculiarità del Magnifico fu lo stretto rapporto col vivace ambiente delle botteghe fiorentine, che gli permise di entrare in confidenza con artisti dello spessore di Antonio del Pollaiolo, Andrea del Verrocchio, Domenico Ghirlandaio e Sandro Botticelli, il pittore mediceo per eccellenza.
Negli ultimi anni della vita di Lorenzo, entrò a far parte della cerchia delle persone a lui vicine anche un giovane Michelangelo Buonarroti, che all’età di 12 anni era entrato nel laboratorio del Ghirlandaio imparando le tecniche del disegno fiorentino. E quando il Magnifico gli chiese di indicargli qualcuno fra i suoi migliori allievi, per inserirlo nella scuola di San Marco, il Ghirlandaio fece tra gli altri proprio il nome del Buonarroti.
Fu così che Michelangelo entrò nel “giardino”, ricevendovi la sua prima formazione come scultore. Ma il Magnifico gli offrì un’ulteriore opportunità, aprendogli nel 1490 le porte della propria residenza a Palazzo Medici, dove il giovane artista soggiornò per almeno due anni.
Qua sotto, Lorenzo il Magnifico, circondato dagli artisti nel giardino delle sculture, incontra Michelangelo che gli mostra la testa di un fauno, affresco (1638-1642), Palazzo Pitti. L'episodio è reso celebre dal racconto di Giorgio Vasari, in cui Michelangelo presenta a Lorenzo una statua da lui realizzata, ma facendola passare per antica. Quando Lorenzo scopre il trucco, paternamente, fa notare a Michelangelo che i vecchi satiri non hanno i denti.
Prima di Michelangelo, Lorenzo aveva attratto nella propria orbita anche Leonardo da Vinci, ma si trattò di una frequentazione breve, iniziata intorno al 1479 e conclusasi già nel 1482, quando il maestro toscano si trasferì presso la corte milanese di Ludovico il Moro.
Anzi, pare proprio che sia stato Lorenzo a raccomandarne la partenza. Possibile che se lo sia fatto “scappare”? In realtà faceva parte della politica del Magnifico, che per affermare il primato culturale di Firenze nel panorama italiano permetteva ai “suoi” artisti di lavorare anche in altri centri, così da diffondere lo stile fiorentino e portare in alto il nome della città.
Già nel 1481, su richiesta di papa Sisto IV, aveva inviato a Roma un folto gruppo di pittori per affrescare le pareti della Cappella Sistina. Si trattava di Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, Piero di Cosimo e Luca Signorelli, tutti fiorentini o comunque formatisi a Firenze.
Qualche anno dopo partì anche il Verrocchio, per lavorare a Venezia, mentre il Pollaiolo, che il Magnifico definiva “il principale maestro di questa città”, si recò a Roma. Persino il suo architetto preferito, Giuliano da Sangallo, fu raccomandato al re di Napoli. Insomma, Lorenzo usava gli artisti come “ambasciatori” culturali.
Nell’esclusiva rete di amicizie del Magnifico, prima ancora che gli artisti, trovarono posto i maggiori esponenti della cultura umanista fiorentina: su tutti, i poeti Luigi Pulci e Agnolo Ambrogini, detto Poliziano, affiancati dai filosofi Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, i quali rielaborarono in chiave cristiana l’antico neoplatonismo.
Con la sua esclusiva corte di letterati, il Magnifico amava ritirarsi nella villa di campagna a Careggi, dialogando di filosofia, amore e poesia, proprio come in un antico simposio greco. Quest’ambiente ebbe un forte ascendente sulla sua formazione, tanto che non fu solo abile nel patrocinare le arti, ma anche un uomo di lettere e un prolifico compositore di versi.
Sempre pronto a sperimentare nuovi stili, il “Lorenzo poeta” spaziò tra generi molto diversi, passando dalla poesia colta alle rime d’amore d’ispirazione dantesca, fino ad arrivare agli scritti burleschi e disimpegnati.
Di sua invenzione sono i Canti carnascialeschi, componimenti metrici che venivano musicati in occasione delle feste di carnevale cittadine, molto amate dal popolo fiorentino. Il più famoso di questi è senz’altro Il Trionfo di Bacco e Arianna, vero inno alla giovinezza e ai piaceri della vita.
Il suo incipit lo conosciamo tutti: “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”. Il principe di Firenze lo scrisse in occasione del Carnevale del 1490, due anni prima di morire (a soli 43 anni), come se sentisse l’urgenza di cantare l’amore e le altre gioie terrene finché ne aveva ancora la possibilità.