L’ottimismo è il profumo della vita, recitava uno spot di qualche anno fa.
Ed è uno slogan assai meno metaforico di quel che potremmo supporre, perché guardare il mondo con gli occhiali rosa allunga letteralmente l’esistenza, allontanando anche il rischio di guai di salute come tumori, infarti, ictus: l’elenco di malattie che la fiducia nel futuro tiene alla larga è lungo e secondo alcuni scienziati potrebbe includere perfino la Covid-19.
Che l’ottimismo sia dunque il vaccino più efficace (e a basso costo) che ci sia?
Sorridere al mondo mantiene giovani, allontana le malattie e allunga la vita oppure è vero il contrario, cioè chi è in salute e magari pure baciato dalla buona sorte è giocoforza più positivo?
Gli avvocati del diavolo propendono per la seconda ipotesi, ma pare che si sbaglino: gran parte degli studi in materia hanno tenuto conto delle condizioni di salute di pessimisti e ottimisti tracciandone poi il destino anche per i successivi quarant’anni e i risultati sembrerebbero incontrovertibili: l’ottimismo fa bene a prescindere da istruzione, conto in banca, malattie presenti e così via.
Ma che cosa lega il pensiero positivo al calo della pressione e del colesterolo, il guardare alla vita con fiducia all’ammalarsi meno? Scopriamolo insieme.
1. VACCINO NATURALE E PESSIMISTI A RISCHIO
Pare di sì, a giudicare dai risultati degli studi che hanno indagato proprio l’effetto dell’atteggiamento mentale sulle immunizzazioni: chi è più ben disposto, fiducioso e ottimista produce per esempio il 73 per cento di anticorpi in più dopo il vaccino per l’epatite B, stando a un’indagine dell’Università di Pittsburgh (Usa).
Lo stesso è stato verificato per l’antinfluenzale e altri vaccini al punto che Lena Brydon psicologa all’University College di Londra, dopo aver analizzato le conseguenze del pensiero positivo sulla risposta vaccinale, ha concluso che «l’ottimismo agisce come un “adiuvante” dei vaccini, potenziandone l’effetto e contrastando anche l’azione negativa dello stress, che favorisce l’infiammazione».
Questo è solo uno dei tanti modi con cui una visione rosea del futuro innesca reazioni benefiche in corpo e mente, ma di certo torna comodo in tempi di vaccinazione anti-Covid. Tra l’altro, il virus stesso trova terreno meno fertile negli ottimisti, che di solito hanno una buona risposta immunitaria e quindi combattono meglio contro qualsiasi germe, coronavirus compreso.
Gli effetti dell’atteggiamento psicologico sul sistema immunitario sono evidenti e non solo in caso di risposta a un’infezione: è stato dimostrato per esempio che nei pazienti con tumore sottoposti a chemioterapia i risultati, a parità di intervento, sono nettamente migliori negli ottimisti perché la risposta immunitaria “aiuta” la terapia a funzionare di più.
Gli scienziati negli ultimi mesi hanno cercato di capire se e come l’ottimismo possa essere d’aiuto durante la pandemia e i dati delle ultime ricerche mostrano chiaramente che mettere gli “occhiali rosa” serve eccome: gli operatori sanitari più pessimisti e per questo meno capaci di resilienza, per esempio, sono risultati a maggior rischio di burnout, depressione, ansia e stress.
Questo peraltro è vero anche per la popolazione generale: Marco Tommasi del Dipartimento di Medicina e Scienze dell’Invecchiamento dell’Università di Chieti, valutando l’impatto fisico e psicologico del lockdown sugli italiani, ha scoperto che solo chi ha fiducia nel futuro ed è ottimista ha resistito all’ansia e alla depressione da isolamento.
L’effetto è ancora più netto negli anziani, stando a un’ulteriore indagine: quelli portati per natura a essere disfattisti sono risultati più vulnerabili e riferiscono di avere una qualità di vita più bassa in questo periodo di emergenza sanitaria.
E contagiano perfino i familiari che si occupano di loro, che infatti dichiarano di sentire maggiormente il peso della cura, e di essere più stressati e infelici rispetto a familiari e assistenti con un atteggiamento positivo.
Negli anziani una valutazione dell’ottimismo è poi utile per misurare il grado di fragilità: analizzando i tratti del carattere di un gruppo di over 65, la correlazione è emersa chiaramente.
Chi non è più giovanissimo ed è “negativo” di natura insomma dovrebbe essere seguito più da vicino dai medici, anche perché rischia più di altri sotto tanti punti di vista: durante l’International Stroke Conference del 2020 sono stati presentati dati secondo cui negli ottimisti gli eventuali ictus sono meno gravi e lasciano minori disabilità residue.
Non solo: di recente Alan Rozanski, del Dipartimento di cardiologia del Mount Sinai Hospital di New York, analizzando quindici studi su circa 230mila persone è arrivato alla conclusione che gli ottimisti hanno una probabilità del 35 per cento più bassa di andare incontro a malattie cardiovascolari, dall’infarto all’ipertensione.
2. CUORE PIÙ SANO
La correlazione fra ottimismo e salute cardiovascolare è marcata: chi vede il mondo attraverso le lenti rosa «ha il doppio di probabilità di avere cuore e vasi sani rispetto ai pessimisti, anche tenendo conto di variabili socio-demografiche e del grado di benessere mentale», osserva Rosalba Hernandez dell’Università di Urbana-Champaign in Illinois (Usa), che ha dimostrato come essere pessimisti comporti per esempio avere il colesterolo più alto e livelli di glicemia elevati, quindi anche un maggior pericolo di diabete.
«I pessimisti sono più sedentari, fumano di più e sono più spesso in sovrappeso», precisa Hernandez.
Come se non bastasse, hanno pure una maggior probabilità di dover essere sottoposti ad angioplastiche ripetute per “riaprire” coronarie occluse e scongiurare infarti fatali, inoltre per loro è più probabile un decorso complicato dopo le operazioni chirurgiche (raddoppia, per esempio, il rischio di un nuovo ricovero dopo un intervento di bypass).
Tanto che Alan Rozanski ha suggerito di «offrire un trattamento psicoterapeutico contro il pessimismo ai pazienti in riabilitazione cardiologica dopo un infarto o un’operazione di cardiochirurgia».
Il risultato di uno sguardo cupo sul futuro, infatti, non è difficile da immaginare: la ricerca di Hernandez e lo studio di Rozanski hanno dimostrato con chiarezza che gli ottimisti vivono di più. Per la precisione, hanno in media un rischio del 14 per cento più basso di morire anzitempo per qualsiasi causa.
Invecchiano in salute e diventano più spesso arzilli vecchietti: lo sottolineano i dati pubblicati di recente da alcuni ricercatori dell’Università di Harvard che, seguendo nell’arco di trent’anni oltre 70mila persone, hanno osservato come vedere il bicchiere sempre mezzo pieno significhi campare l’11-15 per cento più a lungo, e avere dal 50 al 70 per cento di probabilità in più di spegnere 85 candeline e oltre.
Secondo dati raccolti dal Danish Aging Research Center dell’Università della Danimarca del Sud, proprio l’atteggiamento positivo sarebbe il miglior elisir di lunga vita: è l’ottimismo, infatti, il tratto psicologico comune a tutti i centenari.
Che credono nel futuro ma non lo sfidano: «Sono ligi alle regole di un corretto stile di vita, in genere bevono e fumano di meno; sono più sani e tendono a non esporsi ai pericoli per esempio correndo in macchina e rischiando incidenti», commenta Enrico Zanalda, presidente della Società Italiana di Psichiatria.
«Non si infilano in situazioni stressanti e non vivono con ansia gli eventi problematici della vita, hanno un tono dell’umore migliore e anche invecchiando restano positivi».
3. PIÙ GIOVANI SCEGLIENDO BUONE COMPAGNIE
Ecco perché gli ottimisti vivono meglio la loro età e andando in là con gli anni tendono pure a sentirsi più giovani, a tutto vantaggio del benessere generale.
Non a caso ottengono punteggi più bassi nel test SubjAge, che misura l’età soggettiva, quella che ci “sentiamo” (e che ovviamente è legata a doppio filo con quanto siamo vigorosi e in salute).
Il test, messo a punto da Alex Zhavoronkov e Maria Mitina grazie a dati del progetto Midlife in the United States del National Institute of Aging statunitense, misura in quindici domande gli anni che ci sentiamo addosso (si può fare in pochi minuti sul sito app.young.ai/psychoage).
Nel test, chi per esempio pensa che continuerà ad avere una vita sessuale soddisfacente anche nei prossimi dieci anni guadagna in gioventù e non è solo un effetto apparente.
Come precisano Zhavoronkov e Mitina, infatti, un sessantenne ottimista che si sente i suoi sessant’anni, ma non uno di più, oltre ad avere una vita sessuale sicuramente più soddisfacente, ha la metà delle probabilità di morire negli anni successivi rispetto a un coetaneo con un’età soggettiva di 65 anni.
L’ottimismo quindi allunga la vita e ringiovanisce, ma deve essere “genuino” e non di facciata: chi si sforza letteralmente di sorridere alla vita può perfino trarne svantaggi, come dimostra una ricerca statunitense secondo cui le persone che lavorano a contatto con gli altri e fingono o amplificano emozioni positive hanno un maggior rischio di esagerare con il consumo di alcol.
Invece di sforzarsi a dimostrare allegria può semmai aiutare avere accanto un ottimista, come ha sottolineato di recente William Chopik, psicologo dell’Università del Michigan (Usa): un partner con un approccio fiducioso alla vita sprona anche chi è catastrofista a prendersi più cura di sé, tanto da ridurre il pericolo di deficit cognitivi.
Specifica Chopik: «C’è una componente ereditaria nell’ottimismo, alcuni geni sembrano favorirlo; tuttavia conta di più l’ambiente. Anche se non si può prescrivere con la facilità di una pillola, la positività si può imparare soprattutto da chi ci vive accanto».
E prima ci si siede alla scuola di un cuorcontento meglio è, come osserva lo psichiatra Enrico Zanalda: «L’ottimismo si apprende soprattutto nei primi anni di vita, dal comportamento che i genitori hanno con noi: costruire una solida sicurezza in se stessi è il prerequisito per affrontare il mondo con positività e per farlo servono relazioni sane da piccoli. Le esperienze successive hanno un peso e possono cambiarci, ma un “imprinting ” ottimista da mamma e papà è il primo passo per guardare con fiducia alla vita».
4. GLOBULI BIANCHI PIÙ LONGEVI E METABOLISMO PIÙ EFFICIENTE
Ma che cosa lega il pensiero positivo al calo della pressione e del colesterolo, il guardare alla vita con fiducia all’ammalarsi meno?
Gli scienziati hanno varie ipotesi in merito e una di queste è senz’altro la migliore conoscenza dei “nemici”: gli psicologi Nathan Radcliffe e William Klein della Temple University statunitense hanno infatti dimostrato che gli ottimisti sono più informati in tema di salute.
Per esempio, conoscono meglio i fattori di rischio per le malattie cardiovascolari e sanno più dei pessimisti come e perché si può andare incontro a un infarto. Basta questo a renderli più pronti in caso di sintomi.
Ma i meccanismi che legano la buona salute all’ottimismo sono soprattutto biologici. Il pensiero positivo migliora il tono dell’umore, riducendo lo stress e quindi la produzione degli ormoni correlati; questi a loro volta hanno effetti diretti sullo stato infiammatorio e la risposta immunitaria.
Il cortisolo, l’ormone dello stress, è per esempio mediamente più basso negli ottimisti così come l’adrenalina: questo aiuta a dormire meglio, a rilassarsi, ad avere un sistema immunitario in salute.
Ciò che avviene nel cervello influenza l’attività di tutti i tessuti e quindi la sintesi di innumerevoli molecole, non solo ormoni, che poi modificano le condizioni di salute generale e influiscono sui fattori di rischio.
Tra tutti gli elementi che contribuiscono alla biologia dell’ottimismo, una buona immunità è forse il più studiato: Laura Kubzansky dell’Università di Harvard, che da anni indaga gli effetti del vedere il bicchiere mezzo pieno su marcatori biologici, ha per esempio dimostrato che gli ottimisti hanno livelli più bassi di proteina C reattiva e di interleuchina-6, entrambe molecole connesse all’infiammazione, e pure globuli bianchi con telomeri più lunghi (i “cappucci” dei cromosomi che si accorciano mentre la cellula invecchia): tutto questo si traduce in un livello di infiammazione generale più basso e un sistema immunitario più “giovane” e pronto a rispondere in caso di minacce.
Un dato confermato da analisi condotte su studenti a cui veniva iniettata sottocute una sostanza immuno-reattiva: il rigonfiamento che indica una risposta immune pronta ed efficiente era sempre più grande negli ottimisti. Grazie agli effetti positivi sullo stress, l’infiammazione e l’immunità, innumerevoli altri indicatori di salute migliorano.
A tutto vantaggio per esempio del sistema cardiovascolare, che dopo quello immunitario è probabilmente il più “protetto” dall’ottimismo: la riduzione dello stato infiammatorio ha conseguenze dirette sullo stato delle arterie e, come spiega Kubzansky, «vedere sempre il lato positivo, oltre ad associarsi a una maggiore quantità di molecole anti-infiammatorie in circolo, è correlato anche a un incremento dei livelli di antiossidanti. Questo riduce per esempio la pressione arteriosa: lo abbiamo verificato su oltre centomila persone seguite per tre anni e mezzo, l’influenza è talmente evidente da abbassare la probabilità di ipertensione del 22 per cento».
Le arterie restano infatti più elastiche, così pure la variabilità del ritmo cardiaco, che diminuisce a tutto vantaggio della salute di cuore e vasi. Inoltre, nelle persone di mezza età che guardano con più fiducia al futuro, il colesterolo cosiddetto “buono” HDL aumenta, mentre i trigliceridi diminuiscono.
Aggiunge Kubzansky: «L’attività dei sistemi della coagulazione si riduce e con lei il rischio di trombi; la circolazione del sangue resta più fluida anche grazie alla diminuzione dell’aterosclerosi e a una migliore funzionalità dei vasi sanguigni».
Nelle arterie sane degli ottimisti, per giunta, non circola zucchero di troppo: lo ha dimostrato Matthew Freiberg del Vanderbilt University Medical Center di Nashville in Tennessee (Usa), analizzando su poco meno di 3.500 donne in menopausa la relazione fra la disposizione d’animo nei confronti del mondo e il metabolismo del glucosio.
Che peggiora all’aumentare del pessimismo: i livelli di insulina e glucosio nel sangue sono migliori in chi è ottimista e anche l’insulinoresistenza dei tessuti, anticamera del diabete, è meno frequente in chi pensa positivo.
5. CAPACITÀ VITALE E NIENTE VITTIMISMO
Come se non bastasse pure i polmoni ci guadagnano: chi è pessimista vive praticamente sempre con la sensazione di fiato corto che si prova sotto stress, quando quasi sembra che manchi l’aria.
Kubzansky, seguendo per otto anni un gruppo di circa 700 uomini, ha dimostrato per la prima volta che il sistema respiratorio funziona meglio se si è ottimisti perché si respira letteralmente più a fondo, come se ci togliessimo un peso dal petto.
«Il volume espiratorio massimo al primo secondo e la capacità vitale forzata (due indicatori che si misurano con la spirometria e sono indicativi della funzione polmonare, ndr) sono più alti negli ottimisti, segno di una migliore capacità di respiro; inoltre, invecchiando tendono a calare di meno», dice Kubzansky, che adesso sta studiando se anche il microbiota, cioè l’insieme dei batteri intestinali, sia diverso in chi trova sempre il lato positivo della vita.
«Tutti questi dati indicano che c’è un legame stretto fra l’atteggiamento ottimista o pessimista e la fisiologia dell’organismo: abbiamo studiato a lungo le conseguenze nefaste delle emozioni negative sulla salute, ma non è solo la loro assenza a farci bene, è proprio vivere con un atteggiamento positivo a ridurre il nostro profilo di rischio complessivo», specifica Kubzansky.
Inoltre, l’ottimista ha maggiori risorse emotive e cognitive per adattarsi agli eventi, specialmente quelli stressanti. È più flessibile e quindi più resiliente, capace di affrontare le avversità senza soccombere.
«Chi guarda alle cose in modo positivo si adatta alle circostanze più difficili ma senza restarne “schiacciato”, sente di avere sempre il controllo su di sé e la realtà. Basta pensare a chi è colpito da una grave malattia: sentirsi vittima e chiedersi perché è successo porta ad attribuire un significato “magico” al male e a pensare di non poterci fare nulla, invece l’ottimista valuta gli elementi in gioco e si rimbocca le maniche per affrontare il problema, attingendo a tutte le risorse che ha, comprese le relazioni con gli altri».
Lo conferma un’ampia ricerca dell’Università del Kentucky, secondo cui l’ottimista è più capace di focalizzarsi su quel che conta davvero, cercando le modalità più adeguate per gestire i problemi senza però ignorarli.
Il “cuorcontento” insomma non nasconde i guai sotto il tappeto ma, «ha più frecce nel suo arco per affrontarli: non si spaventa degli ostacoli, cerca soluzioni e ne immagina pure di più grazie a una maggior capacità di risoluzione dei problemi e di pensiero strategico, inoltre controlla meglio le emozioni negative che potrebbero ostacolarlo».
Per farlo, stando a una ricerca di Heather Rasmussen dell’Università di Pittsburgh (Usa), l’ottimista agisce a livello razionale (riconsiderando le situazioni come sfide in cui cimentarsi anziché come minacce a cui soccombere) e comportamentale (ponendosi scopi a cui puntare senza restare in balia di quel che accade giorno per giorno e che potrebbe compromettere l’umore).
E siccome l’ottimista è anche realista, non si pone obiettivi impossibili: così li raggiunge, trovando ulteriori motivi per sorridere alla vita.