Una delle differenze fondamentali tra l’essere umano e gli altri animali riguarda il fatto che il primo è dotato di una coscienza di sé e del proprio comportamento.
Questo significa che le sue azioni non sono dettate solo dall’istinto, ma anche dalla consapevolezza delle loro conseguenze.
Ogni comportamento diviene così soggetto a un giudizio etico e morale, e viene giudicato buono oppure cattivo, così come buono o cattivo viene definito chi lo mette in atto.
Il problema, quindi, è individuare i criteri rispetto ai quali bontà e cattiveria possano trovare una loro precisa definizione, e renderle sempre individuabili. Ammettere l’esistenza del male, tuttavia, comporta una serie di conseguenze filosofiche decisamente importanti e di non facile soluzione.
I concetti di bene e male sono così interconnessi che la definizione del secondo non può prescindere dal primo.
Se consideriamo il male in senso “soggettivo”, usiamo il termine per dare valore negativo a un’azione o a un comportamento che contravviene a una norma etica (che riguarda la condotta) o morale (riferita a principi ideali), esprimendo quindi un giudizio; se invece ci riferiamo all’ambito metafisico, “oggettivo”, stiamo parlando del male come uno dei poli della dualità che, insieme alla sua antitesi, il bene, compone l’essere.
Bene e male sono due concetti che fin dall’inizio della storia del pensiero l’uomo considera fondamentali per delineare la sua stessa natura. Eppure, la loro definizione non è sempre chiara e condivisa e, a volte, risultano difficili da distinguere.
1. L’essenza del male
Per quanto riguarda il male (e il bene) soggettivo, è John Locke (1632-1704, foto sotto) a definirlo chiaramente nel Saggio sull’intelletto umano: «L’uomo chiama buono l’oggetto del suo desiderio, cattivo quello del suo odio».
In questo caso, i termini "buono" (bene) e “cattivo” (male) acquistano senso solo in relazione a chi li usa, non in senso assoluto: è bene ciò che ci rende felici, è male quello ci procura danno o dolore.
L’approccio oggettivo al problema del male, invece, considera quest’ultimo come indipendente dal giudizio etico o morale e fa riferimento a un principio metafisico, la cui verità risiede al di là del nostro mondo e quindi della nostra opinione.
Un’altra importante precisazione che dobbiamo fare, prima di cercare di cercare di rispondere alla domanda sull’esistenza del bene e del male e sulla loro essenza, è quella di stabilire se intendiamo i due termini in “senso lato” (cioè, allargato), oppure ristretto.
Nel primo caso, nella definizione includiamo sia i fenomeni naturali che le idee e le azioni di agenti dotati di capacità di giudizio: gli uomini. Per esempio, il terremoto è un male naturale, un omicidio è invece da considerarsi un male morale.
Se però limitiamo le nostre considerazioni solamente alla sfera morale, allora stiamo considerando i due concetti nel loro senso ristretto. Così, quando ci interroghiamo sul perché il male esista nel mondo o perché Dio permette la sofferenza e il dolore, stiamo considerando il male da un punto di vista oggettivo e in senso lato; se invece stiamo discutendo le idee o le azioni di un personaggio storico negativo, come Adolf Hitler, adottiamo un’interpretazione soggettiva e ristretta del termine.
La storia del pensiero filosofico, però, insegna che è impossibile parlare del bene o del male senza evocare immediatamente l’altro elemento della dualità. Addirittura, sant’Agostino (foto sotto) definisce il male, semplicemente, come “assenza di bene”.
Molto prima, Democrito aveva stabilito che i due sono una coppia di opposti che, come le altre che definiscono la realtà esistente, quando si trovano in equilibrio determinano una situazione di armonia.
Conoscere l’uno, quindi, significa conoscere anche l’altro. Ma questo non ci aiuta a rispondere alla domanda: come possiamo stabilire cosa è bene e cosa è male?
Per Protagora (e per molti ancora oggi), «l’uomo è la misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono, in quanto non sono».
2. La capacità di discernere
Un atteggiamento del genere incoraggia un relativismo morale assoluto, per cui ognuno di noi può stabilire cosa sia bene e cosa sia male per poi agire di conseguenza.
Alcuni allievi di Protagora, come Trasimaco, arrivarono a dichiarare che non esistono leggi morali, e che definire un’azione buona o malvagia è solo questione di abitudine o tradizione: in natura, il forte domina sul debole, e la morale è soltanto un artificio umano per limitare tale incontrovertibile legge naturale.
Ancora più estremo Callicle, secondo il quale è diritto dell’uomo più forte affermare la propria volontà su quella altrui. Difficile, qui, non immaginare ad analogie con il “superuomo” di cui parlerà Friedrich Nietzsche (foto sotto) circa ventiquattro secoli più tardi.
Molto diversa è invece l’idea di Socrate, per il quale il male nasce dall’ignoranza. Secondo il filosofo ateniese, la distinzione tra bene e male è insita nell’animo umano: per individuarla, egli non deve fare altro che “conoscere sé stesso”; quindi il massimo bene è rappresentato dalla conoscenza (intesa, appunto, come piena coscienza di sé stessi) e non dipende né dalle contingenze in cui ci ritroviamo, né dai nostri desideri.
Anche Platone è convinto che la distinzione tra bene e male sia innata nell’animo umano, ma che essa venga dimenticata prima del momento della nascita e che possa venire recuperata attraverso la ricerca della conoscenza del mondo delle idee, dove si può trovare il bene assoluto, identificato come attributo dell’Uno, la divinità.
Dal momento che Dio è perfetto per definizione, da lui non può discendere alcun male, che allora deve per forza appartenere alla materia. Quindi, per Platone, il male è riconoscibile nell’attaccamento alla dimensione concreta.
In effetti, per chi ha una visione religiosa del mondo nella quale un dio perfetto ha creato il cosmo, almeno a livello teorico riconoscere il male è semplice: esso rappresenta tutto ciò che allontana l’uomo da Dio, il quale, come da definizione, è perfezione e bene assoluto.
Estremizzando questa posizione, nel XIII secolo il tedesco Meister Eckhart (foto sotto) sviluppò un approccio mistico al problema, secondo il quale il bene corrisponde alla perfetta unione con Dio, e per ottenerla l’uomo deve annullare sé stesso; di converso, l’attaccamento alle cose terrene allontana l’uomo dalla divinità.
Se però Dio è solo bene, allora il male non può originarsi da Lui. Ma allora, perché esiste il male? Da dove ha origine? Epicuro fu tra i primi a porsi la domanda.
Se Dio è infinitamente buono, non dovrebbe accettare l’esistenza del male; se invece non vuole l’esistenza del male, ma non può impedirla, allora non è onnipotente. È un dilemma condiviso ancora oggi da molti, credenti e non, e che ha tormentato a lungo sant’Agostino.
Egli, nel V secolo, dedicò le sue riflessioni a giustificare la posizione di Dio rispetto al problema del male: quella che dodici secoli più tardi Leibniz chiamerà “teodicea”.
Naturalmente, da cristiano, Agostino credeva nel peccato originale, quindi faceva risalire la nascita del male a quella trasgressione; tuttavia, ciò non risolve il problema, dal momento che, in tal caso, ci si potrebbe chiedere perché Dio non abbia semplicemente impedito all’uomo l’accesso al frutto proibito.
La risposta di Agostino (foto sotto) si basa sul concetto del libero arbitrio: Dio ha lasciato all’uomo la libertà di scelta tra il bene, che corrisponde all’osservanza delle leggi divine, e il male, che coincide con la loro trasgressione. Dio dunque potrebbe impedire il male, ma non lo fa, perché questo significherebbe interferire con il libero arbitrio.
L’uomo allora, con le sue decisioni, deve essere considerato l’unico responsabile della presenza del male nel mondo.
3. Due concetti relativi
Finora, a parte l’accenno all’approccio sofistico al problema, si è parlato di bene e male prevalentemente in senso assoluto, cercando una risposta unica e sempre valida.
Ma, fin dal Medioevo, molti pensatori hanno riflettuto sul fatto che, forse, soprattutto il concetto di male debba essere considerato in termini relativi.
Tra i primi a suggerire un’ipotesi del genere, nel XII secolo, è Pietro Abelardo, filosofo e teologo francese, secondo il quale a essere buone o cattive non sono le azioni, quanto le intenzioni: un ladro che rubi non per arricchirsi, ma spinto dall’intenzione di fare del bene, per esempio per sfamare i poveri, è egli stesso buono.
In questo caso, Dio non giudicherebbe l’atto, ma lo spirito con il quale viene compiuto. Una visione “pericolosa”, diremmo oggi, perché sembra giustificare troppo facilmente molte azioni moralmente discutibili.
Doveva essere lo stesso timore di san Tommaso d'Aquino quando, due secoli più tardi, si sentì in dovere di specificare che le buone intenzioni non bastano: occorre anche la piena consapevolezza che il risultato finale sarà buono.
Infatti, poiché tutto ciò che è buono discende da Dio e l’uomo è al servizio di Dio, agire con la coscienza di perseguire il bene significa fare il bene. Vedremo che Kant (foto sotto), nel XVIII secolo, riprenderà l’argomento, ma proponendolo sotto un punto di vista differente.
Il “relativismo” del bene e del male si fa ancora più pronunciato in Thomas Hobbes, secondo il quale il significato attribuito ai due termini non solamente cambia a seconda dell’epoca e delle condizioni storiche e sociali, ma anche a livello individuale.
Dal momento che, secondo il pensatore inglese, l’uomo è egoista per natura, per ognuno di noi è bene ciò che ci soddisfa, male quello che ci causa dolore e disagio.
Cartesio, dal canto suo, dà ragione a chi crede che l’uomo non possa conoscere perfettamente la differenza tra bene e male, e ciò, sempre secondo il pensatore francese, a causa della distrazione provocata dai desideri e dai sentimenti.
Anche secondo il suo contemporaneo Spinoza (entrambi appartengono al XVII secolo), bene e male sono relativi, nel senso che un’azione può apparire buona o cattiva, a seconda che questa sia funzionale al raggiungimento di un risultato oppure lo ostacoli.
In effetti, se (come Spinoza, foto sotto) crediamo in un Dio immanente (che cioè è in tutte le cose), ma indifferente all’uomo, non possiamo immaginare che esistano un male e un bene assoluti.
4. Il dualismo dentro di noi
Come abbiamo visto, la visione socratico-platonica prevede che i princìpi di bene e male siano innati nell’uomo.
Immanuel Kant e Johann Fichte (1762-1814, foto sotto) partono dallo stesso presupposto, ma il loro pensiero approfondisce alcuni elementi nuovi e importanti, rendendo questo approccio a noi più comprensibile.
Kant spiega che la distinzione tra i due opposti poggia su alcuni criteri di scelta che sono conoscibili razionalmente. In ogni caso, per avere valore, la scelta tra bene e male dev’essere compiuta da una volontà libera, in grado di decidere di seguire il bene (la legge morale), anche quando ciò non provoca piacere.
Per esempio, se dicendo la verità sappiamo di provocare dolore, dobbiamo comunque farlo, perché è nostro dovere. Per Kant, quindi, bene e felicità non vanno necessariamente a braccetto, anzi: voler conseguire il primo significa essere disposti a rinunciare alla seconda.
Al contrario, la cattiveria, intesa come il male compiuto dall’uomo, corrisponde a una scelta deliberata, quella di anteporre il proprio interesse alla legge morale. Kant, insomma, mette l’accento sull’intenzione, e considera la vera bontà riferibile solo alla volontà di fare il bene: daessa discendono le buone azioni e tutte le cose buone.
Fichte la pensa diveramente: sottolinea il fatto che è la pratica della legge morale a produrre il bene. La conoscenza della legge morale è il risultato dell’evoluzione della nostra coscienza, dunque la formula per fare il bene diventa quella di «agire secondo coscienza».
Kant e Fichte, quindi, non solo ci dicono che, in quanto uomini, possiamo distinguere il bene dal male, ma anche che abbiamo il dovere di desiderare il bene e che poi dobbiamo metterlo in pratica.
Certo, possiamo dubitare ancora se l’atto che ci apprestiamo a compiere avrà conseguenze buone; ma, ci rassicura Kant, se l’intenzione è buona noi stiamo comunque facendo il bene.
5. Norme di comportamento
Finora, abbiamo visto che le riflessioni filosofiche sul bene e sul male hanno riguardato soprattutto il singolo individuo.
Ma l’uomo vive immerso in una società, e le sue azioni riguardano e influenzano anche la vita degli altri: è difficile non tenerne conto quando ragioniamo su ciò che può essere giusto o sbagliato.
Per alcuni filosofi, come Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806- 1873), il bene coincide con tutto ciò che porta alla massima felicità possibile per il maggior numero possibile di individui.
Schopenhauer (foto sotto), dal canto suo, trova nella compassione nei confronti del prossimo e nella partecipazione al suo dolore la via per liberarsi, sia pure per un istante, da dolore e noia; il bene, allora, così, nella pratica della giustizia e della carità.
Più ottimista, Herbert Spencer (1820-1903) si rifà a una visione “biologica” e, come contemporaneo di Charles Darwin, chiama in causa la teoria dell’evoluzione naturale: per lui, il bene corrisponde al comportamento che rende la vita dell’individuo e della società la migliore possibile.
Quella che Spencer ci propone è dunque una visione relativa, perché ciò che è bene per la società può cambiare nel corso della Storia, quindi sono ammessi (anzi, vengono richiesti) continui aggiustamenti.
A chiudere il cerchio arrivano William James (1842-1910, foto sotto) e John Dewey (1859-1952) che, come spesso accade nello sviluppo del pensiero filosofico, propongono una sintesi delle proposte precedenti.
In questo caso, si tratta di considerare la felicità e il benessere del singolo individuo e e quelli della società come equivalenti e, pertanto, occorre valutare la bontà o la malvagità di un’azione o di una decisione in funzione del fatto che l’esito finale sia il miglioramento delle condizioni di vita per il singolo e la collettività.
Note
Etica e morale: ecco la differenza
Quando si parla di bene e male, per indicare l’ambito di applicazione dei due concetti si utilizzano i termini etica e morale, spesso considerandoli intercambiabili. In effetti, i due sostantivi hanno un’origine simile (il primo deriva dal greco ethos, il secondo da quello latino mos, entrambi riferiti ai costumi e alle usanze).
Oggigiorno, tuttavia, hanno assunto connotazioni tali da renderli sottilmente, ma profondamente, diversi.
La morale può essere intesa come la raccolta delle norme e dei valori che dovrebbero guidare l’uomo ad agire nella maniera corretta, quindi tendendo al bene.
L’etica, invece, riguarda soprattutto il comportamento, cioè l’applicazione delle norme all’interno dell’esperienza quotidiana.
La morale, insomma, può essere considerata l’ambito in cui si discute sulla natura di ciò che è bene o male, mentre l’etica è quello in cui si studia quali comportamenti siano giusti (buoni) o errati (cattivi).