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Margherita Sarfatti: una donna affascinante, colta e intelligente che “inventò” Mussolini

Margherita Sarfatti non era un gerarca e nemmeno un uomo, ma senza questa donna affascinante, colta e intelligente, forse il provinciale Benito Mussolini non sarebbe mai riuscito a conquistare il potere, diventando per vent’anni il Duce degli italiani.

Margherita era nata a Venezia l’8 aprile 1880, dalla ricca famiglia ebrea dei Grassini. Caduta nell’oblio per decenni, la sua figura di raffinata intellettuale è stata ripescata di recente.

Se non si fosse compromessa con il fascismo, Margherita Sarfatti sarebbe stata probabilmente una delle donne più ammirate e importanti del XX secolo, forse addirittura un’icona del moderno femminismo.

Rimase invece nell’immaginario collettivo come l’amante ebrea di Mussolini, doppiamente tradita per un’altra donna e un’altra ideologia.

Ma chi era veramente Margherita Sarfatti, questa donna affascinante, colta e intelligente? Scopriamolo insieme.

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1. L’incontro fatale con Mussolini

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Margherita era nata a Venezia l’8 aprile 1880, dalla ricca famiglia ebrea dei Grassini.

La sua infanzia e la sua adolescenza trascorsero in un clima sereno e culturalmente assai vivace.

Nel 1898 sposò l’avvocato Cesare Sarfatti e nel 1902 la coppia decise di lasciare Venezia per Milano, dove giunse alla metà di ottobre. Qui i due iniziarono a frequentare assiduamente gli ambienti socialisti, incontrandosi con Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

Grazie a loro conobbero un’altra coppia di spicco nel panorama culturale milanese, l’avvocato Luigi Majno e la moglie Ersilia Bronzini, presidentessa della Lega femminista fondata nel 1888 dalla stessa Kuliscioff, con cui Margherita iniziò a collaborare attivamente.

Nel 1908 i coniugi Sarfatti si trasferirono in un lussuoso appartamento di corso Venezia, dove Margherita aprì un salotto destinato ad accogliere in breve tempo i più bei nomi dell’arte italiana.

Nel 1909 la coppia acquistò una residenza di campagna a Cavallasca, tra Como e la Svizzera, già appartenuta alla nobile famiglia degli Imbonati. Margherita la chiamò “Il Soldo”, facendone la casa di vacanza e una sorta di dépendance del suo salotto cittadino.

Nel frattempo, il suo amore per l’arte si stava trasformando in professione: ormai scriveva regolarmente per l’«Avanti! della domenica», il supplemento settimanale del quotidiano socialista.

Nello stesso periodo conobbe Umberto Boccioni, più giovane di lei di un paio d’anni, con il quale ebbe una fugace relazione. Ben presto il salotto milanese di Margherita divenne il centro del Futurismo italiano, nato nel 1909 e consolidatosi poi nel 1910.

I pittori dell’avanguardia facevano la spola tra la casa dei Sarfatti e quella di Filippo Tommaso Marinetti, sempre in corso Venezia, e in quegli anni di straordinario fermento artistico Margherita entrò in contatto con i migliori intellettuali dell’epoca. Nella foto sotto, Margherita nel quadro L’attesa di Gian Emilio Malerba,  1916

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Si arrivò così al 1912, l’anno fatale: a gennaio Anna Kuliscioff fondò il quindicinale «La difesa delle lavoratrici», e Margherita fece il suo ingresso nella redazione.

In luglio, a Reggio Emilia si tenne in via straordinaria il XIII congresso socialista, motivato dalle divisioni che attraversavano il partito in seguito alla controversa Guerra di Libia, scoppiata nel settembre del 1911.

Il congresso si concluse con la vittoria della corrente massimalista e l’espulsione dei riformisti, invocata a gran voce da un giovane socialista che si stava imponendo sulla scena italiana: Benito Mussolini, che a ottobre assunse la direzione dell’“Avanti!”.

Il 1° dicembre s’insediò a Milano e Margherita, appartenente alla corrente turatiana riformista uscita perdente dal congresso, si presentò alla sede del giornale per dare le dimissioni. Benché il contesto non fosse ideale, tra i due nacque un’immediata simpatia, che non tardò a diventare una passione travolgente.

La relazione, benché tempestosa, si sarebbe protratta per vent’anni, in un sodalizio sentimentale e politico che avrebbe impresso una svolta decisiva al destino di Mussolini e dell’Italia.

Nel 1914, l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e della moglie Sofia a Sarajevo scatenò la Prima guerra mondiale, travolgendo con un drammatico effetto domino le potenze europee.

L’Italia non entrò subito in guerra al fianco degli Imperi centrali, come prevedeva il patto della Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria; il Paese si spaccò tra neutralisti e interventisti, e Mussolini fu protagonista di un clamoroso cambio di casacca, passando dal neutralismo socialista all’interventismo sbandierato dai nazionalisti.

Nel novembre di quell’anno Mussolini, lasciata la direzione dell’”Avanti!”, fondò un nuovo quotidiano, “Il popolo d’Italia”. Con lui, anche due donne: la sindacalista Maria Rygier e l’ormai inseparabile Margherita.

Interventista convinta, la Sarfatti dovette toccare con mano la cruda realtà della guerra: nel gennaio del 1918 cadde il suo primogenito Roberto, di appena 18 anni.

Il 15 dicembre 1917, sul “Popolo d’Italia” Mussolini aveva pubblicato un articolo intitolato Trincerocrazia, in cui sosteneva l’esistenza di una nuova aristocrazia, che «muove già i primi passi. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di “presa di possesso” delle posizioni sociali. È un travaglio oscuro, intenso, di elaborazione, che ricorda quello della borghesia francese di prima dell’89... Questa enorme massa — cosciente di ciò che ha fatto — produrrà inevitabilmente degli spostamenti di equilibrio. Il rude e sanguinoso tirocinio delle trincee significherà qualche cosa. Vorrà dire più coraggio, più fede, più tenacia».

E fu con coraggio, con fede e con tenacia che Margherita scelse di restare al fianco di Mussolini, negli anni decisivi del dopoguerra.

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2. “O marci o muori”

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Il 23 marzo 1919 era in piazza San Sepolcro, a Milano, alla fondazione dei Fasci di combattimento, e nell’ottobre del 1922 fu al Soldo che si decise la Marcia su Roma.

Nei giorni precedenti, mentre gli squadristi di Balbo e Farinacci erano in agitazione, Mussolini si riservava ancora di decidere il da farsi.

Tanto che il 26 ottobre, mentre le camicie nere si apprestavano a convergere sulla capitale, si recò al teatro Dal Verme, a Milano, per la prima del Lohengrin di Wagner. Fece lo stesso anche la sera dopo, presentandosi al teatro Manzoni, dove si rappresentava un dramma di Molnár, Il cigno.

A metà del secondo atto Luigi Freddi, giovane redattore del “Popolo d’Italia”, lo avvisò che a Cremona gli squadristi, con un anticipo di qualche ora sui piani, avevano «occupato il telefono, il telegrafo, la posta, la prefettura e altre sedi governative», mentre già si registravano una decina di vittime.

Alla sede del giornale si preparavano le barricate, mentre partivano gli autocarri con le copie del manifesto, pronto segretamente da giorni, che la mattina seguente sarebbe stato affisso in tutta Italia.

Al Manzoni, quella sera, c’era anche Margherita, alla quale Mussolini si rivolse invitandola a rifugiarsi al Soldo in attesa degli eventi, per passare in Svizzera nel caso in cui l’impresa fosse fallita.

Al Soldo i due ci andarono davvero e fu lì che Margherita, si dice, convinse Mussolini a rompere gli indugi: «O marci o muori, ma so che marcerai». Il 28 ottobre Roma fu invasa dalle camicie nere guidate dai quadrumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi. Mussolini aveva lasciato il Soldo all’alba per recarsi a Milano.

La sera stessa, dopo essere stato a teatro con la moglie Rachele e la figlia Edda, tornò alla redazione del “Popolo d’Italia”, presidiata in armi, dove trovò Margherita, che gli consigliò di accettare l’offerta, avanzata dal ministro Antonio Salandra, di entrare nel governo.

Mussolini, però, prese tempo, e nella tarda mattinata del 29 ricevette una telefonata del generale Cittadini, che a nome del re lo incaricava di procedere alla formazione di un nuovo governo.

Accortamente, la Sarfatti gli suggerì di farsi mandare un telegramma, temendo che la telefonata potesse essere soltanto un trucco per attirarlo a Roma. Il telegramma arrivò nel giro di venti minuti, e in serata Mussolini partì per la capitale.

Vi giunse il giorno seguente, e il 31 ottobre giurò, come capo del governo e insieme ai suoi ministri, davanti al re. Il “Popolo d’Italia” titolava: «Mussolini riconsacra l’Italia di Vittorio Veneto, creandole un governo degno dei suoi immancabili destini».

Da quel momento, Margherita entrò a pieno titolo nell’entourage di Mussolini, impegnata a riempire il fascismo di contenuti culturali. Nella foto sotto, Sarfatti ospite al Kulturbund di Vienna, dove parla dello stile di vita del 20esimo sec. sotto Mussolini – tra il pubblico anche A. Mahler e F. Werfel.

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3. La donna del duce

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Nel marzo del 1923, per il quarto anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, organizzò la prima esposizione del gruppo Novecento, fondato nel 1922 e composto da pittori e scultori fra i più validi del periodo: Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi.

Se la guerra non se li fosse portati via prematuramente, tra loro ci sarebbero stati anche Umberto Boccioni e Antonio Sant’Elia, caduti rispettivamente nell’agosto e nell’ottobre del 1916.

La mostra si propose come modello esemplare di “arte fascista”, che dispiacque ad alcuni artisti: gli stessi che qualche anno dopo, quando Mussolini si sarà imposto saldamente alla guida del Paese, faranno carte false per aggregarsi al gruppo, attratti dai vantaggi materiali e morali garantiti dal regime.

Il 1924 fu un anno durissimo: nonostante il dolore per la morte del marito Cesare, avvenuta a gennaio, Margherita riuscì a restare accanto a Mussolini, invischiato nel tragico scandalo del delitto Matteotti. Ma le cose stavano per cambiare radicalmente.

Nel 1923 Giuseppe Prezzolini, il fondatore della rivista «La Voce», era stato invitato a tenere un corso estivo presso la Columbia University di New York. Di ritorno in Italia, disse alla Sarfatti che sarebbe stata una buona idea scrivere un lavoro in inglese per illustrare oltre oceano la figura del nuovo primo ministro italiano.

Lei seguì il suo consiglio, e cominciò a scrivere la biografia di Mussolini. Il libro, intitolato semplicemente The Life of Benito Mussolini, “La vita di Benito Mussolini”, uscì in Inghilterra nel settembre del 1925. L’anno seguente venne pubblicato in Italia dalla Mondadori con il titolo, assai più dirompente, Dux.

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Fu un successo strepitoso: diciassette ristampe in Italia, traduzione in diciotto lingue (compreso il turco), 300 mila copie vendute in Giappone. Margherita Sarfatti divenne per tutti “la donna del Duce”, compagna, consigliera e ispiratrice dell’uomo che teneva in pugno le sorti della nazione.

Nel 1928 si trasferì definitivamente a Roma, stabilendosi non lontano da Villa Torlonia, residenza ufficiale di Mussolini e della sua famiglia, ma la sua stagione di ninfa Egeria del fascismo stava ormai per terminare.

Non era soltanto il rapporto tra Benito e Margherita a essere cambiato, ma il clima generale del regime, sempre più orientato verso una retorica “imperiale” che la Sarfatti non condivideva e dalla quale mise in guardia più volte Mussolini, inutilmente.

Nella foto sotto, una rara immagine pubblica di Mussolini insieme a Margherita (seduto tra i due, lo scrittore Luigi Siciliani).

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4. La Petacci e le leggi razziali

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Nel 1932 fu lui a imprimere una brusca svolta alla loro relazione, allontanandola dal “Popolo d’Italia”. Margherita approdò al quotidiano torinese “La Stampa”, dove pubblicò il suo primo articolo il 23 marzo.

Un mese dopo ebbe luogo il fatale incontro di Mussolini con Claretta Petacci, e la Sarfatti lentamente uscì sia dalla vita sentimentale del Duce sia da quella politica del Paese.

Ormai Mussolini non aveva più bisogno di lei, né come amante né come partner politica. Anzi, il carattere forte e l’indipendenza di giudizio di Margherita ne facevano una potenziale avversaria, e il Duce non poteva certo permettersi di tenersi accanto chi avrebbe potuto rivoltarglisi contro.

Contraria all’imperialismo colonialista e alla guerra d’Etiopia, Margherita si recò diverse volte negli Stati Uniti cercando invano di aprire un canale tra Roosevelt e Mussolini. Le “inique sanzioni” del 1935 segnarono l’ineluttabile avvicinamento del fascismo alla Germania hitleriana, sancito dal viaggio di Hitler in Italia del maggio 1936.

Nel settembre del 1938, le leggi razziali varate dal fascismo, scopertosi antisemita, decretarono la disgrazia definitiva della Sarfatti, che a novembre lasciò l’Italia per stabilirsi a Parigi e nel 1939 si trasferì a Montevideo, in Paraguay, risparmiandosi gli orrori della guerra (e verosimilmente la tragica fine toccata invece alla Petacci).

Rientrò in patria nel 1947, nel disinteresse generale. Nel 1955 pubblicò Acqua passata, un libro di memorie in cui prendeva in qualche modo le distanze dal lungo periodo trascorso al fianco di Mussolini. Morì a Cavallasca, dove si era ritirata, il 30 ottobre 1961.

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Caduta nell’oblio per decenni, la sua figura di raffinata intellettuale è stata ripescata di recente: se non si fosse compromessa con il fascismo, Margherita Sarfatti sarebbe stata probabilmente una delle donne più ammirate e importanti del XX secolo, forse addirittura un’icona del moderno femminismo.

Rimase invece nell’immaginario collettivo come l’amante ebrea di Mussolini, doppiamente tradita per un’altra donna e un’altra ideologia. Dopo la disfatta del fascismo, Margherita Sarfatti negò di aver mai pronunciato la frase «O marci o muori: ma so che marcerai».

In realtà l’aveva detta Marinetti e l’aveva ripresa D’Annunzio, ma non è improbabile che potesse averla ripetuta anche lei. Pur sostenendo, in seguito, di non aver mai ricoperto un ruolo centrale nella fatale decisione presa da Mussolini, non rinnegò mai le proprie scelte:
«Già nel 1919, immediatamente dopo la Prima guerra mondiale, l’Italia si avviava alla dittatura. Di un tipo o di un altro ma sarebbe stata una dittatura. Noi italiani abbiamo combattuto disperatamente contro questa sorte, ma era una lotta impari in cui il destino ci riservava un pessimo mazzo di carte.
Avevamo solo due scelte possibili: anarchia immediata e sanguinosa con tutti gli orrori della guerra civile o la nascita di un governo forte in grado di cogliere ogni opportunità di trasformarsi in dittatura. Ancora oggi non credo che la maggioranza delle persone avessero torto quando istintivamente scelsero la seconda possibilità».

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5. Quando il socialismo faceva cultura

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L’«Avanti! della domenica» fu il prestigioso supplemento settimanale al quotidiano socialista “Avanti!”, che uscì dal 1903 al 1907.

Sotto la direzione dell’intraprendente Vittorio Piva, morto ad appena 32 anni proprio nel 1907, la rivista fu la testimonianza più vivace del dibattito tra le due anime del socialismo di inizio secolo, il riformismo e il massimalismo.

Piva riuscì nell’intento, apparentemente impossibile, di far dialogare le due correnti dando vita a un’esperienza culturale straordinaria, alla quale parteciparono gli intellettuali più brillanti dell’epoca: alcune copertine, per esempio, erano firmate da Umberto Boccioni e Mario Sironi, che di lì a poco sarebbero diventati esponenti di spicco del Futurismo.

Sulle pagine del supplemento, nato in antitesi alle testate “borghesi” «La Domenica del Corriere» e «La Tribuna illustrata», scrissero, insieme a Margherita Sarfatti, anche Edmondo De Amicis, Guelfo Civinini (che fu librettista per Giacomo Puccini), Goffredo Bellonci, Tommaso Monicelli (padre del futuro regista Mario) e Gabriele D’Annunzio.

La prematura scomparsa di Piva segnò la fine del supplemento, che non uscì più. Fece una breve ricomparsa nel 1912 e fu poi rifondato nel 1998 come organo dei Socialisti Democratici Italiani (Sdi), cessando definitivamente le pubblicazioni nel 2006.

La relazione tra Mussolini e la Sarfatti fu sempre appassionata, nel bene e nel male. Gelosissima, Margherita giunse al punto di far scontare a Benito le sue numerose infedeltà infliggendogli una cocente umiliazione.

Era il 1919, e il maestro Arturo Toscanini aveva da poco scoperto un giovane violinista ceco dallo straordinario talento, Váša Píhoda. La Sarfatti non si lasciò sfuggire l’occasione di invitare il musicista nel suo salotto di corso Venezia, organizzando un’esibizione privata per pochi fortunati.

Tra i convenuti, naturalmente, c’era anche Mussolini. La performance di Píhoda entusiasmò tutti, ma cessati gli applausi Margherita annunciò che quella sera anche un altro violinista si sarebbe esibito: Benito Mussolini.

Il quale sapeva suonare il violino e conosceva bene anche la musica, se è vero, come testimonia la stessa Sarfatti, che in sua presenza aveva letto a impronta uno spartito di Vivaldi, ma certamente non poteva reggere il confronto con il talentuoso ceco.

Mussolini si schermì, ma non ci fu niente da fare: dovette suonare anche lui, nell’imbarazzo generale, e subito dopo abbandonare in tutta fretta casa Sarfatti adducendo improbabili scuse. La vendetta di Margherita si era consumata.

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