Un po’ in disparte, senza farsi vedere, il ricco mercante di stoffe Francesco del Giocondo osserva compiaciuto il pittore che sta ritraendo la sua terza moglie, la nobile Lisa Gherardini, attorniata da «chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra per levar via quel malinconico che suol dar spesso la pittura a’ ritratti che si fanno».
Né Francesco, né Lisa e neanche il pittore possono immaginarlo, ma quel ritratto in cui la malinconia lascia il posto al mistero diventerà l’opera più nota e controversa del suo autore: la Gioconda di Leonardo da Vinci.
È Giorgio Vasari a fornirci la prima descrizione di quell’impresa pittorica nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, alla metà del Cinquecento, tratteggiando come in uno schizzo la scena, all’epoca molto comune, di una dama (alto-borghese o aristocratica) che posa per farsi immortalare in un quadro destinato ad arricchire la galleria dei ritratti di famiglia.
La preziosa testimonianza del Vasari è stata ritenuta non solo attendibile ma indubbia per secoli, almeno fino ai primi anni dell’Ottocento, quando l’opera leonardesca cominciò ad attirare su di sé l’attenzione del mondo per imporsi come capolavoro.
Infatti, per quanto la cosa ci sembri incredibile, la Gioconda (nota anche come Monna Lisa) non è sempre stata il dipinto famoso che conosciamo: dopo avervi lavorato per quattro anni senza terminarlo, Leonardo lo portò con sé in Francia alla corte di Francesco I.
Qui lo donò al suo discepolo prediletto, e forse amante, Gian Giacomo Caprotti da Oreno detto “il Salaì” (il Saladino, vale a dire un tipaccio), che a quanto pare lo vendette a caro prezzo al sovrano francese.
La Gioconda rimase così lungamente esposta negli appartamenti reali di Fontainebleau, la dimora preferita di Francesco I, per poi migrare nel “primo salone” della Petite Galerie du Roi a Versailles, dove fu registrata nel 1695: posto d’onore per un dipinto già apprezzato sul piano estetico.
Con la Rivoluzione del 1789 si fece strada l’idea di offrire al popolo e alla nazione un’esposizione permanente di arti e scienze a scopo educativo, e il 10 agosto 1793 aprì i battenti il museo del Louvre, che dal novembre dello stesso anno assunse ufficialmente il nome di Muséum central des arts de la République.
Dal 1794 in poi le vittorie dell’esercito rivoluzionario francese arricchirono Parigi di una quantità incalcolabile di opere d’arte provenienti da tutta Europa, con l’obiettivo di trasformare il Louvre in uno dei musei più importanti del continente.
Nel 1797, la Gioconda vi fece il suo ingresso insieme a molti altri tesori provenienti da Versailles, e nel 1798 fu esposta nel Salon Carré, dove, pare, non impressionò particolarmente i visitatori.
Napoleone ne approfittò per requisirla e farla trasferire, nel 1801, nella camera da letto di Joséphine alle Tuileries. Quando fu incoronato imperatore, nel 1804, il dipinto ritornò al Louvre, dove finalmente pubblico e critica iniziarono a prenderlo in considerazione.
Tuttavia bisognerà aspettare la metà dell’Ottocento perché la Gioconda cominci a far parlare di sé, attraverso le interpretazioni complicate e talvolta eccessive di alcuni studiosi.
Il quadro più famoso del mondo è anche uno dei più enigmatici. Si è sempre saputo molto poco sulla storia di questa piccola tavola, ma oggi, finalmente, comincia a emergere qualche certezza. Scopriamole insieme!
1. La nascita di un mito
Il primo a offrire una lettura insolita del dipinto è il francese Alfred Dumesnil, storico dell’arte e della letteratura, che nel suo saggio L’art italien, pubblicato nel 1854, si sofferma minuziosamente sulla tecnica del colore impiegata da Leonardo nella Gioconda.
Attribuendo a difficili e forse misteriose ricerche chimiche gli straordinari risultati cromatici del dipinto, Dumesnil accredita l’idea di un artista geniale e sregolato, un po’ alchimista e un po’ mago, maestro nel rendere «la dolcezza insidiosa», «il sorriso attraente ma perfido di un’anima malata che rende malati» e «lo sguardo dolce ma divorante, avido come il mare» della donna ritratta.
Subito dopo di lui, nel 1855, è il critico letterario (ma anche scrittore, poeta e giornalista) francese Théophile Gautier a descriverla così nella sua Guida al Museo del Louvre:
«Gioconda! O sfinge di bellezza che sorridi misteriosamente nel quadro di Leonardo da Vinci e sembri proporre all’ammirazione dei secoli un enigma ancora irrisolto, un’attrazione invincibile conduce sempre verso di te!»; e a chiedersi ancora «da quale pianeta è caduto questo strano essere dallo sguardo che promette voluttà sconosciute e dall’espressione divinamente ironica?
Non si direbbe che la Gioconda è l’Iside di una religione occulta che, credendosi sola, schiude i panneggi del suo velo, recando follia e morte all’incauto che dovesse sorprenderla così?».
La parola definitiva sulla Gioconda è dello studioso inglese Walter Pater, che nel 1869 vi scorge la perfetta allegoria della Natura misteriosa, incomprensibile agli uomini: la donna del ritratto si colloca oltre la Storia e l’umanità, mentre il suo enigmatico sorriso promette felicità carnale, evocando nel contempo qualcosa di sinistro e forse anche di malefico.
La Monna Lisa diviene il modello seducente e ambiguo della femme fatale, l’eterno femminino potente e oscuro che regge le sorti del mondo.
2. Come si dissacra un’icona
Dumesnil, Gautier e Pater non sono però stravaganti eccezioni, ma espressioni di quello che i francesi chiamano l’air du temps e i tedeschi Zeitgeist: è il sentire di un’epoca, e l’epoca è il romanticismo.
Con loro, la Gioconda abbandona la dimensione di opera d’arte per divenire l’incarnazione di un ideale femminile, simbolo della bellezza assoluta e dell’immortalità, in grado di condizionare la sensibilità del pubblico.
Ma inaspettatamente, nel Novecento, dopo essere stato trafugato dal Louvre nel 1911 per ricomparirvi soltanto due anni dopo, il dipinto subisce una radicale inversione di prospettiva.
Alla mitizzazione ottocentesca subentrano lo scherno e la derisione come risposta al martellamento mediatico seguito al furto, mentre il sopravvenuto mutamento sociale e culturale riporta il famoso ritratto a un ruolo più dimesso, e le avanguardie artistiche ne fanno il loro bersaglio prediletto, talvolta esagerando.
Il grande critico d’arte Bernard Berenson (nella foto), per esempio, dichiarò di essersi sentito sollevato dalla sparizione della Gioconda, che per lui era «diventata un incubo», e di trovare ormai insopportabile la cieca devozione di cui era divenuta oggetto, a torto o a ragione, la Monna Lisa.
In Italia, in un celebre articolo comparso nel gennaio 1914 sulla rivista futurista «La Voce», il giovane Roberto Longhi definisce ingenerosamente Leonardo «quest’uomo che in un periodo di coltura empirica ci procurò la beata illusione del genio universale ed ora ci fa l’impressione di un anticipo di Larousse», riferendosi al “grande dizionario universale” pubblicato a fascicoli dall’omonima casa editrice francese sul finire dell’Ottocento.
E del suo capolavoro arriva a dire, acidamente, che «nessuno ci toglierebbe di mente che non ci sia un principio d’infezione sotto questa maschera giallognola, molliccia, boffice come un portaspilli – che non ci sia una frode nel peso di questa pallida pagnottella».
Ma nel corso del secolo la Gioconda avrebbe sopportato ben altri oltraggi, a partire dalle dissacranti rivisitazioni operate a più riprese da pittori, fotografi e pubblicitari, che l’hanno trasformata in un’icona non dell’arte ma del consumismo; senza contare i numerosi atti vandalici che fortunatamente non ne hanno compromesso l’integrità.
3. Un fascino senza tempo
Dissacrazioni a parte, per tutto il Novecento ci si è soffermati ancora e lungamente sull’identità e sui molti interrogativi che sembrano emergere senza posa dal dipinto leonardesco.
Nell’impresa interpretativa si è cimentato addirittura Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi.
E in tempi recentissimi le tecnologie più avanzate sono venute in soccorso degli studiosi per analizzare gli strati sottostanti della Gioconda e rivelare così le successive modificazioni del dipinto originario, o per riuscire a identificare con precisione i luoghi che fanno da sfondo alla Monna Lisa.
Ammaestrati dalle disavventure del passato, si è provveduto ormai da tempo a tutelare adeguatamente il capolavoro del maestro di Vinci: è dal 1974, infatti, che il dipinto è custodito in un’apposita teca, ben protetto da due lastre di vetro blindato a tripla lamina, distanziate di 25 cm l’una dall’altra.
Nonostante questa penalizzazione, secondo i sondaggi la famosa tavola attira da sola circa 6 milioni di visitatori all’anno, e un’indagine di qualche tempo fa ha rivelato che la domanda posta più di frequente al personale del Louvre è “dov’è la Gioconda?”, a scapito di altri capolavori indiscussi come la Venere di Milo o la Nike di Samotracia.
Una delle norme più rigide del Louvre stabilisce che non possano sostare più di 30 persone contemporaneamente davanti a un solo dipinto, ma per tacito accordo la regola decade quando si tratta della Monna Lisa, dinanzi alla quale si assiepano giornalmente plotoni di ammiratori o semplici curiosi, a dimostrazione del fascino eterno che, a dispetto delle mode, promana ancora intatto dall’ammaliante signora.
4. Il furto della Gioconda
È l’estate del 1911 e Théophile Homolle, direttore dei Musei nazionali di Francia, si accinge a partire per le meritate vacanze sui Vosgi.
Scherzando, ammonisce i collaboratori: «Chiamatemi soltanto se rubano la Gioconda», e lascia Parigi.
Sfortunata coincidenza o iettatura che sia, il 21 agosto la tavoletta viene rubata davvero. L’impresa, subito celebrata dalla stampa come «il furto del secolo», non è in verità cosa da Mission Impossible.
All’epoca il dipinto è famoso soltanto presso una cerchia non troppo ampia di studiosi e intellettuali, ma non costituisce ancora un polo d’attrazione per il grande pubblico.
Così, il decoratore italiano Vincenzo Peruggia (nella foto) non fa troppa fatica, alle 7 di mattina del 21 agosto, a staccare il quadro dalla parete: è il giorno di chiusura del museo, presso il quale Peruggia lavora per conto della ditta Gobier, fornitrice di servizi di pulizia e manutenzione al Louvre dai tempi di Luigi Filippo.
Dopo essere entrato nel museo servendosi di una porta abitualmente usata dagli operai, Peruggia si dirige senza esitare al Salon Carré, dove la Gioconda è esposta, preleva il quadro senza esser visto da nessuno, si libera della cornice e del vetro, avvolge il quadro nella giacca e se ne torna a casa indisturbato.
Il furto viene scoperto solo il mattino seguente, quando i pittori Louis Béroud e Frédéric Languillerme, recatisi al Louvre per esercitarsi a copiare dai grandi maestri, si accorgono del vuoto sulla parete del Salon Carré e ne informano il capo della sicurezza, Henri Poupardin.
Vengono subito eseguiti i controlli e si giunge alla stupefacente verità: la Gioconda è stata rubata. La notizia del furto riempie le prime pagine dei giornali e assume risonanza mondiale.
Viene offerta una ricompensa di 25 mila e poi di 40 mila franchi-oro a chiunque fornirà informazioni utili al ritrovamento, ma senza alcun risultato. Il direttore Homolle è costretto a dimettersi, mentre le indagini procedono senza sosta.
La frenesia investigativa è tale che nel mirino degli inquirenti finiscono perfino il pittore Pablo Picasso e il poeta Guillaume Apollinaire, che ovviamente non c’entrano nulla.
Intanto i giornali satirici si scatenano e l’argomento tiene banco fino all’aprile del 1912, quando il naufragio del Titanic riesce a rubargli tragicamente la scena.
Nel 1913, finalmente, il caso si risolve: un mercante d’arte italiano, Alfredo Geri, riceve una lettera da Parigi in cui un tale signor Léonard dichiara di voler «restituire all’Italia, in cambio di 500 mila franchi, un’opera rubata da Napoleone, la Gioconda».
Geri avverte subito le autorità e accetta l’incontro con il misterioso Léonard, che si presenta puntuale a Firenze con il dipinto: ad attenderlo, però, ci sono i carabinieri, e Léonard alias Vincenzo Peruggia viene arrestato.
Nel gennaio del 1914, la Gioconda può finalmente fare il suo ritorno trionfale a Parigi. Il processo si apre il 4 giugno dello stesso anno a Firenze poiché Peruggia, in quanto cittadino italiano, non viene estradato.
I suoi difensori invocano l’intento patriottico della sua iniziativa e un disagio psichico classificato come «nevrastenia conseguente alla semplicità di spirito».
La corte è clemente e Peruggia viene condannato a 18 mesi di prigione ridotti poi a 7, ma la Francia non ha né il tempo né la voglia di contestare la sentenza, emessa il 29 giugno 1914.
Il giorno prima, infatti, l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e la moglie Sofia sono stati assassinati a Sarajevo dal nazionalista serbo Gavrilo Princip.
5. Cento ipotesi per un sorriso e una bellezza da record
- Cento ipotesi per un sorriso
Siamo davvero sicuri che il ritratto di donna conservato al Louvre raffiguri Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo?
Negli ultimi anni sono stati molti gli studiosi di fama internazionale che, sulla scorta di minuziose analisi, hanno avanzato seri dubbi sulla reale identità di quella che siamo soliti considerare la nobildonna Lisa Gherardini.
Ultimi in ordine di tempo, gli italiani Carlo Pedretti (riconosciuto come il massimo esperto mondiale di Leonardo da Vinci) e Roberto Zapperi si dicono convinti che la Gioconda sia in realtà la cortigiana Pacifica Brandani, sfortunata amante di Giuliano de’ Medici duca di Nemours (protettore di Leonardo a Roma dal 1513 al 1515), morta nel dare alla luce il figlioletto Ippolito.
Secondo altri, il dipinto ritrarrebbe invece Costanza d’Avalos duchessa di Francavilla; qualcuno ha pensato a Isabella d’Este marchesa di Mantova; c’è chi ha fatto il nome di Caterina Sforza o di Bona Sforza, e si è pensato anche a una non meglio identificata dama napoletana, Isabella Gualandi.
C’è poi chi si è spinto molto oltre, ipotizzando addirittura un autoritratto di Leonardo, o il ritratto del suo discepolo-amante Salaì in vesti femminili.
Per molto tempo ci si è interrogati sul paesaggio che fa da sfondo al ritratto, e le ipotesi più accreditate suggerivano che Leonardo avesse voluto immortalare nel quadro i luoghi lombardi a lui tanto cari.
Nel 2012, però, due ricercatrici italiane, la pittrice e fotografa Rosetta Borchia e la docente universitaria Olivia Nesci hanno pubblicato uno studio dal quale emergerebbe senz’ombra di dubbio che i luoghi raffigurati da Leonardo sono quelli dell’antico Ducato di Urbino, visti dalle alture della Valmarecchia: un territorio oggi appartenente alle Marche, all’Emilia-Romagna e in parte alla Toscana.
Ma le sorprese non finiscono qui: stando così le cose, infatti, la dama ritratta da Leonardo non sarebbe Lisa Gherardini bensì Pacifica Brandani, originaria appunto di Urbino. - Una bellezza da record
Al museo del Louvre sono conservati alcuni dei capolavori più famosi di tutti i tempi, ma a giudicare dai sondaggi il pubblico sembra interessato a uno soltanto di essi: la Monna Lisa dipinta da Leonardo.
Secondo statistiche attendibili, infatti, il Louvre vedrebbe sfilare ogni anno almeno 6 milioni di visitatori venuti apposta per contemplare, sia pure brevemente, il capolavoro del genio italiano, destinando alle altre meraviglie un ruolo di semplici comprimarie.
E dal museo francese arriva un’altra curiosità da Guinness dei primati: le richieste di informazioni da parte del pubblico sulla Gioconda superano di gran lunga quelle su altri pezzi unici come la Venere di Milo (terzo posto) o la Nike di Samotracia (secondo posto), per un rapporto (decisamente sproporzionato) di 76 a 1.
Per Leonardo da Vinci la Gioconda, vista annualmente da milioni di
visitatori al Louvre, potrebbe essere un’ultima Madonna che apparirà in
tempi apocalittici, senza il Bambino con sé, contrariamente alle molte
Madonne da lui precedentemente dipinte. Monna Lisa è la Madonna che
precede il Giudizio Universale, di Michelangelo e quello finale ad opera
del Figlio. Michelangelo Buonarroti, nella somiglianza tra il Cristo
Giudice del Giudizio Universale e la figura di Aman della volta nella
Cappella Sistina, persecutore biblico degli ebrei, avrebbe indicato la
futura somiglianza apparente tra Gesù è l’Anticristo, come aveva scritto
nei primi secoli il Padre della Chiesa Sant’Ippolito di Roma. Cfr.
ebook/kindle L’Apocalisse secondo Leonardo e Michelangelo.