È il 18 luglio 1918: la Prima guerra mondiale sta per finire quando in un piccolo villaggio della regione sudafricana del Transkei, a circa 900 chilometri da Johannesburg, nasce un bimbo destinato a cambiare la storia del Sudafrica e a ispirare il mondo intero: Nelson Mandela.
Il suo nome resterà per sempre legato alla lotta contro l’“apartheid”, la politica di segregazione razziale istituita dai boeri, i coloni bianchi di origine olandese che relegarono la maggioranza non bianca della popolazione (africani, asiatici, meticci) ai margini della vita del Paese.
Nelson Mandela è stato l’icona della lotta non violenta all’apartheid in Sudafrica. E con lui è finito il… “razzismo di Stato”! Vediamo come…
1. Riserve indigene e destra al vertice
- Riserve indigene
La brutale ideologia razzista che innescò l’apartheid (letteralmente: separazione) alla fine del XIX secolo fu dettata prevalentemente da motivazioni economiche.
Proprio in quel periodo si scoprì infatti che il Sudafrica era ricco di giacimenti diamantiferi, e che le sue colline contenevano la maggior concentrazione d’oro al mondo.
Ma per estrarre i minerali a costi competitivi erano necessari investimenti enormi e una grande quantità di manodopera a buon mercato. Detto fatto.
Nel 1911venne varata la prima legge segregazionista che proibì alle maestranze di colore l’impiego in lavori specializzati.
Due anni più tardi, con l’approvazione del Native Land Act, il 93% del territorio del Paese venne riservato alla minoranza bianca, mentre i neri furono destinati alle cosiddette “riserve indigene”: aree marginali e prive di risorse che li costrinsero ad accettare le condizioni di lavoro discriminatorie offerte dai bianchi.
Nonostante le mobilitazioni della comunità indiana – sotto la guida di un giovane Gandhi – e di quella nera, che dette vita a un movimento per i diritti civili (l’African National Congress, Anc), negli anni successivi il sistema segregazionista venne rafforzato.
Fu vietato ai neri di accedere alle aree dei bianchi e dichiarati illegali i matrimoni misti. Inizialmente l’Anc credette di poter negoziare con il governo, ma si sbagliava. Tutte le speranze si rivelarono vane di fronte all’emergere di un nazionalismo boero che fece del razzismo la bandiera per la conquista del potere.
- Destra al vertice
Dopo aver fomentato per anni le paure della minoranza bianca di fronte alla lotta politica e sindacale degli africani, nel 1948 l’Afrikaner National Party, partito nazionalista di destra fondato da Daniel Francois Malan (1874-1959), andò al potere, e vi restò per ben 46 anni.
Durante il suo governo vennero gettate le basi della legislazione segregazionista e l’apartheid prese definitivamente forma con l’entrata in vigore di una serie di leggi che negavano qualsiasi diritto politico, sociale ed economico ai neri.
La discriminazione razziale in sé non era niente di nuovo. La novità consistette nella tenacia e nell’organicità del sistema istituzionale e legislativo che rese il Sudafrica l’unico Paese al mondo in cui la discriminazione razziale era giuridicamente eretta a perno centrale.
Eppure inizialmente i nazionalisti cercarono di edulcorare la realtà proponendo l’apartheid come un “rapporto di buon vicinato tra bianchi e neri”, un modo insomma per risolvere i rapporti di convivenza fra le varie etnie.
Ma la realtà fu ben diversa: si trattò di una vera espropriazione indebita compiuta da cinque milioni di bianchi ai danni di venticinque milioni di neri, che vennero privati delle terre, dell’istruzione e della libertà.
2. Quanto sei bianco e la carta della libertà
- Quanto sei bianco?
In poco tempo furono varate una serie di leggi che formalizzarono la netta distinzione tra i bianchi e i neri.
Le città furono suddivise in zone destinate ai diversi gruppi razziali.
I neri dovevano usare passaporti interni per muoversi nelle zone dei bianchi ed erano costretti a esibirli alle autorità, se non volevano incorrere nell’arresto immediato.
Gli africani di colore furono inoltre privati di ogni diritto politico e civile e costretti a frequentare scuole agricole speciali, dove le materie tradizionali erano state abolite.
Ispirandosi ai metodi usati dai nazisti per censire gli ebrei tedeschi, fu inoltre imposto a ciascun cittadino di dichiarare la propria appartenenza razziale.
Per essere riconosciuti come bianchi bisognava dimostrare che entrambi i propri genitori lo erano.
In caso di dubbio – ad esempio se un meticcio cercava di farsi passare per un bianco – si procedeva a indagini e interrogatori, infine si ricorreva a un assurdo test che prevedeva di mettere una matita tra i capelli: se veniva trattenuta dai ricci e non cadeva, la persona non era considerata di razza bianca.
Il disegno segregazionista fu ultimato sul finire degli Anni ’50, quando il nuovo primo ministro Hendrik Verwoerd fece trasferire con la forza circa 3,5 milioni di neri nei cosiddetti bantustan, zone tribali dalle condizioni di vita spaventose.
Il Sudafrica era ormai uno Stato di polizia, dove le forze dell’ordine agivano al di sopra delle leggi e dei tribunali.
- La carta della libertà
La statura di leader anti-apartheid di Nelson Mandela emerse con forza nella campagna di resistenza organizzata dall’African National Congress nel 1952 e nell’assemblea popolare che si svolse tre anni dopo e culminò nell’adozione della Carta della Libertà.
Contrariamente a quanto sostenevano le autorità di Pretoria, quel documento conteneva un programma d’intenti moderato: non mirava a rovesciare il governo in carica per sostituirlo con uno Stato comunista, né proponeva di abolire le classi o la proprietà privata.
Eppure nella sua semplicità era rivoluzionario: puntava a un sistema basato sulla giustizia che avrebbe quindi distrutto le fondamenta dell’apartheid.
“Più di tremila delegati sfidarono le intimidazioni della polizia per riunirsi e approvare il documento finale”, racconta Mandela nell’autobiografia Lungo cammino verso la libertà.
“Vennero in auto, in pullman, sui camion e a piedi. Per quanto la stragrande maggioranza dei delegati fosse nera, c’erano più di trecento indiani, duecento meticci e un centinaio di bianchi. L’adunata era impressionante, sia per la quantità di gente, sia per la disciplina”. La risposta del regime non si fece attendere.
Nella foto sotto, la strage di Sharpeville. I corpi di alcuni dei 69 manifestanti uccisi dalla polizia. È il 21 marzo 1960. Le vittime – che protestavano contro l’obbligo di usare i pass per muoversi nelle aree riservate ai bianchi – erano disarmate. Molte furono colpite alla schiena, mentre tentavano di fuggire.
3. La vergogna di Soweto
All’alba del 5 dicembre 1956 Mandela fu arrestato (ma poi liberato in seguito all’assoluzione) insieme ad altri 155 militanti con l’accusa di alto tradimento e di congiura nazionale.
Da quel momento in poi, le poche libertà civili rimaste vennero annientate, l’Anc e altri gruppi anti-apartheid furono costretti alla clandestinità e la violenza del governo raggiunse livelli parossistici.
Il 21 marzo 1960 la repressione culminò nella strage di Sharpeville: la polizia sudafricana aprì il fuoco sui manifestanti disarmati che protestavano uccidendo 69 persone, molte delle quali colpite alla schiena.
Fu proclamato lo stato di emergenza. Ormai l’unica strada rimasta, per gli attivisti anti- apartheid, era quella della lotta armata.
Fu creata Umkonto we Sizwe (“Lancia della nazione”), l’ala militare dell’Anc, che iniziò a compiere atti di sabotaggio contro l’esercito e gli obiettivi del governo, elaborando piani per una possibile guerriglia che ponesse fine al regime.
Nel 1961 le Nazioni Unite condannarono apertamente la politica razziale del governo sudafricano, che quello stesso anno fu costretto ad abbandonare il Commonwealth per sottrarsi alla condanna morale degli altri Stati membri.
Intanto cresceva la rabbia dei neri, discriminati, sfruttati e costretti a vivere nelle cosiddette “township”, le fatiscenti baraccopoli ai margini degli insediamenti bianchi, fatte di capanne di lamiera e spesso prive di servizi igienici, luce e acqua potabile.
A Soweto, la più grande township alla periferia di Johannesburg, si verificò l’evento che oggi molti indicano come l’inizio della fine per l’apartheid.
Il 16 giugno 1976 migliaia di studenti neri marciarono pacificamente per protestare contro il decreto governativo che li obbligava a utilizzare l’inglese e l’afrikaans nelle scuole. La polizia li attaccò prima con i gas lacrimogeni, poi sparando ad altezza d’uomo.
Fu un massacro: anni dopo una commissione d’inchiesta avrebbe accertato la morte di 575 persone, in gran parte uccise dalle forze dell’ordine. Da allora il 16 giugno è celebrato in Sudafrica come la giornata della gioventù.
Curiosità: la lingua afrikaans è un idioma germanico di origine nederlandese che si sviluppò tra i coloni boeri a partire dalla seconda metà del Seicento. Attualmente è ancora una delle 11 lingue ufficiali del Sudafrica dove, secondo l’ultimo censimento, è parlato dal 13,5% della popolazione. Nel Paese si parla anche inglese, zulu, khosa. Il termine “apartheid”, in lingua afrikaans, significa letteralmente “separazione”.
4. Una nuova era
Di fronte alle sanzioni economiche e diplomatiche decise dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali – nel 1980 il Sudafrica fu anche escluso dalle Olimpiadi di Tokyo –, il regime di Pretoria dovette infine cedere.
Negli Anni ’80 il nuovo presidente sudafricano Frederik De Klerk avviò una serie di trattative segrete per la transizione democratica che culminarono l’11 febbraio 1990 con la liberazione di Nelson Mandela, ormai divenuto il leader assoluto della lotta all’apartheid.
Le parti realizzarono che nessuna delle due poteva risultare vincente in assoluto e che, nonostante tutto, avevano bisogno l’una dell’altra.
Un ripristino della supremazia bianca era impensabile, ma la maggioranza nera aveva bisogno delle capacità e della competenza dei bianchi.
L’inizio di una nuova era fu suggellato il 27 aprile 1994, quando si tennero per la prima volta elezioni multietniche a suffragio universale. L’Anc conquistò oltre il 62% dei voti.
Mandela divenne il primo presidente nero della storia del Sudafrica.
Nella foto sotto, Hamanskraal, 1978: una scuola di addestramento per poliziotti di colore, diretta dal colonnello (bianco) S. J. Malan.
5. Una vita in lotta
Rolihlahla (questo il suo nome di battesimo) “Nelson” Mandela, undicesimo figlio di un importante capo tribù locale discendente della famiglia reale dei Thembu, nacque nella regione del Transkei il 18 luglio 1918.
Trascorse i primi anni della sua infanzia in una capanna con i muri di fango e il tetto di erba.
Dal padre – che morì quando lui aveva solo nove anni – ereditò ostinazione, orgoglio e senso della giustizia. Nel 1940 venne espulso dall’università per aver guidato una manifestazione studentesca.
Iniziò così a lavorare come guardiano alle miniere d’oro di Johannesburg. Quattro anni dopo fondò la Lega giovanile dell’African National Congress, insieme a Walter Sisulu e Oliver Tambo.
Completati gli studi di legge aprì un ufficio legale che offriva assistenza gratuita ai neri perseguitati dall’apartheid. La politica iniziò a giocare un ruolo sempre più significativo: intraprese campagne non violente di disobbedienza civile, organizzò scioperi, marce di protesta e manifestazioni.
Con l’impegno civile cominciarono anche le persecuzioni: venne arrestato più volte, messo al bando e costretto a lunghi periodi di confino.
Nel 1964, al termine del processo di Rivonia che vide alla sbarra decine di attivisti antiapartheid, fu giudicato colpevole di sabotaggio e condannato a scontare l’ergastolo nel carcere di massima sicurezza di Robben Island.
Aveva 26 anni: resterà recluso per altri 27, diventando il più famoso prigioniero politico del ’900. Quando uscì, nel 1990, era diventato un uomo capace di cambiare per sempre il suo Paese rinunciando all’uso della violenza.
Con autorevolezza riuscì a tenere a freno la rabbia popolare ed evitò che il Paese scivolasse in una guerra civile. Nel 1993 fu insignito del premio Nobel per la pace e, nel 1994, fu eletto presidente del Sudafrica.
Cinque anni dopo si ritirò ufficialmente dalla vita pubblica ma proseguì ancora a lungo il suo impegno umanitario. È morto a Johannesburg, il 5 dicembre 2013.
La transizione pacifica dal regime dell’apartheid alla democrazia è stato definito un “miracolo” sudafricano. Il merito fu dello stesso Nelson Mandela, che nei suoi anni da presidente favorì la nascita della Commissione per la verità e la riconciliazione presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu.
L’obiettivo dell’organismo – che si insediò nel 1996 – era di fare luce sulle violazioni dei diritti umani commesse durante l’apartheid attraverso un modello di giustizia inedito, fondato sull’ascolto di migliaia di vittime e sulla concessione dell’amnistia ai carnefici, condizionata però a una piena trasparenza sui crimini compiuti.
Nel 1998 la Commissione concluse i lavori e nella sua relazione finale mise in luce non solo i crimini perpetrati dal regime, ma anche quelli di cui si erano resi protagonisti gli attivisti e i gruppi anti-apartheid.
La proposta di un’amnistia globale venne infine respinta ma fu avviata la valutazione di settemila richieste di perdono. Il pentimento degli assassini aprì la strada a un futuro di pace nel Paese.