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Ottobre rosso: la rivoluzione che sconvolse il mondo

Il fischio d’inizio furono due colpi di cannone sparati dopo il tramonto.

L’epilogo arrivò già la mattinata successiva, annunciato via telegrafo: “Viva la rivoluzione degli operai, dei soldati e dei contadini!”.

Ma la notte più “rivoluzionaria” del ’900 fu solo la scena madre dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, come li chiamerà (anche se furono di più) il giornalista statunitense John Reed, testimone oculare dei fatti.

La rivoluzione russa del 1917 segnò l’inizio di una nuova era. Vediamo come (e perché) i bolscevichi di Lenin presero il potere.

1. Impero inquieto

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La scena di quell’ultimo atto era Pietrogrado (oggi San Pietroburgo), allora capitale dell’Impero russo.

Il giorno era il 25 ottobre 1917 (secondo il calendario usato in Russia all’epoca, corrispondente al nostro 7 novembre).

Ma il prologo era iniziato molto tempo prima, intorno alla metà dell’Ottocento. La Russia era governata dallo zar, un imperatore “autocrate”, ossia con tutto il potere concentrato nelle sue mani.

Il grosso della popolazione era composto da servi della gleba, e il sistema industriale era arretrato. A migliorare la situazione ci provò nel 1861 lo zar Alessandro II, che abolì la servitù e varò timide riforme: troppo poco per placare il malcontento diffuso, che iniziò a trasferirsi anche nell’animata vita politica russa.

Nel 1898 venne fondato il Partito socialdemocratico del lavoro che, in linea con il pensiero di Karl Marx, sognava una rivoluzione condotta dagli operai. Nel 1901 gli fece eco il Partito socialista rivoluzionario russo, che strizzava invece l’occhio ai contadini.

L’orchestra politica si ampliò nel 1903 con l’arrivo dei socialdemocratici, divisi in due fazioni: bolscevichi e menscevichi. I primi, la maggioranza (il loro nome in russo significa appunto “maggioritari”), accusavano i loro compagni di essere troppo poco antiborghesi.

Intorno ai bolscevichi si organizzò la classe operaia, dando vita ai cosiddetti “consigli dei lavoratori”, piccoli organismi rivoluzionari meglio noti come soviet. Il clima già surriscaldato si infuocò improvvisamente con lo scoppio della Prima guerra mondiale.

All’inizio del 1917, dopo tre anni di combattimenti contro Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano e Bulgaria, la Russia era allo stremo. I morti in battaglia si contavano a milioni. Nelle città i viveri erano scarsi e nelle campagne i reclutamenti forzati avevano tolto forza lavoro.

Il popolo stava morendo di fame e “su tutto incombeva il desiderio di pace, il desiderio che finissero gli orrori di una guerra sanguinosa e insensata”, come scriverà il britannico Edward Carr, tra i massimi storici della Russia moderna.

Lo zar, Nicola II (nella foto), rimaneva però sordo di fronte alle voci di protesta che si alzavano nel Paese. Persino i più conservatori iniziarono a temere che quell’atteggiamento potesse rivelarsi fatale e tutti erano ormai certi che si dovesse fare qualcosa. Ma cosa?

Come risposta, arrivò la rivoluzione. Alla fine del gennaio 1917 l’ennesima manifestazione di protesta fu soffocata nel sangue. In risposta partì un’ondata di scioperi nelle fabbriche, ma a febbraio i soldati si unirono ai lavoratori fornendo loro le armi.

La rivolta proseguì nelle settimane successive. Fino al 2 marzo, quando lo zar capì che non c’era più nulla da fare e abdicò.

2. Il crollo e il potere ai soviet

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La guida politica dell’insurrezione fu presa dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari, che diedero vita a un governo provvisorio guidato dal moderato Aleksandr Kerenskij.

Nel crollo dello zarismo i bolscevichi (il cui leader, Vladimir Uljanov “Lenin”, nella foto accanto, era da anni in esilio in Svizzera) avevano infatti giocato un ruolo quasi nullo; ma si sarebbero presto rifatti.

Venuto a conoscenza delle novità, Lenin decise di tornare in patria per dare il suo contributo. A dargli un aiuto inaspettato fu il Kaiser tedesco Guglielmo II. Nobiltà d’animo? Nemmeno per idea.

Puro calcolo: la Germania era in guerra con la Russia zarista, e uno degli obiettivi dichiarati di Lenin era proprio l’uscita del suo Paese dal conflitto. Così la Germania avrebbe potuto liberare le ingenti truppe impegnate sul fronte orientale. 

Il leader bolscevico fu camuffato con una parrucca, caricato su una carrozza ferroviaria con porte e finestrini sigillati per evitare occhi indiscreti durante l’attraversamento della Germania e, grazie a quello che passerà alla Storia come il “treno piombato”, il 3 aprile raggiunse Pietrogrado.

Una delle sue prime dichiarazioni, scandita mentre aveva ancora la parrucca in testa, fu: “Tutto il potere ai soviet”.

Il giorno dopo illustrò le linee guida dei bolscevichi (poi note come “Tesi di aprile”): abbattere il governo borghese-moderato nato a febbraio, trasferire il controllo nelle mani dei soviet, rappresentanti del proletariato, affidare ai contadini il compito di occupare le terre dei grandi latifondisti.

Queste idee, che in un primo momento suscitarono non poche critiche anche all’interno del partito, lentamente guadagnarono consensi. Il 3 luglio migliaia di operai e militari insorsero per le vie di Pietrogrado, chiedendo ai bolscevichi di prendere il potere.

Ma riuscirci non sarebbe stato così semplice. Due giorni dopo, la rivolta venne domata e alcuni esponenti del partito furono arrestati. Lo stesso Lenin dovette fuggire in Finlandia sotto falso nome. Nel frattempo le sue tesi continuarono a fare proseliti.

3. Ritorno di fiamma

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Nell’estate del 1917 il dramma rivoluzionario vide uno strano intermezzo.

Il comandante dell’esercito, il generale Lavr Georgievič Kornilov, tentò di impossessarsi del governo.

Per fermarlo, Kerenskij chiese aiuto proprio ai bolscevichi, che organizzarono un esercito popolare e misero in fuga le truppe di Kornilov. Le loro quotazioni arrivarono così alle stelle e Lenin decise di tornare di nascosto in Russia.

Il 10 ottobre si riunì il Comitato centrale del partito, annunciando l’imminenza di una rivoluzione ormai “inevitabile e completamente matura”. Il compito di organizzare la rivolta fu assegnato a Lev Trotzkij (nella foto), presidente del soviet di Pietrogrado e amico di vecchia data di Lenin.

Al suo comando vi erano oltre 10mila operai (le famose guardie rosse), 30mila soldati e centinaia di marinai delle navi di stanza nel Baltico. A Pietrogrado il governo provvisorio disponeva invece di qualche reparto di allievi ufficiali e di un battaglione femminile.

La data fissata per la presa del potere era il 25 ottobre, e la sollevazione fu preceduta da due colpi di cannone sparati dall’incrociatore Aurora. In poche ore furono occupati tutti i punti nevralgici della città: tipografie, poste, telegrafi, stazioni ferroviarie e banche.

La sera del 25 i rivoltosi marciarono in direzione del Palazzo d’inverno (sede del governo provvisorio ed ex residenza dello zar). Kerenskij era già fuggito in cerca di rinforzi, mentre i suoi uomini si erano barricati all’interno.

Già alle due di notte il palazzo fu conquistato in maniera quasi pacifica, senza che la popolazione se ne rendesse praticamente conto. Al riguardo, John Reed scrisse: “La città era calma, come forse non era stata mai; in quella notte non fu commesso un delitto, non un furto”.

Nonostante ciò, l’assalto al Palazzo d’inverno diventò il simbolo della Rivoluzione russa, come la presa della Bastiglia (di per sé irrilevante) lo era stata per quel- la francese.

La stessa notte si riunì il Congresso dei soviet, nel pieno dei suoi poteri. Si formò un nuovo governo (il Consiglio dei commissari del popolo) presieduto da Lenin, Trotzkij e Stalin. Che cosa avrebbero fatto?

4. Nuova era e sorpresa nell’urna

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Intanto, annunciarono l’armistizio, poi assegnarono d’ufficio ai contadini le terre espropriate ai latifondisti. Infine, fu deciso di prendere il controllo dell’immensa madre Russia.

Ma se a Pietrogrado i bolscevichi non avevano quasi dovuto sparare, a Mosca si combatté per una settimana.

La rivolta scoppiò il 26 ottobre, però solo il 2 novembre il Cremlino (sede di varie istituzioni zariste e roccaforte del governo provvisorio) si arrese. I bolscevichi, con quell’abile doppio colpo di mano, si erano impossessati della rivoluzione nata otto mesi prima come moto popolare.

Proprio questo, tuttavia, era il problema. Il nuovo governo aveva il controllo dei centri di potere, ma la diffusione dello spirito rivoluzionario in tutto il Paese avrebbe richiesto tempi molto più lunghi.

Dopo i decreti sulla terra e sulla guerra (il trattato di pace sarà firmato il 3 marzo 1918 nella città bielorussa di Brest-Litovsk), il soviet varò una serie di riforme:
- riduzione dell’orario lavorativo nelle fabbriche,
- separazione tra Stato e Chiesa,
- legalizzazione del matrimonio civile, nazionalizzazione di banche, ferrovie e fabbriche (affidate alla gestione degli operai). 

Ma il vero banco di prova per i bolscevichi furono le elezioni che si tennero il 26 novembre per scegliere i membri di una futura Assemblea costituente. Votò meno della metà dell’elettorato (90 milioni di russi) e il risultato fu inaspettato.  

I socialisti rivoluzionari, guidati dal redivivo Kerenskij (nella foto), erano forti nelle campagne e ottennero più del 50% dei voti, mentre i bolscevichi (radicati solo nelle grandi città) si fermarono al 24%. A conti fatti, 3 russi su 4 non erano con loro.

Così, l’assemblea che si aprì il 5 gennaio 1918 fu sciolta armi in pugno dalle guardie rosse e Lenin chiarì che la democrazia dei soviet sarebbe stata diversa dalle altre, giudicate troppo formali.

“Nessuno ha idea di cosa verrà fuori dal calderone russo”, commentò il futuro primo ministro britannico Winston Churchill, “ma è quasi certo che sarà qualcosa di assolutamente malvagio”.

Stava emergendo una dittatura di partito, il cui braccio sarebbe stata la Čeka, la polizia politica segreta nata già nel dicembre del 1917. Come molte rivoluzioni, anche quella russa sfociò in una guerra civile.

All’Armata Rossa si contrapponeva l’esercito dei “bianchi” fedeli allo zar, radicati in Ucraina e nel Caucaso e sostenuti da molte potenze occidentali e persino da qualche socialista rivoluzionario.



5. Lotte di potere

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Soltanto il 30 dicembre 1922, quando i “rossi” avevano ottenuto ormai il controllo del Paese, Lenin diede vita all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss).

Il suo leader morirà poco dopo, il 21 gennaio 1924, per una malattia che ne minò, secondo alcuni storici, la lucidità mentale.

La lotta interna per la sua successione era in corso da un paio d’anni. A prevalere fu Josif Stalin (nella foto accanto), commissario del popolo alle nazionalità del mosaico etnico russo (lui era georgiano) e divenuto nel frattempo segretario del partito comunista.

Si atteggiava già a nuovo leader quando Lenin, poco prima di morire, confessò di trovarlo “grossolano e brutale”.

Era la conclusione di un’epopea rivoluzionaria fatta di colpi di scena. E l’inizio della deriva autoritaria e totalitaria destinata a durare più di mezzo secolo.






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