La dieta mediterranea è stata eletta patrimonio dell’Unesco nel 2010. Alla pasta, insieme all’olio d’oliva e alle verdure, va un grande merito per questo risultato.
A lungo accusata di essere ingrassante, oggi la pasta è consigliata da tutti i nutrizionisti come alimento completo che fornisce all’organismo energia pronta da spendere grazie all’elevata concentrazione di carboidrati. Ideale per chi studia, per gli sportivi, ma anche per gli anziani e i bambini, facile da digerire (ancora di più se cotta al dente), semplice da cucinare e buona da mangiare, non poteva che essere il primo piatto nazionale per eccellenza.
L’Italia è il primo produttore di pasta secca al mondo. Gli stabilimenti industriali italiani che producono pasta sono 153; di questi, 135 sono specializzati in pasta secca. Ogni anno sono commercializzate 3.050.000 tonnellate di pasta, di cui l’88% di semola di grano duro.
Ogni italiano consuma in media 28 kg di pasta l’anno: siamo anche il Paese che ne consuma di più al mondo. Dopo l’Italia, il Venezuela con 12 kg pro capite, seguito dalla Tunisia con11 kg. Il Giappone chiude la classifica con 1,7 kg a persona.
Ma vediamo 5 fatti molto interessanti che riguardano questo nobile e nutriente alimento, che costituisce, indubbiamente, l’ingrediente simbolo della gastronomia nazionale italiana.
Basta rammentare ciò che disse Cesare Marchi, riferendosi all'unità d'Italia, a volte messa in discussione, il quale riconobbe nella pasta un simbolo unitario: "…il nostro più che un popolo è una collezione. Ma quando scocca l'ora del pranzo, seduti davanti a un piatto di spaghetti, gli abitanti della Penisola si riconoscono italiani… Neanche il servizio militare, neanche il suffragio universale (non parliamo del dovere fiscale) esercitano un uguale potere unificante. L'unità d'Italia, sognata dai padri del Risorgimento, oggi si chiama pastasciutta"!
1. L'origine della pasta
Sull’origine della pasta si è scritto molto e tutt’ora la questione può considerarsi aperta.
Tutto ha inizio più di 7.000 anni fa, quando l’uomo abbandonò la vita nomade e diventò agricoltore, imparando a seminare e a raccogliere. Già molti secoli prima della nascita di Cristo i Greci e gli Etruschi erano abituati a produrre e consumare i primi tipi di pasta. Furono però gli Arabi a essiccare per primi la pasta, per potera consumare anche durante le loro peregrinazioni nel deserto.
Scartata l’ipotesi leggendaria che sia stato Marco Polo a introdurla nel 1296 al ritorno dalla Cina, e accantonata l’idea che sia stata concepita da un singolo inventore, è negli antichi scritti che ne vanno ricercate tracce e origini. A confermarlo sono voci autorevoli come quelle di Silvano Serventi e Françoise Sabban che nel testo "La pasta, storia e cultura di un cibo universale" ne propongono un’attenta ricostruzione.
Se dall’antichità al Medioevo gli unici alimenti a base di cereali erano pane, focacce e pappe (molto simili alla polenta per intenderci), nei testi di fine Medioevo compaiono i primi termini che testimoniano la presenza e la diffusione delle paste alimentari: lagana e tria. Il primo, di origine greco-romana, stava a indicare la pasta fresca sotto forma di sfoglia; il secondo, di origine araba, la pasta secca filiforme.
Secondo questa ipotesi la pasta secca filiforme giungerebbe dal mondo arabo, investendo dapprima la Sicilia musulmana e risalendo poi per la costa tirrenica da Napoli a Genova.
Fu dunque, probabilmente, proprio la Sicilia la culla della fabbricazione artigianale della pasta secca. Nell’isola, da sempre vocata alla produzione del grano duro, molti proprietari terrieri possedevano anche mulini ed erano in grado di controllare l’intero iter produttivo, dalla macinazione all’essiccazione.
Sono molte le testimonianze che attestano la nascita successiva di laboratori di produzione all’interno dei mulini anche a Gragnano, Torre Annunziata e nell’altra isola maggiore, la Sardegna: territori che avrebbero fatto la storia della tradizione pastaia italiana, industriale e artigianale.
A Gragnano l’arte della lavorazione della semola di grano duro si è tramandata nei secoli, di generazione in generazione. Ed è proprio per tutelare questo patrimonio culturale di enorme valore che il 30 luglio 2010 la Pasta di Gragnano ha ottenuto il riconoscimento dell’Igp (Indicazione geografica protetta). Si tratta dell’unico caso in Italia e del secondo in Europa, dopo l’Igp pasta di Alsazia.
“La Pasta di Gragnano è il prodotto ottenuto dall’impasto della semola di grano duro con acqua della falda acquifera locale. I formati immessi al consumo sono diversi, tutti tipici, frutto della fantasia dei pastai gragnanesi”. È questa la descrizione che si legge sul disciplinare di produzione di questa pasta dalla superficie rugosa, perfetta per trattenere sughi e condimenti.
L’area di produzione è circoscritta al Comune di Gragnano: qui l’acqua è meno calcarea e un tempo le condizioni climatiche erano perfette per la cosiddetta essiccazione naturale. Le trafile sono in bronzo e la pasta viene essiccata, a seconda del formato, a una temperatura compresa tra i 40° e gli 80°, dalle 6 alle 60 ore in celle statiche o in tunnel dove circola aria calda.
L’ingrediente fondamentale, però, è l’esperienza e il sapere secolare dei maestri pastai tramandato con cura alle nuove generazioni, vere protagoniste della moderna eccellenza pastaia.
2. Le differenze del grano
C’è pasta e pasta. Le differenze cominciano dal grano che è l’unico ingrediente sempre presente nell’impasto, oltre all’acqua.
Per la produzione della pasta secca classica si utilizza la semola che risulta dalla macinazione del grano duro, Triticum Durum, coltivato soprattutto nelle zone del Sud Italia, Puglia e Sicilia in primis. In Italia esistono aree e territori più o meno vocati alla produzione e, così come avviene per la coltura degli ulivi e delle viti, si può cominciare a parlare di veri e propri cru: di caratteristiche climatiche e territoriali che si riflettono positivamente sugli aspetti organolettici, prima della semola e poi della pasta.
Ecco perché oggi sono molti i piccoli pastifici che scelgono di specializzarsi nella produzione di pasta monograno, realizzata con grani italiani coltivati in aree particolarmente vocate, in grado di conferire aromi e sapori particolari.
Basti pensare al grano Senatore Cappelli (diffuso soprattutto in Basilicata e in Puglia): se ne ricava una pasta dal sapore speziato, intenso, quasi di pane cotto a legna. O al Matt (coltivato in Puglia e in Sicilia), che regala alla pasta un sapore delicato e rotondo, dal burro al cocco disidratato.
Le principali varietà di grano duro coltivate nelle zone del Tavoliere pugliese sono il grecale, il simeto e la saragolla, considerata sin dagli inizi del ‘900 la varietà migliore per la produzione della pasta. Non è un caso, quindi, che l’Italia sia la prima nazione in Europa per la produzione di grano, a cui è destinato circa il 35% dei seminativi e il 70% della superficie coltivata a cereali.
Tuttavia negli ultimi dieci anni il consumo di pasta è aumentato sensibilmente e di conseguenza la richiesta di grano duro, al punto da spingere molto pastifici italiani a produrre con semola di grano duro importata dall’estero, soprattutto dal Marocco, da Cipro, dalla Spagna, dagli Stati Uniti e dal Canada.
A oggi non esiste alcuna normativa che obblighi le aziende a segnalare in etichetta la provenienza del grano; solo alcuni pastifici artigianali o semi artigianali scelgono di segnalare in etichetta non solo la provenienza nazionale del grano ma anche la località del singolo campo di coltivazione, garantendo al cliente una filiera certa e ripercorribile al 100%.
Per essere sicuri che la pasta che state comprando abbia un indice di glutine appropriato, questo valore deve essere superiore a 80 in una scala da 0 a 100. Se questa informazione non è sempre visibile in etichetta, sicuramente lo sarà il tenore di proteine presente nella pasta. Una pasta di qualità deve essere composta da una percentuale di proteine superiore al 13,5%, da cui deriva un elevato indice di glutine e il relativo “dente” in cottura.
Ulteriori informazioni, che vengono fornite solo da alcuni produttori, sono: una bassa resa in semola (inferiore al 70%) che indica una macinazione che ha interessato solo il “cuore” del grano; un elevato valore granulometrico (compreso tra i 400 e i 500 micron di diametro), fondamentale per evitare la collosità della pasta.
3. La trafilatura, l’essiccazione e le diverse tipologie di pasta
La trafilatura della pasta può essere in bronzo, in teflon (in genere nelle marche più commerciali) o in oro. Benché una trafilatura in teflon eseguita secondo i giusti criteri possa garantire una pasta dal buon sapore, le trafilature in bronzo e in oro assicurano una migliore finitura superficiale. Più ruvida e porosa, la pasta assorbe il condimento con più facilità e garantisce al palato una consistenza migliore.
La stessa porosità, tuttavia, facilita l’assorbimento dell’acqua in fase di cottura; per questo la pasta trafilata in bronzo deve essere cotta sempre al punto giusto per avere un buon “dente”. Il colpo d’occhio ci aiuta nel riconoscere una pasta trafilata al teflon, che sarà gialla ambrata con una superficie levigata. Al contrario le trafile in oro e bronzo lasciano la finitura della pasta ruvida e biancastra.
L’essiccazione lenta (dalle 15 alle 30 ore in relazione al tipo di formato) a temperatura bassa (40°-50°) è fondamentale per un prodotto di qualità. Una corretta essiccazione permette alla pasta di mantenere inalterata la struttura proteica. Una pasta ben essiccata tende a non spezzarsi in cottura e mantiene un corpo tenace ed elastico anche una volta mantecata in padella. Per avere un termine di paragone, le paste più comuni hanno un tempo di essiccazione di 4-7 ore a una temperatura di 75°.
Oggi le tipologie di pasta riconosciute, tra formati industriali e casalinghi, sono circa 1300, ma un pastaio che ne codifichi l’intero patrimonio ancora non esiste e, forse, non esisterà mai. Molte tipologie sono rimaste inevitabilmente vincolate alla realtà locale, se non addirittura domestica, da cui hanno ereditato nomi buffi dettati dalla fantasia popolare e dal richiamo a situazioni di vita quotidiana (creste di gallo, occhi di pernice, orecchiette, punte d’ago, pipe, tempestine, lumache, farfalline, margherite, gobbini).
Con la comparsa del torchio e delle prime trafile nacquero i primi formati da laboratorio, dalla linea più o meno regolare, tagliati secondo un’unità di misura ben precisa. All’inizio furono maccheroni e vermicelli. Lo testimoniano i menu redatti nel 1634 da Giovan Battista Crisci, tra i primi a Napoli a credere nel valore gastronomico della pasta secca, con maccaroni di Puglia, maccaroni di Palermo, vermicelli e taglierini di Cagliari: le migliori specialità provenienti dai centri più dinamici della produzione della pasta.
Evoluzione tecnologica, fantasia dei pastai e sviluppo della cultura della pasta hanno contribuito più di qualsiasi altro elemento alla crescita (ancora oggi irrefrenabile) del numero dei formati. Tradizionalmente si suddividono in due macroaree, pasta lunga e pasta corta, la cui scelta di consumo è vincolata soprattutto dal gusto personale e dall’abbinamento con il condimento.
Ogni regione ha nel tempo associato ai propri prodotti e condimenti tipici il formato di pasta che meglio vi si abbinasse, formando binomi inossidabili: in Sicilia gli anelletti si distribuiscono perfettamente nel ricco timballo; in Liguria bavette e trenette esaltano il delicato pesto; il bucatino bilancia la sapidità dell’amatriciana tipica dei pastori laziali e abruzzesi; i cannolicchi hanno un foro che accoglie perfettamente il fagiolo della tipica pasta e fagioli campana; le orecchiette smorzano l’amaro delle cime di rapa pugliesi; i pici toscani, ruvidi e corposi, rendono gustoso il magro pasto quotidiano dei contadini toscani, che li abbinavano con aglio e briciole di pane, e si legano perfettamente ai saporiti ragù di frattaglie.
4. La cottura della pasta
All’inizio piaceva molle. Dalle prime ricette medievali di cui si ha traccia, sappiamo che la pasta veniva cotta in brodo di cappone o di carne nei giorni di grasso e nell’acqua nei giorni di Quaresima. Talvolta veniva utilizzato il latte, ma solo nella fase finale, dopo una prima cottura in acqua.
In ogni caso si ricorreva a cotture piuttosto prolungate, ben lontane dal nostro attuale modo di concepire la pasta ben cotta: si parla di una, due ore di cottura in liquido bollente sia per la pasta fresca che per quella secca, fatta eccezione per i ravioli cosiddetti senza involucro.
Per cuocere quelli, scriveva Maestro Martino da Como nel suo ricettario, bisognava far attenzione che non si rompessero, quindi estrarli dalla pentola bollente subito dopo la seconda ebollizione. I tagliolini, invece, spesso venivano cotti in brodo di carne per mezz’ora, successivamente scolati e adagiati a strati, alternati con burro, brodo e formaggio, in un altro piatto dove sarebbero stati stufati ancora per altri quindici minuti.
Tecniche di cottura arretrate? No, semplice questione di gusti. Con il Rinascimento le cose non cambiano molto; solo agli inizi del XVII secolo si sente parlare di “maccherone sodo”, comunque ben lontano dall’attuale idea di pasta soda, dura. La cottura lunga, con bollitura e successiva stufatura, rimane la regola comune che verrà seguita almeno fino a tutta la metà del XIX secolo.
In Italia c’è solo un luogo dalla grande tradizione pastaia, in cui i cuochi comprendono sin dall’inizio che per preservare il sapore e la qualità della semola di grano duro la cottura dev’essere breve: si tratta della città di Napoli. Oggi agli italiani la pasta piace al dente. Questo sembra l’unico punto su cui sono tutti d’accordo da Nord a Sud.
Da qualche anno, però, proprio quando si pensava di sapere tutto sulla cottura della pasta e che di metodo riconosciuto ce ne fosse uno, quello tradizionale in acqua bollente per i tempi indicati sulla confezione, molti cuochi riaccendono il dibattito sul metodo migliore per cuocere la pasta.
C’è chi la cuoce come un risotto, direttamente da cruda nel suo condimento: in questo modo, affermano i suoi sostenitori, l’amido non si disperderebbe nell’acqua ma verrebbe assorbito dal sugo, che deve rimanere sempre molto liquido. Chi invece la preferisce “al chiodo”, quasi cruda, ritenendo sia il modo migliore per esaltare il sapore di grano e condimento, altri la trattano come se fosse un legume, lasciandola in ammollo prima di cuocerla.
Qualcuno la preferisce cotta sottovuoto per tempi piuttosto lunghi in brodi aromatizzati. A Milano Elio Sironi parla addirittura di cottura passiva: quattro minuti di bollitura, poi si toglie la pentola dal fuoco e si lascia la pasta a riposare nell’acqua di cottura. Il risultato è una pasta gonfia e gommosa.
Indagini recenti testimoniano che nonostante si preferisca di gran lunga una pasta di buona consistenza, tecniche di cottura e gusti cambiano sensibilmente da un versante all’altro dello Stivale. Al Nord si preferisce pasta lunga che viene cotta soprattutto con il metodo tradizionale in acqua bollente e solo raramente fatta saltare in padella.
A differenza delle regioni centrali, le cui principali ricette prevedono l’impiego di pasta corta, possibilmente rigata e rigorosamente saltata in padella con la salsa di accompagnamento. Pasta liscia, perché tiene meglio la cottura, e predilezione per i formati speciali al Sud e nelle Isole, dove si registra il più alto livello di precisione nel cuocere la pasta: in acqua bollente, scolata al dente e saltata in padella a fuoco spento con un condimento piuttosto fluido.
5. I formati italiani di pasta più diffusi
GLI SPAGHETTI
“Gli spaghetti hanno diritto d’appartenere alla civiltà italica come e più di Dante”: così diceva Giuseppe Prezzolini, giornalista e scrittore oltre che appassionato gourmet. È il formato più diffuso in Italia e all’estero, divenuto per questo un vero e proprio simbolo del made in Italy. Letteralmente significa piccolo spago; così doveva essere quando veniva lavorato a mano. Oggi è una pasta secca lunga trafilata di produzione industriale e il diametro (indicato con un numero in confezione) può variare di poco da un produttore a un altro, la superficie, rugosa o liscia, in base alla trafila.
LE LINGUINE
Note anche come bavette o trenette, le sottili tagliatelle di semola di grano duro nascono in Liguria, a Genova per l’esattezza, e si diffondono in tutto il territorio italiano grazie alla loro ottima resa in cottura. Si prestano bene all’abbinamento con i tradizionali sughi di pesce e crostacei, oltre che ovviamente con il classico pesto alla genovese. In formati leggermente più grandi, chiamati fresine o tagliatelle (sempre di grano duro), sono molto diffuse nelle regioni meridionali, in particolare a Gragnano dove la trafila in bronzo conferisce loro una consistenza particolare.
I BUCATINI
La forma è quella di un lungo cordoncino forato all’interno, le cui dimensioni possono variare da regione a regione. Al Nord sono molto apprezzati in Liguria, ma se ne fa un gran uso in cucina soprattutto nel Lazio, nella zona di Amatrice nel Reatino, in Campania e in Sicilia. I sughi e i condimenti che li accompagnano nel piatto sono quelli tradizionali: con pomodoro e guanciale nel Lazio, con gli sgombri in Abruzzo, con le triglie nelle Marche e con le sarde e il finocchietto selvatico in Sicilia.
MACCHERONI ALLA CHITARRA
In origine era una pasta prodotta con semola di grano duro e uova, consumata principalmente fresca, fatta in casa. Oggi è una delle paste secche più apprezzate del Centro e del Sud Italia. Di origine abruzzese, i maccheroni alla chitarra sono un formato lungo a sezione quadrata che un tempo si otteneva tagliando la pasta con uno storico attrezzo, un telaio di legno di faggio, chiamato appunto chitarra. Si condiscono con ragù di agnello e, specialmente in Abruzzo, con un sugo di pomodoro con polpettine di carne di vitello.
LE CANDELE
Il nome si riferisce alle lunghe e sottili candele accese durante le processioni liturgiche. Si tratta di una pasta lunga con un foro del diametro di circa 9 mm. È diffusa soprattutto al Sud, dove spesso le lunghe candele vengono tagliate in due o tre parti; si pensa addirittura che le penne siano nate da una candela tagliata trasversalmente. Impiegate soprattutto in timballi e pasticci in crosta, a Napoli, in particolare, vengono condite con il classico ragù alla napoletana.
TROFIE
Nascono in Liguria, nell’area di Camogli, e da sempre si accompagnano al condimento ligure per eccellenza, il pesto. La ricetta originale vuole che si facciano bollire con patate e fagiolini prima di essere condite con il cremoso
pesto a base di basilico. Le trofie che risultano dalla produzione industriale (esclusivamente a base di semola di grano duro e acqua) si presentano a forma di piccola spirale che si assottiglia in punta. Oggi godono di grande successo in quasi tutte le regioni italiane.
FUSILLI
Un tempo le massaie li confezionavano attorcigliando la pasta attorno a un ferro e poi sfilandola con un unico gesto, rapido e preciso. E sono ancora molte le zone in cui se ne possono trovare di produzione artigianale, interamente realizzati a mano e caratterizzati da forma irregolare. Buco centrato e aspetto uniforme, invece, per i fusilli “industriali”, direttamente foggiati a spirale. In Sicilia si condiscono con il pesto alla trapanese, nel Lazio con un sugo a base di carne di agnello. Si prestano bene a condimenti e salse a base di verdure.
PACCHERI
Sull’origine di questa pasta di grande formato non c’è dubbio: sono tipici della Campania. In napoletano pacchero significa schiaffo, cioè qualcosa che viene dato a manate; il nome farebbe riferimento alle dimensioni della pasta. Si trovano trafilati in bronzo, e la loro superficie rugosa li rende particolarmente adatti a raccogliere salse e condimenti a base di pesce. Oggi il pacchero è di gran moda: farcito e cotto al forno, saltato in padella con ragù di pesce. È con il pomodoro fresco e il basilico, però, che dà il massimo.
CONCHIGLIONI
Fanno parte dei formati di nuova generazione, risultato della fantasia dei grandi maestri pastai. Nel formato più grande sono diffusi soprattutto in Campania e in genere sono rigati. Sono perfetti per essere cotti al forno, farciti con ragù di carne, con formaggi e verdure. I conchiglioni possono essere considerati la prima pasta secca pronta per essere riempita, perfetta per fantasiose monoporzioni da servire come antipasto o all’ora dell’aperitivo.
ORECCHIETTE
Le orecchiette sono baresi, lo dice la tradizione gastronomica tutta pugliese legata a questa pasta dalla caratteristica forma di piccolo orecchio. Un tempo si realizzavano quasi esclusivamente in casa, trascinando sulla spianatoia i pezzetti di impasto con la punta arrotondata di un coltello. Si consumano generalmente con verdure e diversi sughi di carne. Oltre che nel classico binomio con le cime di rapa si sposano bene con un sugo di pomodoro fresco e l’immancabile grattugiata di ricotta marzolina o di cacio ricotta.
ANELLINI
Spessi o sottili che siano, gli anelli tipici della tradizione siciliana sono perfetti per la preparazione del classico timballo, un pasticcio con carne di maiale, piselli e formaggio, primo fra tutti il caciocavallo. Diffusi anche in territorio pugliese, nella versione più grande sono noti anche con il nome di anelloni d’Africa, chiaramente ispirato ai grandi monili indossati dalle donne africane.
FREGULA
È la pasta secca più piccola prodotta in Italia ed esclusivamente in Sardegna, sua terra di origine. Si tratta di minuscoli grani di pasta ottenuti bagnando con acqua e lavorando a mano la semola: agitando l’impasto con un movimento rotatorio si formano delle minuscole palline che vengono dapprima setacciate e in ultimo lasciate essiccare. È perfetta nel classico abbinamento con le arselle, idratata con brodo di pesce.