Si rischia meno volando che camminando per strada. Eppure, c’è chi non metterebbe mai piede su un aereo.
In un mondo tecnologico come quello in cui viviamo, tante persone hanno paura di volare e alcune mai e poi mai metterebbero piede su un aereo: uno studio del 2007 condotto all’Università di Graz (Austria) mostrava che il 30,5 per cento dei passeggeri occidentali ha paura di volare, mentre dati presentati da Alitalia segnalano addirittura un 53 per cento di “aerofobi”.
Eppure, nelle classifiche della pericolosità dei viaggi, come quella dell’ufficio statistico del Nevada Department of Employment, Training and Rehabilitation (USA) sul numero di morti per miliardo di chilometri percorsi, il mezzo più pericoloso risulta essere la moto con 108,9 decessi, seguita dai propri piedi, con 54,2 morti tra i pedoni.
E poi dalla bicicletta (44,6), l’auto (3,1), i trasporti su acqua (2,6), il camion (1,2), il treno (0,6), l’autobus urbano (0,4) e, ultimissimo, proprio l’aereo con soli 0,05 casi di morte.
Facciamo un altro esempio. Nei Paesi sviluppati su 100 persone decedute per cancro, 25-30 avevano un tumore causato dal fumo. Inoltre, la percentuale di tumori al polmone associabili alla sigaretta è circa del 90 per cento negli uomini e del 70 per cento nelle donne.
Eppure, secondo i dati ISTAT del 2021, oggi i fumatori in Italia sono 10 milioni, pari a circa il 19 per cento della popolazione. Una conclusione appare evidente: abbiamo tutti un problema con la percezione dei rischi.
1. Pensiamo troppo al presente e il caso della cintura di sicurezza
La ragione di queste incongruenze sta in una serie di distorsioni cognitive ed emotive che ci portano a valutare male i pericoli giungendo a sottostimarli, come nel caso del fumo, o a sovrastimarli, come nel caso dell’aereo.
«La principale distorsione», spiegano gli psicologi, «fa riferimento al cosiddetto present bias, ovvero la tendenza a prestare un’attenzione maggiore al presente rispetto al futuro».
Nel caso dell’aereo diamo più peso alla paura immediata senza pensare ai numeri che ci danno torto e alla pressoché certa prospettiva futura di arrivare a destinazione sani e salvi.
Allo stesso modo, con il fumo diamo più peso al piacere immediato della sigaretta rispetto al pensiero di un danno fisico futuro.
Inoltre, fumare una sigaretta non provoca il tumore, mentre fumarne mille sì, tuttavia noi fumiamo una sigaretta alla volta e così ogni volta ragioniamo senza pensare alle altre 999 che abbiamo fumato o che fumeremo.
In pratica, il fumatore tende a concentrarsi su quando ha fumato l’ultima sigaretta, senza considerare la quantità complessiva. È lo stesso principio che governa l’uso della cintura di sicurezza.
Il rischio di avere un incidente in ogni singolo viaggio è molto basso, al contrario di quello cumulato nel corso della vita. Ragionando sul singolo viaggio, potremmo non allacciarla, ma se ci chiedessero di decidere ora cosa fare per i nostri prossimi cento viaggi, probabilmente diremmo di volerla sempre usare.
2. I rischi per la salute
A sottolineare l’importanza del present bias c’è anche lo psicologo americano Paul Slovic che, in uno studio del 2000, lo evidenziava tra i grandi impedimenti che rendono difficile smettere un vizio, come appunto quello di fumare.
Inoltre spiegava che, di fronte a un rischio per la salute, conta spesso un eccessivo ottimismo: chi si dedica a comportamenti non sani come fumare tende a considerare le malattie correlate – come i tumori legati alla nicotina – un problema che riguarda solo gli altri.
Come illustra uno studio condotto da Antonella Pacini e altri ricercatori della Sapienza di Roma e dalla Croce Rossa Italiana, uscito nel 2007 sulla rivista scientifica Le infezioni in medicina, la percezione di pericolo sanitario si riduce ulteriormente quando l’identità delle persone colpite da una patologia appare erroneamente circoscritta a specifici individui: è quello che ancora oggi capita tra chi si convince che il rischio di infezione da HIV, il virus che causa l’AIDS, riguardi esclusivamente categorie a rischio come omosessuali o tossicodipendenti.
Questa alterata percezione è però responsabile di una maggiore propensione di queste persone a non proteggersi durate i rapporti sessuali. «Con la conseguenza», si legge nello studio, «che da tempo si registra una crescita dell’infezione tra gli eterosessuali».
Ma non è tutto qui. Quando sottostimiamo i pericoli commettiamo anche un altro errore: pensiamo alle persone che negavano l’utilità del vaccino contro il morbillo affermando che “l’abbiamo preso tutto da bambini, eppure siamo qui a parlarne”.
Si tratta di un ragionamento influenzato da quello che gli psicologi chiamano survival bias, cioè la distorsione cognitiva dei sopravvissuti: troppo spesso per giudicare un rischio prendiamo in considerazione solo i dati relativi alle occasioni in cui l’evento temuto non si è verificato, ignorando l’esistenza stessa di molte persone che, appunto, non sono più qui per poterne parlare.
3. La paura del controllo e i 200 millisecondi
Per quanto riguarda invece la tendenza a sovrastimare i pericoli, un’altra distorsione cognitiva è quella che ha a che fare con il fenomeno psicologico del controllo.
Da una ricerca condotta su 5mila soggetti da Lucas Van Gerwen, psicologo che segue i passeggeri dell’aeroporto di Amsterdam, è emerso che all’origine della fobia di volare, che spinge molte persone a considerare l’aereo pericoloso, c’è per alcuni l’angoscia di non avere il controllo sull’aereo e sull’operato del pilota.
Per chiarire questa dinamica è lo stesso Slovic a fare un esempio. Immaginiamo di dover tagliare a fette del pane: con una mano lo teniamo fermo e con l’altra impugniamo il coltello.
In questo caso probabilmente posizioneremo le dita abbastanza vicine al coltello. Ora immagiamo che a usare il coltello sia un’altra persona: a che distanza posizioneremmo la nostra mano sul pane? Certamente molto più lontano dal coltello.
Questa differenza è la misura diretta di quanto giudichiamo pericolosa una situazione per il fatto che non ne abbiamo il controllo. E questo è chiaro anche quando siamo noi alla guida di un mezzo rispetto a quando siamo seduti al posto del passeggero.
Insomma, la nostra valutazione del pericolo è tutt’altro che razionale. Ciò è particolarmente vero di fronte a quei pericoli che richiedono una reazione immediata: ad esempio quando vediamo un cane che corre verso di noi, è fondamentale che il nostro cervello ci informi rapidamente se la situazione è realmente pericolosa, così da scappare, oppure no.
Uno studio francese del 2015 pubblicato da eLife dimostrò che questo “sesto senso” ha una sua specifica collocazione nel cervello e che è in grado di captare un’insidia in modo automatico e ultraveloce: solo in 200 millisecondi. Un tempo davvero rapido perché questo avvenga in modo ponderato e razionale.
4. Le emozioni che ingannano e quanto conta il piacere
In questi casi, pertanto, sono le emozioni a guidarci, molto più rapide dei ragionamenti: «È la cosiddetta euristica affettiva: se dobbiamo scegliere l’opzione meno rischiosa, ci orienteremo verso quella che nella nostra mente è associata a un’emozione meno negativa», precisano gli psicologi.
Tuttavia, questo sistema può portare a errori di valutazione del rischio, specie quando lo utilizziamo per valutare rischi complessi per i quali servirebbe invece raziocinio: «Ad esempio, dopo l’attacco alle Torri Gemelle a New York, molte persone ebbero paura di viaggiare in aereo e scelsero l’automobile».
«Questo produsse, nell’anno successivo al settembre 2001, circa 1.500 vittime della strada in più rispetto alla media degli anni precedenti». Insomma, lasciarsi andare troppo alle emozioni può essere controproducente.
Ma quanto conta il piacere? Un altro caso di errore di valutazione riguarda le scelte influenzate dal piacere. Capita ad esempio quando sottostiamo i pericoli che il junk food ha sulla nostra salute: da un lato sappiamo razionalmente che il cibo spazzatura ci farà male se continuiamo a mangiarlo, ma dall’altro abbiamo l’appagamento del palato che può essere più forte della motivazione a rinunciare.
La nostra mente sa cosa è bene per noi, ma quando deve scegliere sotto la pressione della gratificazione immediata non riesce a tenere a freno l’impazienza di riceverla. L’emotività è ancor più chiamata in gioco quando non siamo soli.
Come affermano gli autori dello studio di Pacini, siamo influenzati da un istinto imitativo: “Se gli altri si espongono al rischio, possiamo esporci anche noi”, ci diciamo troppo spesso. «Tuttavia non valutiamo che fra “loro” e “noi” ci possono essere differenze di capacità fisiche e tecniche notevoli», scrivono gli esperti.
In gruppo siamo pertanto più disinibiti e meno propensi alla prudenza: «Inoltre il gruppo ci spinge a fare quello che gli altri si aspettano da noi», conclude Savadori. «Se siamo maschi, ci si aspetterà da che siamo coraggiosi e così in gruppo tenderemo a essere più sprezzanti per il pericolo».
5. Gli adolescenti sono incoscienti perché vogliono conoscere il mondo
L’adolescenza si accompagna a un maggiore interesse per il rischio e a una minore percezione del pericolo: ciò sarebbe motivato dalla conformazione di un’area del cervello, la corteccia prefrontale, che negli adolescenti maturerebbe più tardi.
Ma questo, scrive il neurobiologo Robert Sapolsky, è un vantaggio: un cervello incosciente permette ai giovani di conoscere il mondo. «Un adolescente cerca le novità, verso le quali diventiamo sempre meno aperti con il passare del tempo», scrive lo studioso.
In fondo un po’ di passione per il rischio è utile: «Senza il gusto del rischio, che incita all’esplorazione dell’ignoto, non avremmo mai potuto realizzare tanti progressi e successi della scienza», aggiungono gli autori di uno studio del 2007 uscito sulla rivista Le infezioni in medicina.
Il piacere del rischio è regolato da un gruppo di neuroni? Ad alcune persone il rischio piace moltissimo. Sono i sensation seeker, persone che hanno bisogno del senso del pericolo per stare bene.
Spesso si dedicano a sport estremi e sono propensi a mettersi in pericolo pur di sfidare se stessi: amano la velocità, il gioco d’azzardo o fare sesso senza precauzioni.
Secondo uno studio pubblicato da Nature e condotto da ricercatori della Stanford University (USA), il fascino per il rischio è regolato da un gruppo di neuroni del nucleus accumbens, area cerebrale che ha a che fare con il sistema di ricompensa, quello cioè che regola il piacere ma anche le dipendenze da cibo, sostanze, sesso e tutto ciò che, appunto, ci gratifica.
Nei sensation seeker il rischio genera un elevato rilascio di dopamina, che motiverebbe il senso di piacere.
Questa dinamica è stata dimostrata in laboratorio: in un esperimento, Karl Deisseroth della Stanford University è riuscito a modulare i recettori della dopamina nel nucleus accumbens di alcuni topi interrompendo così i loro comportamenti più pericolosi e rendendoli più cauti e calmi.