Allo scopo di nutrire i 9 miliardi di esseri umani che nel 2030 popoleranno il pianeta, la FAO, in un rapporto del 2014, ipotizzava lo sviluppo su grande scala dell’allevamento di insetti destinati all’alimentazione.
L’impatto ambientale sarebbe minimo e avremmo, a quanto pare, un cibo sano e di ottimo sapore.
Perché allora l’idea di masticare una cavalletta o di inghiottire un bruco ci sembra tanto sgradevole?
«Ma perché fa schifo!», è la risposta spontanea, come se fosse qualcosa di evidente. Un’evidenza difficile però da giustificare con argomenti razionali.
Mangiare insetti non è né sporco né pericoloso, e il sapore non è poi tanto diverso da quello di alimenti che conosciamo bene.
Come si spiega allora la nostra viscerale reazione di disgusto? Scopriamolo insieme!
1. Natura o cultura e la mimica del disgusto
Il disgusto è una reazione spontanea, al punto che tendiamo a considerarlo come un moto istintivo dell’organismo, un riflesso di sopravvivenza, una risposta biologica iscritta nel patrimonio genetico.
Tuttavia, come notava Freud (1929), nel bambino gli escrementi non suscitano alcuna ripugnanza, anzi gli appaiono come qualcosa di “prezioso”, in quanto «parte di sé distaccata dal proprio corpo».
È l’educazione a indurlo a ripudiare i suoi escrementi.
D’altro canto non sembra che i nostri cugini più prossimi, gli scimpanzé, mostrino alcun segno di disgusto per le feci, e altri mammiferi le mangiano per giovarsi dei batteri che vi sono contenuti, senza la minima reazione di ripugnanza.
Come sottolinea Julia Peker, filosofa e critico d'arte, in un saggio filosofico sull’argomento, il capolavoro di questa emozione è farci dimenticare che, malgrado tutte le apparenze, essa non è altro che il prodotto di una costruzione culturale.
Un altro aspetto che ha suscitato l’interesse dei ricercatori è l’espressione facciale caratteristica delle risposte di disgusto.
Si è osservato che tutti i movimenti automatici suscitati dalla repulsione (naso increspato, narici ostruite, labbra strette, lingua spinta in avanti, ecc.) mirano a respingere all’esterno gli oggetti e gli odori offensivi.
La smorfia di disgusto sarebbe quindi funzionale, mirando a proteggere il corpo dall’intrusione di elementi indesiderabili.
Ma cosa esattamente cerchiamo di proteggere con questa mimica, con la mossa di ritrarci indietro, con la reazione di nausea?
2. Evoluzione del disgusto e le caratteristiche di ciò che ci disgusta
Secondo lo psicologo americano Paul Rozin (2008), il disgusto aveva in origine la funzione di proteggere l’organismo dagli alimenti nocivi, ma nel corso del tempo si è evoluto fino a diventare un meccanismo di protezione della psiche.
Infatti non ci difende più da rischi reali: non c’è nessun pericolo a inghiottire testicoli di montone o un pasticcio di grilli.
Al di là dell’igiene e dello stesso sapore, le sostanze che suscitano la reazione di disgusto sono rifiutate soprattutto a causa della loro origine o natura (Rozin, 1995).
Certi alimenti che ci ripugnano li troveremmo forse deliziosi se non sapessimo da dove sono ricavati. Il semplice fatto di saperlo, però, li rende immangiabili.
Per illustrare questa idea Julia Peker cita un’osservazione dell’antropologo David Le Breton (2000):
«La commestibilità non è un concetto biologico o psicologico, ma simbolico: se una cosa non è bella da pensare, non è buona da mangiare. Il buongustaio che ama le chiocciole cotte nel guscio non mangerebbe mai le lumache nude, non a causa del sapore, che ignora, ma per l’idea che se n’è fatta, di animali viscidi e repellenti».
Ma quali sono le caratteristiche di ciò che ci disgusta? In un saggio sul disgusto pubblicato nel 1929, il filosofo ungherese Aurel Kolnai ha cercato di classificare una lista di oggetti repulsivi.
Osserva che hanno sempre un collegamento con l’organico: sono, o sono stati, organismi viventi, oppure prodotti di organismi viventi.
Pone inoltre l’accento sul fatto che il disgusto è provocato tipicamente da «una combinazione particolare tra la vita e la morte».
Il primo elemento della lista di Kolnai è infatti la putrefazione, oggetto di disgusto per eccellenza, in quanto rappresenta alla perfezione l’idea che il filosofo Karl Rosenkranz (1853) descrive come «lo snaturamento di una cosa già morta, che dà l’illusione della vita che nasce dalla morte».
Così la vista di uno scheletro provoca spavento ma non disgusto, contrariamente allo spettacolo di un cadavere in disfacimento.
Nell’elenco di Kolnai al secondo posto si collocano gli escrementi: rigettati dall’organismo, eliminati dal processo vitale, anch’essi manifestano il passaggio del vivente allo stato di sostanza morta.
Seguono le secrezioni organiche: vischiose e appiccicose, sono caratterizzate da uno stato intermedio fra solido e liquido. Escrementi e secrezioni, osserva Rosenkranz, sono cose morte che «l’organismo elimina e abbandona alla putrefazione».
Se le diverse figure della decomposizione provocano un tale disgusto è perché «sembrano far intravedere l’effrazione terrificante della morte», come nota Julia Peker. Secondo Kolnai anche il corpo umano, a distanza ravvicinata, può diventare oggetto di disgusto (la mano sudata, l’odore della traspirazione, ecc.).
Nella sua lista compaiono poi i piccoli animali, come i vermi, che tendiamo ad associare alla putrefazione. In tema di alimentazione Aurel Kolnai ipotizza che tutti i cibi si prestino potenzialmente a suscitare disgusto, una reazione che è legata soprattutto all’atteggiamento culturale.
Infine, tendono a provocare repulsione il brulichio vitale, la malattia e la “deformità fisica”. Secondo Julia Peker, il disgusto «segnala l’esistenza di escrezioni, anomalie, eccezioni di ogni genere, che eccedono l’ordine che le produce», svolgendo anche una funzione strategica:
«L’esistenza di questo fuori campo immondo», scrive infatti, «segnala tramite il putridume e la puzza che noi umani non abbiamo la padronanza di tutto».
3. L’origine animale del disgusto: il caso della carne
Se già Kolnai metteva in evidenza la natura organica degli oggetti di disgusto, anche l’antropologo Andras Angyal (1941), come in seguito lo stesso Paul Rozin, hanno sottolineato il fatto che quasi tutti hanno origine animale.
Paul Rozin si è occupato in particolare del consumo di carne.
Egli nota che in tutte le culture la carne è allo stesso tempo il cibo più apprezzato e quello maggiormente esposto a tabù.
Il consumo di carne suscita un sentimento di ambivalenza, probabilmente dovuto alla credenza diffusa che si assimilino le proprietà di ciò che si mangia: il timore di acquisire i caratteri dell’animale è tanto più inquietante in quanto l’uomo, in ogni cultura, cerca di stabilire una distinzione radicale fra sé e gli animali.
Questa ambivalenza verso la carne è visibile in tutti gli sforzi che facciamo per mascherarne l’origine: tagliata, macinata, trasformata nei modi più vari durante la preparazione, fino a rendere irriconoscibile l’animale.
Per parlarne si adotta un vocabolario asettico, astratto: il maiale e il manzo diventano prosciutto, costata, bistecca, salsiccia, spezzatino.
Tutto allo scopo di allontanare la nostra mente dall’animale che stiamo mangiando e dall’idea della sua morte.
Certe parti, come cervello, fegato, trippa e simili, provocano infatti reazioni contrastanti: l’avversione che suscitano in alcuni può essere dovuta al fatto che rimandano troppo esplicitamente a parti del corpo, quello dell’animale e il nostro.
Paul Rozin sottolinea peraltro che in molte culture si considera commestibile solo una piccola parte delle specie animali disponibili.
Alcune sono considerate immangiabili a causa della loro somiglianza con i prodotti corporei (la lumaca, per esempio, ci ricorda il muco), o perché sono spesso a contatto con organismi in decomposizione, escrementi o rifiuti, come le mosche, gli scarafaggi, i ratti, gli avvoltoi e altri animali che si cibano di carogne.
Gli animali carnivori si nutrono di carne cruda, spesso in decomposizione, e producono escrementi putridi, il che li rende disgustosi ai due estremi del ciclo alimentare. Per questo consumiamo di preferenza erbivori.
4. Troppo prossimi o troppo lontani, animalità e paura della morte
Si possono citare altre due categorie di tabù alimentari:
a) gli animali troppo vicini agli esseri umani, sia per il loro aspetto, come le scimmie, sia per la relazione troppo ravvicinata (gli animali domestici, come il gatto o il cane), e
b) dall’altro lato quelli troppo remoti, che per la loro estraneità sembrano provocare un misto di paura e disgusto, come i ragni o i serpenti.
Spiega Julia Peker: «Non si può ingerire ciò che è troppo diverso da noi, per non rischiare l’intrusione e l’alterazione irreparabile del nostro corpo, né quanto ci somiglia troppo, se non vogliamo immaginare la nostra stessa decomposizione. Se è troppo simile alla nostra carne, la carne dell’animale ci ricorda la nostra stessa sostanza organica sanguinolenta».
Cosa c’è in comune fra la vista di un cadavere, l’odore di urina nel corridoio della metropolitana e il rumore di masticazione e deglutizione di un commensale maleducato?
Secondo Paul Rozin l’aspetto che collega fra loro queste sensazioni è il mettere in evidenza caratteri che abbiamo in comune con gli animali, funzioni biologiche non riscattate dalla cultura.
Seguendo questa idea, forse non è un caso che l’unica secrezione corporea che non suscita disgusto siano le lacrime, essendo il pianto un fenomeno esclusivamente umano.
Se questi richiami alla nostra natura animale suscitano una tale avversione, forse è per il semplice fatto che ci rimandano alla condizione di esseri mortali, alla tremenda realtà della fine ineluttabile e della trasformazione in cadaveri decomposti.
Secondo Paul Rozin il disgusto sarebbe quindi la manifestazione del continuo rifiuto della condizione animale, che cerchiamo di dissimulare sotto il nostro involucro umano.
5. Il disgusto: una difesa contro le infezioni?
Secondo certi autori il disgusto non sarebbe altro che un meccanismo di adattamento ereditato dall’evoluzione della specie, allo scopo di evitare il contatto con agenti patogeni, come batteri, virus o parassiti: mosche, ratti, cadaveri, carne avariata, escrementi, saliva sono tutti possibili vettori di contagio.
Per verificare questa ipotesi, Val Curtis, Robert Aunger e Tamer Rabie (2003) hanno condotto uno studio su un vasto campione, 40.000 persone contattate attraverso il sito Internet della BBC.
Ai soggetti si presentavano sette coppie di immagini fotografiche e per ciascuna coppia dovevano indicare l’immagine a loro giudizio più disgustosa.
Le foto di ogni coppia erano molto simili, salvo il fatto che una delle due presentava un aspetto potenzialmente patogeno: per esempio, una ferita aperta e una cicatrizzata, un convoglio della metro deserto e uno affollato, un tovagliolo macchiato di blu e uno di giallo-marrone.
Le immagini contenenti un dettaglio potenzialmente patogeno sono risultate significativamente più disgustose delle altre. Secondo gli autori ciò confermerebbe l’ipotesi che la reazione di disgusto serva da protezione contro il pericolo di infezioni.
Altri ricercatori, come Joshua Tybur e colleghi (2009), paragonano il disgusto a un «sistema immunitario comportamentale», che a loro avviso avrebbe la funzione di risolvere tre diversi problemi di adattamento: non solo evitare elementi patogeni, ma orientare la scelta del partner sessuale (disgusto sessuale) e favorire l’interazione sociale (disgusto morale).
Il disgusto sessuale avrebbe la funzione di evitare i partner “cattivi” ai fini riproduttivi (tabù dell’incesto), mentre il disgusto morale di fronte a comportamenti che non corrispondono alle norme accettate servirebbe a preservare l’ordine sociale.