Perché la musica ci fa stare così bene

Non c’è story su Instagram o TikTok che non sia accompagnata da musica. Andiamo al supermercato, e troviamo musica di sottofondo.

Per non parlare di spot pubblicitari o trasmissioni tv. Se togliessimo la musica dalla nostra vita rimarrebbe un vuoto incolmabile.

Accompagna le nostre giornate, evoca ricordi, migliora l’umore, induce addirittura reazioni fisiche come il pianto o i brividi.

La ragione è che è strettamente legata all’attività del nostro cervello e in particolare ai circuiti della memoria, apprendimento e ricompensa.

Non a caso la si usa per curare malattie come l’Alzheimer e il Parkinson. Ma è soprattutto espressione artistica e creativa perché strettamente legata alle emozioni.

1. Il cervello musicale e i meccanismi cerebrali

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Sono proprio le percezioni emotive a rendere la musica così importante. Ce ne rendiamo conto da soli, ma la scienza lo dimostra.

Uno studio pubblicato quest’anno dalla Northwestern University (USA) ha mostrato ad esempio come la musica, grazie ai ricordi e alle emozioni evocate, possa migliorare la comunicazione negli anziani con Alzheimer.

Della relazione tra le sette note e demenza si è scritto molto, ma in questo caso è stato dimostrato come sia in particolare la musica dal vivo a rendere gli anziani più sereni e presenti.

Per dimostrarlo gli studiosi hanno analizzato il modo di comunicare dei pazienti con i loro cari, sia prima sia dopo sessioni di ascolto di un piccolo ensemble che suonava dal vivo pezzi legati al loro passato.

Nel mentre, gli anziani erano invitati a interagire cantando o tenendo il ritmo con le mani o un tamburello.

«L’esperienza si è dimostrata positiva per le persone con Alzheimer ma anche per i loro cari, che riuscivano a entrare maggiormente in relazione con i malati a prescindere dalla gravità della patologia», ha spiegato Jeffrey Wolfe, neurologo e terapeuta musicale che ha coordinato lo studio.

Ma in che modo la musica dà vita a emozioni? È legato in parte ad aspetti strutturali come il ritmo, la tonalità, la complessità, la dissonanza.

Ad esempio la tonalità minore trasmette sensazioni emotive di tristezza mentre la tonalità maggiore di serenità e allegria: questo è dovuto alla similarità con la voce umana, entrambe percepite ed elaborate in regioni anatomiche comuni, e cioè la regione temporale mediale destra per voci e musiche che comunicano pathos e la corteccia frontale inferiore per voci e musiche che comunicano gioia e serenità.

Anche la composizione musicale ha il suo impatto: pensiamo alle colonne sonore dei film horror o thriller caratterizzate da aspre dissonanze che ci fanno provare ansia.

Queste, unite all’imprevedibilità dei suoni, agli improvvisi fragori o alle voci trasfigurate, causano risposte fisiche specifiche come l’aumento della pressione sanguigna, la dilatazione pupillare e quindi tensione psicologica e paura.

2. Quando la musica fa piangere e gli effetti sulla memoria. È come le droghe

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Le emozioni musicali possono quindi indurci a reazioni fisiche. Tra queste c’è anche il pianto. Diversi studi condotti in tutto il mondo sembrano indicare che alcuni passaggi musicali, quali stacchi improvvisi, riescono a provocare emozioni, brividi, lacrime o pelle d’oca.

Alcuni anni fa Martin Guhn, psicologo dell’Università della British Columbia (Canada), si era concentrato su una canzone uscita nel 2012 che sembra avere la straordinaria capacità di far piangere chiunque la ascolti: Someone Like You della cantante britannica Adele.

Per Guhn i pezzi musicali che commuovono hanno alcune caratteristiche: iniziano in modo sommesso diventando più forti all’improvviso, includono l’improvviso ingresso di un nuovo strumento, comprendono un’espansione delle frequenze e sono basate su inaspettate deviazioni nella melodia o nell’armonia.

In altre parole, producono un effetto sorpresa. Ma soprattutto, come capita in questo pezzo, presentano la caratteristica musicale della “appoggiatura”, cioè una nota “ornamentale” che crea un suono dissonante e genera tensione.

Come dimostra lo studio sui pazienti con Alzheimer, le emozioni che proviamo ascoltando alcune canzoni hanno a che fare anche con i ricordi evocati da quegli specifici pezzi: la musica interagisce infatti anche con l’ippocampo, struttura correlata a memoria e apprendimento.

Ciò può essere impiegato a fini terapeutici. Attraverso la musica possiamo rievocare i ricordi d’infanzia nei pazienti affetti da malattie degenerative proprio come l’Alzheimer.

In questi soggetti, che hanno perso la capacità di comunicare a parole, l’ascolto musicale dà piacere. Riaccende per un’istante la fiammella del loro “io” disgregato e perduto e riattiva il ricordo di chi erano.

Il senso di benessere che regala è una delle ragioni per le quali ascoltiamo la musica. È stato mostrato come l’ascolto della musica stimoli i centri del piacere, in particolare il nucleus accumbens, migliorando l’umore del paziente e inducendo il rilassamento.

Del resto, nel 2011, impiegando risonanza magnetica e tomografia ed emissione di positroni, ricercatori della McGill University di Montreal (Canada) avevano dimostrato che il piacere della musica, come quello prodotto dalle droghe, attiva il circuito della ricompensa coinvolto nelle attività gratificanti, liberando dopamina.

3. Linguaggio universale. Cantiamo prima di parlare

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Queste basi biologiche spiegano perché, a prescindere dal contesto culturale di appartenenza, le reazioni emotive all’ascolto sono le stesse per tutti gli esseri umani: a dimostrarlo anche uno studio de 2009 uscito su Current Biology condotto su popolazioni africane che non avevano mai avuto contatto con la musica occidentale.

Sottoposti all’ascolto, i soggetti erano in grado di mostrare felicità, tristezza e paura in base al tipo di canzone proposta.

Questo indica come le emozioni trasmesse dalla musica occidentale possano essere riconosciute universalmente, analogamente a quanto accade per il riconoscimento delle espressioni del volto.

Del resto, le “aree musicali” del cervello sono già attive alla nascita: lo hanno illustrato neuroscienziati dell’Ospedale San Raffaele di Milano sottoponendo dei neonati di meno di 2 giorni di vita all’ascolto di musica classica e registrandone l’attività cerebrale.

Già nei piccoli la melodia è in grado di attivare gli stessi sistemi neuronali che si mettono in funzione negli adulti abituati alle sette note.

«Già alla nascita distinguiamo un brano consonante da uno dissonante impiegando le stesse aree del cervello programmate per capire il significato delle vocalizzazioni come pianti, grida o risate», aggiungono i neuroscienziati.

Infatti è dimostrato che i bimbi di pochi mesi sono in grado di cantare spontaneamente e di imitare il canto altrui prima ancora di saper pronunciare le parole. Tale precoce sviluppo della sensibilità musicale ha a che fare con la sua origine evolutiva: si ritiene infatti che il canto fosse la prima forma di comunicazione tra gli ominidi.

«Ad esempio l’Homo neanderthalensis lo utilizzava per manifestare i propri bisogni ed emozioni, interagire socialmente, comunicare informazioni, consolare i bambini e le persone ferite e sedurre il potenziale partner».

4. La musicoterapia funziona. Fa bene imparare a suonare

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Se la musica agisce sul sistema nervoso, è possibile impiegarla anche per “ripararlo”? Nel tempo si sono succedute diverse teorie e pratiche che impiegano le note per migliorare la salute psichica e psicofisica: è la musicoterapia.

È dimostrato che la musica conforta la sofferenza psichica, dovuta al lutto e a perdite affettive, e persino il dolore fisico, agendo come analgesico ad esempio nei pazienti oncologici.

In fondo, tutti ci rendiamo conto di queste potenzialità: uno studio britannico del 2020 condotto su 7.581 persone aveva evidenziato che la maggior parte dei soggetti ascolta la musica per rilassarsi, liberarsi dalla tristezza, allontanare i pensieri negativi o dormire meglio.

Ascoltare e suonare la musica è contro i dolori cronici! Se alcuni studi hanno mostrato l’efficacia della musica nel contrastare la degenerazione cognitiva dei pazienti con Alzheimer, è anche vero che ascoltarla e suonarla influisce positivamente sul corpo calloso, il ponte di fibre nervose che mette in comunicazione i due emisferi cerebrali, aumentandone le dimensioni.

E poi l’impatto positivo è anche fisico: uno studio pubblicato su Plos One ha mostrato come possa controllare il malessere nei pazienti che convivono con il dolore cronico.

La ricerca conferma i risultati di uno studio precedente uscito su Scientific Reports che invece chiariva come la musica sia in grado di ridurre la percezione del dolore, stimolando la produzione di oppioidi endogeni.

Anche nei pazienti colpiti da ischemia cerebrale imparare a suonare il piano migliora il recupero delle capacità motorie: la musica ha una notevole capacità di guidare i comportamenti motori ritmici, come la danza.

Lo dimostra il fatto che, ascoltando la musica, ci viene spontaneo tenere il ritmo con un piede o ondeggiare con il corpo: «Studi di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale hanno mostrato come il ritmo della musica stimoli regioni coinvolte nel controllo del movimento ciclico e della deambulazione, inducendoci a muoverci a tempo».

È partendo da queste considerazioni che la musicoterapia viene impiegata anche nei pazienti con Parkinson. Il ritmo stimola il cervelletto, i gangli delle base e la corteccia motoria, attivando il movimento.

Un ritmo musicale adatto può quindi rendere più sicura la deambulazione delle persone colpite da questa malattia, tanto che durante l’ascolto possono persino mettersi a danzare.





5. La musica suscita 13 emozioni e perché è importante studiare la musica fin da piccoli

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Divertimento, gioia, erotismo, bellezza, relax, tristezza, sogno, trionfo, ansia, paura, irritazione, sfida ed energia: sono i nomi con cui uno studio del 2020 indicava le tredici emozioni fondamentali che la musica è in grado di evocare.

La ricerca, uscita sui Proceedings of the National Academy of Sciences, era basata su interviste a più di 2.500 persone negli Stati Uniti e in Cina, tramite le quali scienziati dell’Università della California di Berkeley (USA) avevano vagliato le reazioni a migliaia di canzoni rock, folk, jazz, di musica classica, sperimentale ed heavy metal.

Per qualcuno però, la musica è solo rumore! Ci sono persone che non sono in grado di “capire” le sette note. Poste all’ascolto non percepiscono i suoni come musica ma semplicemente come rumore senza senso.

Questa condizione è detta “amusia”, una forma di incapacità biologica di comprendere, eseguire ed apprezzare la musica in ogni sua forma.

Si tratta di un’evenienza molto rara e in genere è associata a una lesione della corteccia temporale superiore destra o ad anomalie congenite.

Altro discorso sono le persone che non sembrano provare grande interesse per la musica. Ciò deriva generalmente da uno scarso ascolto o da una ridotta stimolazione musicale precoce.

In Italia la musica non ha molto peso nella scuola: viene insegnata poco, spesso in modo superficiale, e con pochi mezzi. Ma ascoltarla e suonarla sin dalla tenera età stimola la memoria, la coordinazione motoria e la plasticità cerebrale, incrementando lo sviluppo delle fibre bianche che collegano parti diverse del cervello. I

più grandi geni e scienziati erano anche musicisti. Ad esempio Einstein era un violinista. Inoltre la musica facilità la comunicazione e l’espressione emotiva nei bimbi più timidi e introversi migliorando anche l’acquisizione del linguaggio.

Non dimentichiamo che ascoltare e fare musica crea un senso di appartenenza e rafforza la coesione.








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