“Una nuova, sana società che si consolida e si sviluppa costantemente, nella quale prevalgono l’uguaglianza e l’armonia […] una società in cui la felicità, la prosperità e l’uguaglianza siano patrimonio comune“.
Erano questi i principi ispiratori della Kampuchea Democratica (come i khmer rossi chiamarono la Cambogia dopo la presa del potere nel 1975) secondo il suo leader Pol Pot, nato il 19 maggio 1925 e morto il 15 aprile 1998.
A chi sopravvisse alla sua folle dittatura, quel nome ricorda invece deportazioni, campi da lavoro, uccisioni, fame, stupri e terrore puro.
“Si viveva in un costante terrore: avevamo paura di dire o fare qualunque cosa”, ricorda Ny, una donna cambogiana che nel 1975 aveva 5 anni.
“Non si doveva nemmeno piangere e nel caso era tassativo non farsi vedere da nessuno perché avrebbe potuto dirlo in giro. Si doveva mostrare di essere sempre contenti”.
Nei quasi quattro anni (aprile 1975 – gennaio 1979) in cui fu a capo della Kampuchea Democratica, Pol Pot si rese responsabile di un vero e proprio genocidio, che causò la morte di almeno 1,4 milioni di cambogiani e per il quale non fu mai processato.
Ma chi era veramente Pol Pot? Scopriamolo insieme.
1. Nato nel benessere
Saloth Sar, questo il suo vero nome, nacque nel villaggio di Prek Sbauv, nel Nordest della Cambogia (allora colonia francese), da una famiglia abbastanza benestante che a 9 anni lo inviò a Phnom Penh, la capitale, per intraprendere studi religiosi.
Ma il suo rendimento scolastico era scarso e, giunto alle superiori, optò per una scuola tecnica dove invece vinse, nel 1949, una borsa di studio per andare alla prestigiosa scuola parigina Efrei.
A Parigi venne a contatto con gli intellettuali comunisti dell’epoca e nel 1951 entrò nel Circolo Marxista Khmer (dal nome del popolo originario della Cambogia) che raggruppava i giovani cambogiani di sinistra studenti a Parigi.
L’anno successivo aderì al Partito Comunista Francese e nel 1953 rientrò in Cambogia per partecipare, con il gruppo da lui fondato dei khmer rossi, come si facevano chiamare i seguaci del futuro regime della Kampucea, al movimento Viet Minh per l’indipendenza dell’Indocina, costituita da Vietnam, Laos e Cambogia e dominata dai francesi.
Ma, storicamente, qual è la vera origine dei khmer? Il popolo khmer era originario dell’Indocina meridionale, la zona attualmente corrispondente a Cambogia, Thailandia e Vietnam.
L’apogeo della civiltà khmer cade fra il IX e il XIV secolo quando diede prova di grande raffinatezza architettonica con la costruzione del celebre tempio Angkor Wat, il più grande monumento religioso del mondo, eretto nei pressi della città di Siem Reap, nel Nordovest della Cambogia.
Il glorioso impero khmer cessò di esistere nella prima metà del XV secolo quando venne sconfitto dall’invasione dal popolo siamese.
Nella foto sotto, il giovane Pol Pot con Mao Tse-tung.
2. La presa del potere e i famigerati killing fields
Cacciati i francesi, però, re Norodom Sihanouk spazzò via l’opposizione e condannò Saloth all’esilio per 12 anni.
Nel frattempo la guerra che infuriava nel vicino Vietnam si espanse anche in Cambogia, dove il 18 marzo 1970, con un colpo di Stato, il governo passò nelle mani del maresciallo Lon Nol.
L’appoggio dato in seguito agli Stati Uniti esacerbò gli animi delle classi sociali più basse e in questo clima Saloth, con lo pseudonimo di Pol Pot, avviò una guerriglia serrata che si concluse il 17 aprile 1975 con la capitolazione di Phnom Penh e la presa del potere (foto sotto).
Nacque così la succitata Kampuchea Democratica, il regime di terrore che aveva come programma quello di cancellare completamente la società esistente e sostituirla integralmente con un nuovo modello fondato su un’economia agricola, articolata in enormi comuni in cui tutti i cambogiani sarebbero stati “uguali e liberi” e impegnati nel lavoro per il bene della nuova società socialista.
In realtà queste comuni divennero grandi campi di concentramento e di morte, tristemente noti come killing fields (campi della morte), dove i prigionieri erano costretti a lavori massacranti.
Fedeli a questa utopica società agricola socialista, i khmer rossi diedero inizio allo svuotamento delle città, a partire proprio dalla capitale, con estenuanti marce che da tutta la Cambogia obbligavano i cittadini a raggiungere le fantomatiche comuni agricole.
«Dopo pochi giorni di cammino le piante dei piedi diventavano un’unica piaga. Anche durante le soste gli adulti erano sempre sorvegliati, mentre i bambini potevano girare un po’ e così qualcuno finì per mettere il piede sulle mine», ricorda la nostra testimone oculare.
Chi non reggeva i ritmi di marcia veniva ucciso sul posto e abbandonato, mentre chi trovava la forza per proseguire poteva contare su una manciata quotidiana di riso. Una porzione che diminuiva ogni giorno finché non veniva raggiunta la tragica meta finale: i killing fields.
Qui i prigionieri erano divisi in base a sesso, età, mestieri svolti e religione e avviati alla sistematica epurazione che i khmer rossi avevano in mente per eliminare il vecchio ordine: le religioni (buddista, cristiana, ebrea e musulmana), le minoranze etniche (vietnamita e thailandese) e gli intellettuali.
3. Un esercito di ragazzi
In realtà bastava possedere dei libri, conoscere una lingua straniera o addirittura semplicemente portare gli occhiali da vista per finire nel mirino dei khmer rossi, soldati in gran parte bambini e adolescenti che «portavano il fucile a tracolla e quasi toccava terra talmente erano piccoli.
"Erano tanti, tutti vestiti di nero, con la kroma, una specie di sciarpa, legata al collo. Alcuni erano scalzi, altri avevano le scarpe fatte con i pneumatici", ricorda la signora Ny.
A ognuno dei loro prigionieri veniva affidato un compito, compresi i bambini più piccoli, che venivano impiegati come spaventapasseri umani e obbligati a correre per scacciare gli stormi di piccoli pappagalli verdi che minacciavano il riso.
Per tutti gli altri invece il lavoro significava faticosi disboscamenti per creare nuove aree agricole, letali costruzioni di improbabili opere faraoniche come dighe o interminabili giornate passate nelle risaie, in preda alle sanguisughe.
La fatica del lavoro si sommava alla fame: il cibo, infatti, consisteva in una latta di latte condensato di riso e una di sale grosso per gli adulti addetti ai lavori pesanti, mezza latta ai bambini e altrettanto agli anziani.
Accorgimento di vitale importanza era non farsi mai male e non ammalarsi: i prigionieri incapaci di lavorare venivano infatti raggruppati in un capannone isolato senza cure né sostegno e lasciati morire.
Per tutti, poi, era obbligatorio sottostare all’indottrinamento del partito, chiamato Angkar, un’organizzazione che incarnava l’ideale sociale dei khmer rossi.
Un mondo in cui tutto ciò che era ritenuto “borghese” (soldi, banche, scuole, religione) non esisteva più e lo Stato era guidato dai membri del partito identificati come Fratelli, con Pol Pot, il Fratello numero 1, alla guida.
L’Angkar doveva sapere tutto: così, nelle riunioni serali, obbligatorie per tutti, veniva incentivata la delazione. Le spie denunciavano chi non si era impegnato abbastanza o era poco devoto dalla causa.
4. La fine di Pol Pot
Sullo scacchiere internazionale, il regime cambogiano divenne, negli anni, una pedina rilevante nel contrasto tra URSS e Cina, il cui leader, Deng Xiao-ping, vedeva in Pol Pot un baluardo da opporre al Vietnam, sempre più influenzato dai sovietici.
Gli scontri al confine tra Kampuchea Democratica e Vietnam sfociarono in una guerra che finì il 7 gennaio 1979 quando i vietnamiti entrarono a Phnom Penh mettendo fine al regime dei khmer rossi.
I leader cercarono rifugio nella giungla, ma furono catturati e processati. A questo destino, però, sfuggì Pol Pot, che in un primo tempo, grazie all’appoggio di Stati Uniti e Cina, si ritirò nell’Ovest della Cambogia con alcuni fedelissimi per rimettere in piedi un esercito che il nuovo governo.
Fu questo appoggio a impedire che venisse processato. L’equilibrio durò fino a dopo la metà degli anni Novanta, quando i khmer rossi, internamente sempre più divisi, persero del tutto il loro ruolo politico- militare e, la notte del 15 aprile 1998, Pol Pot morì.
Sul numero delle vittime causato dal regime dei khmer rossi (durato meno di 4 anni) gli storici non sono d’accordo.
Una delle stime più attendibili è quella proposta da Amnesty International che ha calcolato in 1,4 milioni i morti attribuibili a Pol Pot e ai suoi seguaci, pari a circa il 20 per cento della popolazione cambogiana.
Altre fonti propendono per cifre maggiori, come, ad esempio, il governo vietnamita, che arrivò a indicare in 3,3 milioni il numero delle vittime.
Uno studio dell’Università di Yale ha calcolato invece 1,7 milioni i morti, ma la stima resta imprecisa: per esempio, nel killing field più tristemente famoso, Choeung Ek, a 15 km da Phnom Penh, furono uccise almeno 10mila persone, ma poco si conosce su tutti gli altri.
Discorso analogo per le circa 20mila fosse comuni, che, secondo le stime, potrebbero contenere circa 1,3 milioni di corpi, e le prigioni, veri e propri centri di tortura: nella più nota, denominata S-21, perirono quasi 20mila persone (foto sotto).
5. Tutti a processo, tranne lui
Il primo tra i dirigenti dei khmer rossi a essere stato processato è stato Kang Kek Iew (foto accanto), importante esponente politico, condannato all’ergastolo nel 2012 per crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, omicidio e tortura, e ancora vivente.
Il 16 novembre 2018 il Tribunale speciale della Cambogia per la persecuzione dei crimini commessi durante il periodo della Kampuchea Democratica, istituito a Phnom Penh nel 2003 in seguito a un accordo tra Nazioni Unite e governo della Cambogia con l’obiettivo di processare gli ultimi dirigenti dei khmer rossi, ha inflitto l’ergastolo sia a Nuon Chea, vice e braccio destro di Pol Pot, sia a Khieu Samphan, ex capo di Stato della Kampuchea Democratica, perché riconosciuti colpevoli di genocidio e crimini contro l’umanità.
Tra i reati a loro ascritti, infatti, ci sono anche quelli di sterminio, schiavitù, deportazione, reclusione, tortura, persecuzione per motivi politici, religiosi o razziali, sequestri e stupri di massa.
Nuon Chea è morto il 3 agosto 2019 a Phnom Penh all’età di 93 anni. Quanto a Pol Pot, leader dei khmer rossi, non è mai comparso davanti al Tribunale: è morto senza rendere conto del suo criminale operato.
Nella foto sotto, L'albero di Chankiri o albero delle uccisioni ((EN) Chankiri Tree o Killing Tree) è un albero situato in uno dei numerosi Killing Fields cambogiani del regime comunista degli khmer rossi, contro il quale neonati e bambini venivano scaraventati con forza e uccisi, poiché i loro genitori e parenti erano stati accusati di aver tradito o cospirato contro gli khmer rossi. Ciò era fatto in modo che i bambini "non crescessero e si vendicassero della morte dei loro genitori".