Sulla psicoterapia se ne dicono tante.
Per alcuni, che evidentemente ne hanno beneficiato, è “l’unico modo per risolvere le cose”, per altri, che invece si sono trovati male “è solo una perdita di tempo e di soldi”.
Per altri ancora, che non sanno bene cosa sia, “non serve, basterebbe semplicemente parlare con un amico”.
L’ingrediente segreto per far funzionare una psicoterapia? Sei tu.
Perché non si tratta di assumere una pillola miracolosa, ma di fare un viaggio. Occorre essere disponibili a navigare in mare aperto
Lo psicoterapeuta non è un mago che usa formule magiche, e non è un prete che ti impone regole morali. Se lo fa, è di sicuro quello sbagliato!
Oggi parleremo di psicoterapia ed in particolare andremo a scoprire alcune cose molto interessanti, come ad esempio il rapporto medico-paziente, gli ingredienti per una psicoterapia di successo, come scegliere il terapeuta e tante altre cose.
Buona lettura.
1. Il setting, un recinto di libertà
Sulla psicoterapia se ne dicono tante.
Per alcuni, che evidentemente ne hanno beneficiato, è “l’unico modo per risolvere le cose”, per altri, che invece si sono trovati male “è solo una perdita di tempo e di soldi”.
Per altri ancora, che non sanno bene cosa sia, “non serve, basterebbe semplicemente parlare con un amico”.
Il cinema, poi, ha confuso ancora di più le idee: alcuni l’hanno rappresentata in modo positivo (“Il matrimonio che vorrei”, con Meryl Streep), altri in modo negativo (“The unsaid”, con Andy Garcia), mentre Woody Allen a volte l’ha esaltata (come in “Un’altra donna”, con Gena Rowlands), a volte l’ha distrutta (come in “Manhattan”, con Diane Keaton).
Sono in pochi a sapere “come si segue” e “come si favorisce” un percorso terapeutico. Senza accorgersene, la persona in terapia può commettere una serie di errori che rischiano di compromettere anche la situazione più favorevole.
“Setting” è la parola chiave per evitare questi errori. Con “setting” si intende quell’insieme di regole che definiscono gli incontri tra il paziente e il terapeuta: l’ora, la durata e la frequenza delle sedute, lo spazio in cui si svolgono (lo studio), le modalità della relazione tra i due (ciò che si può e ciò che non si può dire o fare), gli aspetti etici che regolano il rapporto, l’onorario del terapeuta e le modalità del pagamento.
Non sono semplici regole organizzative: nel loro insieme forniscono un’invisibile ma salda struttura all’interno della quale la cura della persona è realmente protetta dalle tante influenze che può subire, dall’esterno ma anche dall’interno.
Se in alcuni momenti, agli occhi del paziente, può sembrare un recinto che limita le possibilità, in altri appare con chiarezza che tale recinto offre una vera libertà espressiva, la possibilità di interiorizzare meglio la pazienza, il rispetto, la capacità di prendere coscienza di sé.
2. Come gestire il transfert e il rapporto medico-paziente
Il pieno rispetto del setting da parte di entrambi è dunque l’ingrediente che, al di là di tutti i discorsi, garantisce ottime chance alla terapia.
Rispettarlo tuttavia non è sempre facile, oggi più che mai, visto che siamo diventati schiavi della connessione continua.
La tentazione di “aggiornare” il terapeuta in diretta è forte. In realtà aspettare l’appuntamento consente alla persona di stare da sola con il proprio problema e di farne una prima, fondamentale elaborazione. Poi c’è da fare i conti con il cosiddetto transfert.
Si tratta di un meccanismo psichico inconscio per il quale la persona trasferisce nel rapporto col terapeuta le stesse modalità di relazione problematiche che mette in atto nella vita quotidiana, ad esempio cerca il conflitto o diventa dipendente o cerca di piacere ad ogni costo.
In sostanza proietta sul terapeuta, a seconda dei propri temi irrisolti, un ruolo che non gli compete: quello di genitore, di partner, di fratello, di amico, di salvatore, di sfidante. Quando ciò accade il terapeuta deve gestire una situazione difficile: il paziente non vuole rinunciare a questo “gioco di ruoli”.
Per sventare il pericolo che un transfert boicotti la terapia, è necessario che la persona sia disponibile ad accettare che ciò che prova e ciò che si aspetta dal terapeuta sia frutto di una propria proiezione, a cui rinunciare comprendendone, insieme, il significato.
Infine bisogna sapere che nessuna psicoterapia, qualunque sia la sua tecnica, potrà mai funzionare se non si è determinati. Molti percorsi, infatti, si concludono poco dopo l’inizio perché non si hanno subito risultati tangibili, oppure nei momenti cruciali in cui ci sarebbe da tirar fuori un “di più”.
Ecco, forse è proprio questo concetto del “di più” a spingere quasi tutte le terapie verso la riuscita. In pratica, nella cura psicologica fare “il minimo” non basta. La sufficienza non è sufficiente.
L’esperienza concreta dimostra che starà bene la persona che offre al proprio percorso “più amore” e più impegno, gratuitamente, senza fare calcoli e senza chiedersi se “vale la pena”. E senza aspettarsi la soluzione “da fuori”.
Perché non si tratta di assumere un farmaco, ma di iniziare un viaggio dentro se stessi. Rischiando anche il mare aperto. Ovviamente ciò vale se, di fronte, c’è un terapeuta che, a sua volta, non si limita al compitino.
Perché ciò che fa riuscire la terapia è la qualità del rapporto, l’alleanza sana che si riesce a instaurare tra terapeuta e paziente.
3. Ecco gli ingredienti per una psicoterapia di successo
Un rituale di cui occorre rispettare modi e tempi:
- Lealtà
In terapia bisogna dire la verità, il che significa anche non omettere cose importanti. Mentire qui significa mentire a se stessi e quindi boicottarsi. Inoltre ricordiamoci che il terapeuta può lavorare solo sul materiale che gli forniamo noi. - Rispetto dei tempi
Arrivare in orario all’appuntamento: pare banale invece è molto importante, non solo perché così si sfrutta tutto il tempo, ma anche perché indica a noi stessi con quanta serietà stiamo affrontando questo impegno. - Ritmo
Non si va in terapia una volta ogni tanto, magari disdicendo all’ultimo momento perché quel giorno sembra di non aver niente da dire. La psiche ha bisogno di un ritmo a prescindere dagli umori delle singole giornate. - Segretezza
I contenuti delle sedute non vanno rivelati a nessuno, perché il lavoro interiore va protetto dai giudizi anche di chi ci ama. Quello che gli altri vedranno, eventualmente, saranno i cambiamenti. - Discrezione
È fondamentale non cercare di entrare nella sfera privata del terapeuta o voler sapere cose della sua vita. Anch’egli può avere dei problemi, come tutti, ma è la sua figura professionale che conta, e deve essere rispettata. - Sacralità
Il tempo della seduta non deve essere vissuto come “una delle tante cose” che si fanno nella routine settimanale. È un spazio sacro, da vivere con un senso dell’extra-ordinario. Non si va a chiacchierare, ma a stare con se stessi.
4. Come scegliere il terapeuta
Né amico né spalla: ti serve uno che sappia anche scuoterti!
È fin troppo banale dire che, per una buona riuscita, è necessario anche trovare il terapeuta giusto. Il punto è quel che va inteso con la parola “giusto”.
Non basta trovarsi bene sul piano umano, sentirsi capiti e vederlo realmente interessato a ciò che diciamo. Tutte cose importanti, ma non sufficienti.
È fondamentale che il terapeuta non colluda con le nostre proiezioni e con i nostri problemi.
Ad esempio, non deve renderci tutto facile: in certi momenti la terapia deve porre domande scomode, farci vedere ciò che non vogliamo vedere di noi stessi, metterci davanti a delle responsabilità.
È in queste fasi che il terapeuta sembra quasi un nemico, un traditore del bel clima di comprensione che si era creato. Ma, in realtà, è da qui che si può capire se sia quello giusto, e soprattutto se il rapporto sia valido.
Il bravo terapeuta sa accogliere ma anche arginare e delimitare: è uno dei suoi compiti principali.
Perciò non cerchiamo qualcuno che incoraggi le nostre nevrosi e gli atteggiamenti sbagliati in nome di una presunta “modernità psicologica” o di una simpatia amicale, né che accetti di estendere la seduta fuori dal setting, al telefono o per sms.
Cerchiamolo umano ma rigoroso: sbaglierà poco, ci aiuterà a fare le cose migliori per noi stessi.
5. La guida pratica
Andare in psicoterapia nel modo giusto è già metà della cura:
- Non delegare tutto a lui
Non andiamo in psicoterapia perché il terapeuta risolva i nostri problemi. A risolverli saremo comunque noi.
Perciò non aspettiamoci “magie” né soluzioni immediate e, soprattutto, che lui prenda decisioni al posto nostro. O, ancora, che ci dica cosa è giusto o sbagliato per noi. Se dovesse farlo, cambiamolo subito. - Preparati all’incontro
È opportuno arrivare all’appuntamento mettendosi nella giusta disposizione d’animo, visto che passeremo un’ora a parlare della nostra vita “che conta”.
Uno dei principali errori da evitare è, quando si è in sala d’attesa, chattare tutto il tempo fino a quando non si viene chiamati. Toglie concentrazione e raccoglimento. - Elabora anche a casa
Fare una psicoterapia non significa soltanto parlare di sé nell’ora di seduta, ma riflettere con una certa frequenza durante la settimana, così da tenere vivo ed elaborare quanto è emerso.
Non usciamo perciò dallo studio rimuovendo subito tutto: facciamo in modo che le intuizioni inizino a diventare nuovi comportamenti e atteggiamenti quotidiani.