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Pu Yi: l’ultimo dragone, imperatore della Cina

Un bambino di nemmeno tre anni si trovò al cospetto di una vecchia zia che non aveva mai visto prima, nel palazzo più vasto e monumentale del mondo.

«Ricordavo di essermi trovato circondato da estranei. Davanti a me pendeva una tenda grigiastra, dietro alla quale potei vedere un volto emaciato, di una bruttezza terrificante. Mi misi a strillare a squarciagola».

Questo è il ricordo di Aisingioro Pu Yi, ultimo imperatore della Cina, quando fu portato dinnanzi alla morente imperatrice Cixi, il 13 novembre 1908. La sovrana l’aveva scelto come successore al trono, affidando la reggenza a suo padre, il principe Chun Yixuan.

La dinastia Qing, che governava la Cina da due secoli e mezzo, doveva continuare, sebbene la situazione politica e sociale fosse catastrofica. Il Celeste Impero, ormai decadente e arretrato dopo secoli di isolamento e rifiuto della modernità, era assediato dalle potenze straniere.

E, all’interno, era minato dall’odio dei cinesi per la stirpe regnante di origine mancese, essa stessa considerata straniera. Erano stati proprio i Manciù a imporre ai sudditi di portare il codino, prima sconosciuto.

Salito al trono di un Celeste Impero ormai al tramonto, Pu Yi visse gli anni più drammatici nella storia dell’Estremo Oriente. Si lasciò coinvolgere in un regno fittizio e terminò la sua straordinaria vicenda umana come “cittadino giardiniere” nella Cina di Mao.

Ecco chi era veramente Pu Yi: l’ultimo dragone, imperatore della Cina.

 

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1. L'infanzia

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Il bambino prescelto per il trono, nato il 7 febbraio 1906, fu proiettato in un mondo metà da fiaba e metà da incubo.

Veniva accudito da 3.000 eunuchi, da secoli padroni della corte della Città Proibita di Pechino: un’immensa cittadella, preclusa ai comuni mortali, con decine di palazzi e padiglioni, da cui gli imperatori governavano un quarto dell’umanità.

I castrati guardiani degli harem viziavano il bambino, che giocava con loro come voleva, trattandoli come marionette.

Pu Yi avrebbe ricordato: «Quand’ero piccolo, mi piaceva correre in giro, proprio come fanno tutti i bambini. Le prime volte, quelli del mio seguito avevano cercato di corrermi dietro, ansimando e sbuffando, riducendo in uno stato di caos totale l’ordinata processione. Quando, divenuto più grandicello, ebbi imparato a dare ordini, dicevo loro di fermarsi e aspettarmi». E poi, per provare il suo capriccio assoluto, ordinava: «Mangia questa zolla di fango, fallo per me».

Sebbene Pu Yi fosse solo un bambino, ogni suo pranzo era ricco come quello di un re e comprendeva (sono le sue parole) «rotolini all’uovo primavera, pollo con funghi, anatra alla triplice delizia, quadrucci di pollo, prosciutto al vapore, trippa, agnello con spezie, patate dolci con ciliegie, anatra speziata, germogli di soia, fagioli con zenzero».

Intorno a tanta abbondanza c’era un sistema corrotto di lussi e privilegi. Gli eunuchi trovavano un surrogato alla loro menomazione strafogandosi di cibi e ghiottonerie, tanto che, ogni mese, la mensa imperiale consumava 2.000 kg di manzo, agnello e maiale, più 388 tra polli e anatre.

Ma Pu Yi era troppo piccolo per accorgersi del marcio intorno a lui. Giocava a nascondino, si divertiva e non sapeva nulla di quanto accadeva fuori dalla Città Proibita. Il 10 ottobre 1911, a Wuchang, una guarnigione militare si ammutinò e proclamò la repubblica.

La rivolta si estese e tre mesi dopo, il 12 febbraio 1912, il consiglio della Corona decise di far abdicare Pu Yi, che all’epoca aveva 6 anni. La Cina diventava repubblica sotto la presidenza del generale Yuan Shikai, mentre l’ignaro bambino, senza più né funzioni né scopo, restava in un limbo.

Per rispetto delle tradizioni millenarie del Paese, gli si garantì il potere nella sola Città Proibita, assicurandogli una rendita annua di 4 milioni di tael d’argento, equivalenti a 4 milioni di dollari.

Ma cinque anni più tardi, un generale, Zhang Xun, tramò la restaurazione del regime imperiale: il 1° luglio 1917, le sue truppe occuparono Pechino e l’undicenne Pu Yi fu incoronato un’altra volta imperatore.

I repubblicani, a loro volta, assediarono la capitale, mandando perfino un aeroplano sulla Città Proibita a sganciare tre piccole bombe, che causarono solo un ferito. Il sovrano avrebbe ricordato: «Il giorno dell’incursione aerea io ero seduto in classe e discorrevo con i miei insegnanti, quando sentii un aeroplano e il fragore di un’esplosione.

Ne fui così terrorizzato che mi misi a tremare, mentre il pallore si diffondeva sul viso dei miei istitutori». Il 12 luglio, Pu Yi abdicò per la seconda volta. Nella foto sotto, Pu Yi (a destra) col padre e il piccolo fratellino.

 

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2. Incerto tra due regine, le sposa entrambe

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In vista della sua uscita dalla Città Proibita, i consiglieri imperiali pensarono di preparare il sovrano alle insidie del mondo esterno, chiamando un precettore occidentale, lo scozzese Reginald Johnston, che arrivò il 4 marzo 1919 e si prese cura del ragazzino, che aveva 13 anni.

L’impressione dell’insegnante fu positiva: «Il giovane imperatore non ha alcuna conoscenza dell’inglese o di qualsiasi altra lingua europea, ma sembra ansioso di imparare e ha una mente pronta.

È autorizzato a leggere i giornali cinesi e dimostra chiaramente un intelligente interesse per le notizie del giorno, specie quelle politiche, riguardanti sia il suo Paese, sia l’estero». La buona intesa tra i due consentì a Johnston di chiamare il sovrano stante la conferma della miopia avesse creato sconcerto in tutta la corte (un imperatore doveva essere perfetto).

Nel 1922, a 16 anni, per Pu Yi arrivò il momento delle nozze. Gli vennero mostrate foto di principesse manciù, tra le quali spiccava per avvenenza la tredicenne Wen Xiu, ma i consiglieri facevano pressione affinché la scelta cadesse su Wanrong, ritenuta più adatta come imperatrice.

Nel dubbio, Pu Yi le sposò entrambe: Wen Xiu come consorte secondaria e Wanrong primaria. Cresciuto solo con eunuchi, tuttavia, non ingranò facilmente con le mogli. Proprio sugli eunuchi lo ammonì Johnston, avendo scoperto che saccheggiavano i magazzini imperiali svendendo le opere d’arte accumulate lì da generazioni.

Quando il sovrano aprì finalmente un’inchiesta, un maldestro tentativo di nascondere le prove delle ruberie diede origine a un vasto incendio, appiccato dolosamente nella Città Proibita la notte del 27 giugno 1923. Pu Yi reagì rabbiosamente, scacciando la gran parte dei castrati, tranne un centinaio.

Dopo l’ennesimo colpo di Stato, attuato il 23 ottobre 1924 dal generale Feng Yuxiang (foto in alto a sinistra), la posizione del sovrano si indebolì ulteriormente. Feng era uno dei più bizzarri fra i “signori della guerra” che negli anni Venti si disputavano la Cina.

Fervente cristiano, ma con venature marxiste, abolì il trattamento di favore accordato al sovrano e, il 5 novembre, intimò a lui e al suo seguito di abbandonare la Città Proibita. Fu questa la vera fine della monarchia cinese, dato che il decreto del generale Feng aboliva “in perpetuo il titolo imperiale”.

Alle 9 del mattino, mentre l’imperatore e la moglie Wanrong facevano colazione con frutta cotta, arrivò un messaggero che recava l’ultimatum di Feng: la Città Proibita doveva essere abbandonata entro mezzogiorno e l’appannaggio annuo imperiale veniva ridotto a mezzo milione di dollari. Nelle sue memorie, Pu Yi descrive così la scena: «Io balzai in piedi, lasciando cadere sul pavimento una mela mangiata a metà e afferrai la carta per leggerla».

Subito dopo, alcuni soldati iniziarono a irrompere nella cittadella. Anni dopo Wanrong testimoniò: «Mentre stavamo facendo la prima colazione, la mia vecchia balia entrò di corsa, gridando che i soldati cinesi stavano irrompendo attraverso le porte per prenderci. Io pensai che fosse diventata scema e le dissi di calmarsi.

Stavo mangiando una mela di rara squisitezza e non mi interruppi. Invece la balia aveva ragione». Il dettaglio della mela fu confermato dallo scrittore Chang Monlin, che pochi giorni dopo entrò nei palazzi deserti e vide le stanze come Pu Yi le aveva lasciate: «Sulla tavola, la metà di una mela tagliata di fresco e una scatola di biscotti appena aperta. Evidentemente l’imperatore era stato colto di sorpresa e aveva abbandonato il palazzo così com’era in quel momento».

Nella foto sotto, Pu Yi con la moglie Wanrong. In piedi dietro l’imperatore, Reginald Fleming Johnston, il suo precettore scozzese. Nel 1919, Johnston fu il primo non cinese a essere ammesso alla corte degli imperatori del Drago, e visse nella Città Proibita fino al 1924, quando Pu Yi fu espulso da Pechino.

 

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3. L’interessata protezione giapponese

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Inizialmente, Pu Yi pensò di chiedere asilo agli inglesi, ma l’ambasciatore Ronald Mac Leavy, non volendo noie, gli suggerì di rivolgersi ai giapponesi.

Così, Pu Yi e compagni affollarono l’ambasciata nipponica a Pechino, poi, il 23 febbraio 1925, si trasferirono in un’ampia villa cinese a Tianjin, il cui territorio era sotto la sovranità giapponese.

Lì venne ricostruita una parvenza di corte. Pu Yi e le mogli erano sorvegliati dalla polizia segreta nipponica, la Kempeitai. Wen Xiu si sentiva messa da parte e divorziò dal sovrano, mentre l’altra consorte, Wanrong, divenne progressivamente schiava dell’oppio. Un rapporto della Kempeitai riporta: «La moglie numero uno è dedita agli stupefacenti ed è un pacco di nervi».

Pu Yi cominciò a tramare per farsi alfiere della patria storica dei suoi antenati, la Manciuria. Aveva intessuto contatti con i rivoltosi, fra cui spiccavano l’avventuriero russo antibolscevico Grigorij Semenov, da lui finanziato con 50 mila dollari, e soprattutto il più forte tra i “signori della guerra” mancesi, Zhang Zuolin (foto in alto a sinistra). Poiché Zhang disponeva di 250 mila soldati, il monarca avrebbe potuto contare sulla sua protezione, senza più doversi affidare ai giapponesi.

Ma l’esercito nipponico la pensava diversamente. Per far capire a Pu Yi chi comandava davvero, i colonnelli Kenichi Doihara e Seishiro Itagaki organizzarono un attentato dinamitardo che, il 4 giugno 1928, fece saltare in aria il treno su cui viaggiava Zhang, uccidendolo. 

Pu Yi fu costretto a riavvicinarsi ai giapponesi, anche a causa di una ferale notizia: le truppe cinesi a Pechino avevano profanato e saccheggiato le tombe degli imperatori manciù. I monili dei sepolcri, fra oro, giada e diamanti, ammontavano a un valore stimato fra i 17 e i 50 milioni di dollari, e finirono sul mercato dei ricettatori.

Infuriato per lo scempio, il sovrano si mise a disposizione dell’armata giapponese del Guangdong, che il 18 settembre 1931 organizzò una sparatoria lungo la ferrovia mancese presso Mukden. Dal pretesto scaturì l’invasione nipponica della Manciuria. Il colonnello Doihara si recò da Pu Yi il 30 settembre e gli disse: «Il popolo della Manciuria invoca il ritorno della vostra maestà imperiale».

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Quel colpo di scena si spiega con il fatto che i giapponesi avevano bisogno di uno Stato fantoccio per giustificare la loro occupazione del Paese. Pu Yi, perso nelle illusioni, a tratti sovrastimava la sua importanza, a tratti si rendeva conto di essere solo uno strumento del Giappone.

Il 18 febbraio 1932, i nipponici orchestrarono una “proclamazione d’indipendenza” della Manciuria (chiamata anche Manciukuò): un’assemblea caricaturale nominò Pu Yi “reggente con la carica di presidente”, in previsione dell’investitura a imperatore del Manciukuò.

La cerimonia si tenne il 1° marzo 1934 e il giovanotto vi si presentò con indosso la preziosa tunica tradizionale dei Qing, nonostante i giapponesi insistessero per l’uniforme dell’esercito mancese, ricalcata su modelli nipponici. «Fissai con commozione le tuniche del drago, preservate per 22 anni» avrebbe ricordato poi il sovrano, mentre apriva le valigie in cui, dal 1912, quei preziosi abiti cerimoniali erano richiusi.

Con una veste azzurra a maniche rosse ricamate con draghi d’oro a cinque zampe, Pu Yi sacrificò agli antenati con una cerimonia tradizionale e assunse il nome onorifico di Kang De, illudendosi di pareggiare in rango l’imperatore giapponese Hirohito. Ma i veri padroni della Manciuria, ovviamente, erano i giapponesi.

Su 30 milioni di abitanti, distribuiti su un territorio vasto il triplo dell’Italia, gli indigeni mancesi erano appena 5 milioni: il resto era costituito da 23 milioni di cinesi, 1 milione fra coreani e giapponesi, 150 mila russi fuggiaschi dal bolscevismo, oltre ad altre minoranze.

Ricchezze del Paese erano il ferro e il carbone, le cokerie di Fushun, le acciaierie di Anshan e la grande ferrovia di 1.100 km, spina dorsale del territorio. La Manciuria era un avamposto ideale, da cui il Giappone poteva proseguire la campagna in Cina e anche minacciare Mongolia e Unione Sovietica.

Nella foto sotto, Pu Yi con la moglie primaria, Wanrong. Ebbe due consorti (la moglie secondaria si chiamava Wen Xiu), ma nessuna gli dette figli.

 

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4. Declino e ritorno alla vita normale

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Rabbonito con una rendita di 3,8 milioni di yen (2 milioni di dollari), più l’interesse di 150 mila yen annui derivanti da 5 milioni di yen in buoni del Tesoro del Manciukuò intestati alla famiglia imperiale, il potere effettivo di Pu Yi si limitava alla guardia del corpo personale di 300 uomini.

Si dava a hobby stravaganti, come i giocattoli meccanici. Rifiutando la moglie oppiomane, cercò di assicurarsi un erede al sua trono fittizio sposando, il 25 marzo 1937, la diciassettenne mancese Tan Yuling.

La nuova sposa, però, morì nel 1942 per malattia, anche se Pu Yi sospettò fosse stata avvelenata dai giapponesi prima che potesse partorire un erede al trono. Pu Yu si risposò nel 1943 con la quindicenne Li Yuqin, ma ormai la parabola era alla fine.

Il Manciukuò seguì il destino del Giappone, sconfitto nell’agosto 1945 dalle atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki, ma soggetto anche all’invasione sovietica. Arrestato dai russi, nel 1946 Pu Yi fu testimone al processo di Tokyo, la “Norimberga d’Oriente”.

Non venne condannato per alcun delitto, benché in Manciuria i giapponesi della famigerata “unità 731”, guidata dal dottor Shiro Ishii, avessero compiuto sui prigionieri cinesi spaventosi esperimenti di vivisezione e utilizzato armi batteriologiche, con il tacito consenso del governo mancese.

Preso in consegna dai russi, Pu Yi fu restituito alla Cina il 31 luglio 1950. Nel frattempo, a Pechino si era imposto il regime comunista di Mao Zedong, che rinchiuse l’ex sovrano nella prigione di rieducazione di Fushun, dove fino alla scarcerazione, il 4 dicembre di quello stesso anno, egli non fu altro che “il prigioniero n. 981”.

Rieducato secondo l’ideologia marxista, Pu Yi riconsegnò spontaneamente il sigillo imperiale Qing al governo di Mao. Una volta liberato, tornò a Pechino, dove nel 1962 si sposò per l’ultima volta con l’infermiera Li Shuxian, e infine chiuse la sua esistenza da “cittadino giardiniere”, il 17 ottobre 1967, per un tumore alla prostata.

 

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5. Un dramma da Oscar e le tappe salienti

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- Un dramma da Oscar

I travagli di Pu Yi rischiavano di restare sconosciuti al grande pubblico, ma godettero di imprevista popolarità dopo che nel 1987 il regista italiano Bernardo Bertolucci vi dedicò il suo film più famoso, il pluripremiato L’ultimo imperatore, che segnò la seconda grande collaborazione cinematografica fra la Cina e i Paesi occidentali, dopo la già ottima esperienza dello sceneggiato Marco Polo diretto da Giuliano Montaldo nel 1982.
Il cast era eccellente, con Peter O’Toole nella parte del precettore Johnston, John Lone in quella di Pu Yi adulto (doppiato da Giancarlo Giannini) e la bellissima Joan Chen nel ruolo della moglie Wanrong.
Il film beneficiò anche della spettacolare fotografia di Vittorio Storaro che, unita al florilegio di costumi, scenografie e musiche, garantì il pieno di premi.
Nel 1988, infatti, la pellicola di Bertolucci vinse ben nove Oscar e nove David di Donatello, per tacere di vari altri riconoscimenti meno celebri, ma non meno prestigiosi.
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- Tappe salienti

- 22 DICEMBRE 1908
Poco più di un mese dopo essere stato scelto dalla morente imperatrice Cixi, a soli due anni il piccolo Pu Yi viene incoronato imperatore della Cina, ultimo esponente della dinastia Qing di etnia manciù.
- 12 FEBBRAIO 1912
Dopo la rivoluzione repubblicana, il bambino viene fatto abdicare dal Consiglio della Corona. Gli resterà la sovranità solo all’interno della Città Proibita di Pechino, più una profumatissima rendita.
- 1° LUGLIO 1917
In un tentativo di restaurazione, il generale Zhang Xun incorona di nuovo il ragazzo imperatore della Cina, ma le truppe monarchiche vengono sconfitte pochi giorni dopo e Pu Yi abdica di nuovo.
- 5 NOVEMBRE 1924
Pu Yi, le sue mogli e la corte vengono costretti da plotoni di soldati a lasciare per sempre i palazzi della Città Proibita. Fanno le valigie in poche ore, sloggiati dall’ultimatum del generale Feng Yuxiang.
- 23 FEBBRAIO 1925
L’ex sovrano e la sua corte si insediano in una lussuosa villa di Tianjin sotto sovranità diplomatica giapponese. È l’inizio di un legame fra Pu Yi e Tokyo che lo farà giostrare dai servizi segreti nipponici.
- 1° MARZO 1934
Solenne incoronazione alla carica di “imperatore del Manciukuò”, lo Stato satellite messo in piedi dai giapponesi nella Manciuria occupata. Assume il titolo onorifico di “Kang De” e governa per altri undici anni.
- 31 LUGLIO 1950
Dopo cinque anni di blanda detenzione in Unione Sovietica, viene estradato sul confine mancese e restituito ai cinesi, che lo mettono sotto processo come criminale di guerra e lo condannano al carcere.
- 4 DICEMBRE 1959
L’ormai docile ex prigioniero “n. 981” viene scarcerato dalla prigione di Fushun dopo essere stato rieducato al marxismo in salsa maoista. Lo attendono gli ultimi otto anni di vita da umile giardiniere.

 

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