Da ricette a base di roditori al cervello di vitello a cubetti, cinque storiche ricette ci introducono nelle delizie culinarie del passato, testimonianze di culture e situazioni sociali oggi impensabili, bizzarrie e tentativi arditi che ai giorni nostri forse nessuno penserebbe mai di assaggiare!
Quale sarà il miglior piatto della storia? A voi la scelta!
1. EPOCA VITTORIANA - Torta di ratti bolliti
Torta di ratti bolliti: una delizia senza pelle per ricchi e poveri
La torta di ratti, una leccornia tradizionale proveniente dal nord dell'Inghilterra, scavalcava i confini tra le classi sociali della Gran Bretagna vittoriana.
Una ricetta per prepararla appariva sul numero del 22 aprile 1879 dello Sheffield Independent e suggeriva di cucinarla proprio come una torta di coniglio: bisognava rimuovere pelle e coda ai ratti, lavarli, condirli e tagliarli in quattro pezzi.
Si raccomandava anche di combinare la carne con un po’ di grasso di maiale prima di avvolgerla nella pastella, in modo da formare una sorta di gelatina.
Si potevano anche friggere i ratti nell’olio per rimuovere bene tutto il pelo, oppure li si poteva scuoiare e bollire.
Nei tre volumi del romanzo Mary Ancrlcy: A Yorkshire Tale di R. D. Blackmore (1880) troviamo ulteriori prove che in quella regione la torta di ratti si mangiava davvero.
Uno dei personaggi, appena tornato dalla guerra, dichiara che non mangerà la torta di ratti preparata dalla moglie per la famiglia, poiché a suo dire si tratta di un piatto talmente umile che mangiarlo non è diverso dal “girare come un maiale in una distilleria a caccia di granaglie”.
Pare che le comunità nomadi di epoca vittoriana si nutrissero di ratti perché erano una fonte di cibo abbondante e facile da reperire, e anche i marinai in mare li mangiavano quando le razioni normali si assottigliavano troppo.
Ciononostante, oltre che un mezzo di sostentamento per i poveri, i disperati e la classe lavoratrice, i ratti erano considerati anche una prelibatezza tra gli intenditori del ceto abbiente.
La cucina francese faceva parte integrante della cultura britannica del cibo nei secoli XVIII e XIX non meno che oggi, e il menù di uno dei più rinomati ristoranti di Parigi nel 1870 riporta un piatto costituito da ratti cotti nella cenere ricavata dalla zampa arrostita di un cane, serviti in una torta e accompagnati da funghi.
E se i fini palati francesi mangiavano ratti, è più che lecito presumere che le loro controparti britanniche facessero la stessa cosa.
2. EPOCA TUDOR - Cockentrice
Cockentrice: la combinazione maiale-uccello che metteva l'acquolina in bocca ai re
In uno stravagante tentativo di impressionare il re di Francia, Enrico VIII spese l’equivalente di circa sei milioni di euro odierni per un banchetto che includeva duemila pecore, mille polli e un delfino.
Molti piatti erano pensati per stupire e c'erano alcuni esempi notevoli della tecnica culinaria chiamata engastration, che consiste nel farcire un animale con gli avanzi di un altro.
Il “cuscino di Pandora”, per esempio, era un’oca disossata farcita con un pollo, a sua volta farcito con un fagiano, a sua volta farcito con una quaglia.
Il cosiddetto “arrosto del vero amore” consisteva invece in ben dodici uccelli, uno per ciascun giorno delle festività natalizie: un tacchino, un’oca, un pollo, un fagiano, una pernice, un piccione, un’oca di Aylesbury, un’anatra muta, un pulcino, una faraona, un germano reale e una quaglia, il tutto farcito di spezie e frutta.
C’era poi il “gallo con l'elmo”, una combinazione di maiale e cappone nella quale i due animali venivano arrostiti separatamente e poi il cappone veniva vestito con i simboli araldici dell’ospite a tavola e sistemato perché sembrasse cavalcare il maiale.
Ma la combinazione più famosa è probabilmente la “cockentrice”, ovvero un cappone lesso tagliato in due e cucito alla metà posteriore di un maialino da latte. Le altre due metà venivano disposte allo stesso modo, con la parte anteriore del maiale cucita a quella posteriore del pollo.
La “cockentrice” era un primo piatto piuttosto comune nei grandi banchetti. Una “cokyntryche” figura anche nell’elenco delle molte delizie servite a una festa offerta da John Stafford, vescovo di Bath e Wells, il 16 settembre 1425.
Ecco la ricetta:
“Prendete un cappone, scottatelo, svuotatelo e tagliatelo in due all’altezza della vita. Prendete un maiale, scottatelo, svuotatelo come il cappone e tagliate anch’esso in due all’altezza della vita.
Prendete ago e filo e cucite la parte anteriore del cappone alla parte posteriore del maiale e la parte anteriore del maiale alla parte posteriore del cappone.
Poi farcite il tutto come si farcisce un maiale e cuocete allo spiedo. Quando è pronto, ricoprite l’esterno con tuorlo d’uovo, zenzero, zafferano e salsa di prezzemolo.
Servitelo come carne degna di un re”.
3. MEDIOEVO - Il pavone regale e succulento
Il pavone regale e succulento: uno status symbol per i palati dell'élite
Nell’Inghilterra medievale gli esponenti delle classi più alte solitamente facevano pasti da due o tre portate.
La prima in genere era di zuppa, carne lessa e pesce fritto; la seconda di carne arrosto e uccelli di grosse dimensioni - come i cigni - spesso accompagnati da altra zuppa e con a fianco crema di latte, gelatina e contorni fritti; il pasto si concludeva poi con uccelli più piccoli e altre fritture.
Se tutto questo non bastava a saziare l’appetito, tra una portata e l’altra si potevano inserire “piatti di mezzo” o “sottigliezze”: in origine si trattava di leccornie per stupire il palato, che con il tempo vennero però sostituite da particolari arredi da tavola, per esempio sculture con specifici significati politici.
A determinare che cosa poteva arrivare nel piatto era il calendario religioso: l’alta società medievale spesso si asteneva dalla carne per una buona metà dei giorni dell’anno, sostituendola con il pesce.
Non si mangiava con la forchetta, ma solo con il cucchiaio: per questo molti ingredienti venivano ridotti in polpa e poi rimodellati in nuove forme. Per l’aristocrazia medievale il cibo era uno strumento di ostentazione, cosa che diventava particolarmente vera nel caso dei pavoni.
In Inghilterra i pavoni si trovavano in numero ridotto, allevati nelle magioni delle famiglie ricche sia per motivi estetici sia per poterli esibire in tavola: si sa per esempio che il vescovo di Bath e Wells ne possedeva uno nella sua magione di Fulham negli anni Trenta del Trecento.
Un libro di ricette della metà del XV secolo spiega come preparare il pavone arrosto: bisognava togliere la pelle mantenendola intatta e senza strappare le piume, poi arrostire l’uccello mantenendo le zampe nella stessa posizione “da seduto” che avrebbe avuto se fosse stato ancora vivo.
Una volta raffreddata la carne, il corpo veniva rivestito con le sue piume e “servito come se fosse ancora vivo”.
Un altro testo di cucina francese del XIV secolo, il Viandier di Taillevent - generalmente attribuito a Guillaume Tirel, celebre cuoco della corte francese - suggeriva di usare un’impalcatura per tenere dritto il collo del pavone e aperta a ventaglio la coda, oltre a consigliare di mangiare la carne condita con sale fino.
Sebbene a quei tempi circolasse la leggenda che la carne del pavone fosse incorruttibile, i cuochi raccomandavano di non conservarla per più di trenta giorni.
Ciò detto, il suo valore gastronomico veniva già messo in dubbio all’epoca: nel 1429 Maèstre Chiquart, cuoco del duca di Savoia, suggeriva di vestire di piume di pavone un’oca, che era molto più buona, e presentarla al posto del pavone stesso.
4. ANTICA ROMA - Cervello di vitello con uova e frattaglie
Cervello di vitello con uova e frattaglie: una leccornia a cubetti per palati antichi
Mark Grant, autore di un libro sulla cucina romana scrisse a proposito di questo piatto:
"L'anno scorso ho tenuto una lezione di cucina alla Scuola Estiva di Latino di Wells. In un’aula di economia domestica invasa di vapore, venti studenti hanno laboriosamente tagliato, tritato, affettato e fatto a cubetti gli ingredienti di un pasto dell’antica Roma, e il risultato è stato eccellente: pasta fritta, omelette di piselli, fagioli e pancetta, prosciutto in salsa di spezie, purè di pinoli e torta di miele e noci.
Dopo solo mezz’ora di pranzo, tutto quel che rimaneva dei piatti erano le varie foto sui social media.
Questo esempio mostra bene quanto potesse essere semplice e pratica la cucina romana, che tuttavia aveva anche un lato più insolito: non a tutti oggi potrebbero piacere i piatti a base di testicoli, fenicotteri bolliti, ghiri o meduse descritti nel libro di cucina noto come Apicio (opera di un cuoco con lo stesso nome).
A scuola preparai molte delle ricette di questo testo del tardo IV secolo, offrendo ai miei compagni piatti storici come le salsicce piccanti.
L’Apicio è diviso in dieci sezioni tematiche: la terza per esempio è dedicata ai prodotti dell’orto, e tra le altre cose descrive una salsa speziata per la lattuga che ha tutti i profumi dei commerci di Roma con la lontana India (tenuti in tale considerazione che in un insediamento commerciale del subcontinente indiano fu persino eretto un tempio all’imperatore Augusto).
Tra le elaborate ricette della quarta sezione ce n'è una che esigeva di cucinare un cervello.
Tranquillizzai me stesso con il ricordo che da bambino la cervella in effetti mi piaceva davvero, comprai mezzo cervello di vitello dal macellaio locale e poi, obbedendo alla ricetta, rimossi le parti più fibrose e lo brasai.
Poi venne la parte facile: friggere delle uova, bollire del pesce salato precedentemente reidratato e preparare una salsa di vino dolce, pepe, sedano di montagna tritato finemente e rucola, da addensare poi con l’amido.
Fino a quel punto, tutto bene. Ma agli antichi Romani a volte piacevano i sapori forti e l’ingrediente finale della ricetta erano frattaglie di pollo.
Mentre le affettavo per poterle friggere mi domandai se non stessi esagerando con le dosi, ma mi risposi che, nel caso, potevo sempre riprovare la ricetta una seconda volta.
Feci il cervello a cubetti piccoli, tagliai le uova, aggiunsi le frattaglie e disposi il tutto su un vassoio, poi sbriciolai il pesce salato e lo misi in un monticello al centro: l’estetica non era male. Poi versai su tutto la salsa e venne il momento di assaggiare.
Nei momenti più cupi delle tragedie greche a volte un personaggio addolorato esclama “Oimoi, talas”, “Oh povero me!”. Ecco, quello fu il mio momento da tragedia greca.
Nessun piatto dell’antica Roma mi aveva disgustato prima di allora, ma mi bastò un solo assaggio per convincermi che non avrei mai fatto un secondo esperimento con quella ricetta, che pure era tenuta in alta considerazione dai più fini palati dell’Urbe. L’odore pungente di frattaglie di pollo e cervello continuò a ristagnare a lungo nelle mie narici".
Come disse il poeta del Primo secolo a.C. Lucrezio, “Ut quod aliis cibus est aliis fuat acre venenum”: “Quel che è cibo per uno, è veleno per un altro”.
5. EPOCA GEORGIANA - Porcospino alle mandorle
Porcospino alle mandorle: una dolcissima "arma" all'arsenale della padrona di casa
Il “porcospino” che appare nel libro di cucina The Art of Cookery Made Plain and Easy (L’arte della cucina resa semplice) della cuoca inglese Hannah Glasse (1747) è un “animale” fatto di pasta di mandorle coperta con dodici tuorli d’uovo, latte, zucchero, mandorle e burro, insaporita - secondo gusti tipicamente georgiani - con acqua di fiori d’arancio e “canarino” o vino e forse colorata con tintura di zafferano o succo di acetosella.
Il cuoco scolpiva la pasta nella forma di un porcospino con mandorle per aculei e ribes per occhi, e a volte la metteva a bagno in un lago di gelatina di zampe di vitello (la cui sgradevole preparazione era delegata alle sguattere di cucina).
A prima vista potrebbe sembrare un dolce “buffo” da servire a una festa per bambini - anche se forse i bambini di oggi non lo mangerebbero - ma in realtà era un elemento importante nell’arsenale di una padrona di casa di epoca georgiana.
Quando Hannah Glasse lo definisce “un grazioso accompagnamento per la seconda portata, o da servire a metà del pasto o come dessert” indica che era pensato come un piatto da mettere in mezzo a molti altri, dolce e saporito insieme.
Servito con la prima o la seconda portata, sarebbe stato collocato sul tavolo nella posizione perfetta perché i commensali lo scoprissero al loro arrivo per il pasto di metà pomeriggio.
Oppure lo si sarebbe potuto trovare tra gli edifici di zucchero, gelatina e frutta sul tavolo dei dessert a un ballo, da assaggiare nelle ore più tarde della notte.
Comunque, al di là dell’affabile aria di novità, il “porcospino” di Hannah Glasse guardava a due predecessori ben insediati nella cucina di epoca Tudor e Stuart: la crema pasticcera (custard) e il marchpane, che assomigliava al marzapane odierno.
Non si trattava dunque di uno dei piatti nuovi e di poche pretese che stavano adottando in numero crescente le nuove autorità in materia di cucina: le massaie della classe media.
Non era nemmeno un membro del “club aristocratico” dei ragù e delle fricassee di origine francese che quelle stesse signore imitavano, ammiravano, criticavano e tenevano a distanza in egual misura.
E gli mancava anche la capacità di trasformarsi in un classico, che possedevano invece le splendide gelatine scolpite e l’affascinante ultimo arrivato nell’arena culinaria dell’epoca: il gelato. A conti fatti, era solo un eccentrico dolce georgiano.