Rifiuti elettronici: miniere nascoste in casa

Impilati l’uno sull’altro, formerebbero una torre alta 50mila km. Quattro volte il diametro della Terra, oltre un ottavo della distanza Terra-Luna.

Sono i telefonini che smetteranno d’essere utilizzati solo quest’anno: 5,3 miliardi di dispositivi, secondo le ultime stime del Weee Forum, l’associazione mondiale dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee).

Più di metà di questi telefoni finirà dimenticata in qualche cassetto o – peggio – nelle discariche; solo un terzo troverà una seconda vita nei mercati dell’usato.

Eppure, quei cellulari sono delle miniere: con le tecnologie di riciclo già disponibili, da essi si potrebbero recuperare oltre 127 tonnellate d’oro. A cui si aggiungono quantità ancora più grandi di ferro, rame, cobalto, argento e terre rare.

Ma i telefonini non sono gli unici rifiuti elettronici sprecati. Si stima che, in media, ogni famiglia possieda 74 apparecchi, dall’asciugacapelli al frigorifero, di cui 13 sono messi da parte: 4 rotti e 9 ancora funzionanti.

Secondo l’ultimo report Unitar (l’Istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca) nel 2019 ogni abitante della Terra ha prodotto in media 7,3 kg di scarti elettronici l’anno, per un totale di 53,6 milioni di tonnellate.

Nel 2022 siamo saliti a 59,4 milioni di tonnellate e 7,8 kg di rifiuti a testa. Di questo passo, nel 2050 arriveremo a 110 milioni di tonnellate e 11,2 kg a testa. Oggi, in media, più dell’80% non viene raccolto per il riciclo, restando nelle case o finendo nell’ambiente.

Insomma, sono loro la nuova plastica, ma con effetti ancora più devastanti: contengono infatti mercurio, piombo, cadmio, ritardanti di fiamma, clorofluorocarburi, tutte sostanze nocive per l’ambiente e per la salute (possono causare tumori e danni neurologici).

Oro, argento, terre rare, rame: i rifiuti elettronici celano grandi ricchezze, ma più dell’80% non viene recuperato. Ecco come sfruttare al meglio questi giacimenti.

1. RISPARMI MILIONARI (E AMBIENTALI)

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E l’Italia, con 17,5 kg di rifiuti elettronici prodotti a persona, rappresenta purtroppo lo stallo di questo settore: è uno dei 20 Paesi che produce più rifiuti al mondo, ma con un tasso di raccolta per il riciclo del 39,4% è uno degli ultimi in Europa.

Eppure il nostro Paese avrebbe le competenze tecniche per recuperare queste ricchezze nascoste, con vantaggi straordinari: se l’Italia riciclasse il 65% dei Raee – come prescrivono gli obiettivi europei – potrebbe risparmiare 9,9 milioni di euro nell’acquisto di materie prime cruciali per lo sviluppo tecnologico, stima un report di European House - Ambrosetti ed Erion.

Terre rare, litio, platino, rame, alluminio, palladio e molti altri elementi sono essenziali non solo per i telefonini, ma anche per l’industria aerospaziale, i veicoli elettrici, le turbine eoliche e i pannelli fotovoltaici.

Secondo il report, la produzione industriale italiana dipende per 564 miliardi di euro (un terzo del Pil) dall’importazione di materie prime critiche da Paesi extra-Ue, per lo più dalla Cina.

Ma quasi il 20% del valore di queste materie (palladio, rodio, platino e alluminio) arriva dalla Russia, con le intuibili difficoltà e speculazioni legate alla guerra.

Estrarle dai rifiuti ci renderebbe più indipendenti. Senza contare i benefici ambientali: evitando l’importazione e l’attività estrattiva, il recupero di questi materiali eviterebbe l’emissione di 765mila tonnellate di CO2.

Ma come riciclare i Raee? E come sfruttare appieno le miniere urbane riducendo sprechi e inquinamento?

L’Europa è stata la prima a regolamentare il settore nel 2003, introducendo l’obbligo, per i produttori di apparecchiature elettroniche, di finanziare e organizzare la raccolta dei rifiuti.

In Italia ci sono 12 consorzi guidati dal Centro di coordinamento Raee che trasportano i rifiuti agli impianti di smaltimento, che sono un centinaio.

Ma a volte uffici, industrie e negozi non si rivolgono a canali autorizzati per smaltire i rifiuti: Ci sono operatori che propongono di pagare i rifiuti che raccolgono, e molti accettano.

Questi operatori possono pagare i rifiuti perché in realtà non li smaltiscono in modo corretto, procedura che ha un costo in trasporto, energia per lavorarli, manodopera specializzata e impianti a emissioni controllate.

I trafficanti di rifiuti invece li abbandonano nell’ambiente o li esportano illegalmente. I trafficanti, infatti, classificano i loro carichi come materiale funzionante di seconda mano o come dispositivi da riparare: così li spediscono in Ghana, Nigeria, Afghanistan, India e Pakistan, dove sono demoliti alla bell’e meglio (per recuperare cavi metallici e circuiti), bruciati o accatastati, con gravi danni all’ambiente e alla salute degli abitanti.

Solo nel 2020 l’Agenzia per le dogane italiana ha sequestrato 989 tonnellate di rifiuti elettronici diretti all’estero. Sono gestiti da vere organizzazioni criminali, con documenti falsi e un’intera filiera che difficilmente viene colta sul fatto, visti gli scarsi controlli.

2. LE 3 STRADE PER RECUPERARLI

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Questi rifiuti sono veri tesori, ma di non facile accesso. Nei Raee i metalli si trovano a concentrazioni molto più alte rispetto a quelle in natura.

In una miniera, si trovano da 1 a 5 grammi d’oro ogni tonnellata di roccia; nei circuiti stampati ce n’è da 20 a 300 g ogni tonnellata. E lo stesso ragionamento vale per argento, rame, palladio, terre rare.

Il problema è riuscire a separarli: nei minerali il rame è aggregato a una quindicina di elementi, mentre nei Raee salgono a oltre 40, comprendendo anche plastiche, vetro, ceramica e molto altro.

Ciascuno con caratteristiche chimiche molto diverse. Per riuscire a recuperare i vari elementi, oggi si usano 3 tecniche: la pirometallurgia, l’idrometallurgia e la biometallurgia. Una volta raccolti, i rifiuti elettronici vengono disassemblati nei componenti principali: plastiche e metalli.

Il resto finisce per lo più negli impianti pirometallurgici: enormi fonderie che portano i rifiuti ad alte temperature (1.200-1.600 °C) riuscendo così a recuperare i metalli. Le più grandi in Europa sono Umicore (Belgio), Aurubis (Germania) e Boliden (Svezia) e accolgono gran parte dei Raee.

Un procedimento rapido ma ad alto dispendio di energia, necessaria per portare i forni a quelle temperature, spesso con emissioni gassose nocive.

Senza contare che metà del valore dei rifiuti si perde nelle varie fasi di separazione e triturazione, come ha accertato una ricerca tedesca.

Nel frattempo, però, negli Stati Uniti è stato sperimentato un metodo rapido, efficiente e a basso dispendio energetico per trattare i rifiuti elettronici: il riscaldamento flash a effetto Joule.

Il procedimento, presentato l’anno scorso sulla rivista Nature, è semplice: si macinano e polverizzano i rifiuti elettronici, poi si inseriscono in un tubo di quarzo dotato di elettrodi.

Quando si fa passare corrente ad alta tensione, la scarica genera una temperatura di 3.142 °C: così i metalli evaporano e possono essere aspirati per poi raffreddarsi, solidificarsi ed essere recuperati. Il processo dura meno di un secondo.

«In questo modo», dice James Tour, docente di Scienza dei Materiali e Nanoingegneria alla Rice University, «si riescono anche a rimuovere i metalli pesanti tossici. Il processo assorbe 939 kWh per tonnellata di materiale lavorato: 80 volte meno ener- gia rispetto ai forni fusori. Abbiamo brevettato il procedimento, utile anche per ricavare grafene dai rifiuti organici».

3. TRATTATI CON GLI ACIDI

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In Italia non esistono impianti pirometallurgici: il tasso di raccolta dei rifiuti è troppo basso per rendere conveniente questa procedura.

Ecco perché si punta sull’idrometallurgia: sciogliere la frazione metallica dei rifiuti elettronici in soluzioni acide, da cui poi estrarre i sali dei metalli.

Il processo avviene a bassi consumi energetici (a temperatura ambiente o a 100-200 °C) ma occorre controllare l’impatto ecologico dei percolati di acque acide e sostanze nocive.

L’Enea ha avviato Romeo (foto sotto), un impianto pilota di questo tipo a Casaccia (Roma): «Riesce a recuperare metalli preziosi da vecchi computer e cellulari trattandoli a temperatura ambiente con reagenti a basso impatto ecologico», spiega Claudia Brunori, responsabile della divisione Uso efficiente delle risorse.

Non è l’unico progetto. «Abbiamo brevettato due procedimenti per trattare le schede elettroniche macinate», aggiunge.

«Abbiamo ottenuto una formula capace di solubilizzare i metalli (rame, oro, argento, palladio, stagno) in maniera selettiva, in modo da poterli recuperare facilmente. Il processo non impiega acido nitrico, che sviluppa vapori tossici, ma altri acidi biodegradabili, come l’acido acetico. Il tutto avviene in un ciclo chiuso, senza impatti sull’ambiente.
Apriremo un impianto ad Avezzano capace di trattare 300 tonnellate di rifiuti l’anno. E dal 2021 siamo nel progetto Treasure, finanziato dall’Ue con 4 milioni di euro, per il riciclo dei Raee dell’industria automobilistica, che a tutt’oggi non sono recuperati»
.

Una trascuratezza che non ci possiamo permettere: si calcola che entro il 2030 ben 250mila tonnellate di batterie delle auto raggiungeranno la fine vita. Basti pensare che un singolo pacco batteria delle auto elettriche contiene 8 kg di litio, 35 kg di nichel, 20 kg di manganese e 14 kg di cobalto.

Per recuperare queste materie, i Paesi del Nord Europa sono all’avanguardia: nel 2021 ha aperto in Svezia Northvolt, un impianto capace di recuperare fino al 95% dei metalli contenuti in 125mila tonnellate di batterie ogni anno.

E quest’anno ha aperto uno stabilimento simile in Norvegia, Hydrovolt (foto sotto). Ma anche l’Italia potrebbe entrare nel settore: Cnr e Cobat hanno di recente depositato un brevetto per riciclare a costi sostenibili le batterie al litio.

4. BATTERI DEMOLITORI

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Ma c’è anche una terza via, più naturale, per trattare i rifiuti elettronici: la biometallurgia. Ovvero utilizzare alcune specie di batteri, funghi o archaea per separare i metalli.

Da alcuni decenni, infatti, si è scoperto che nel loro metabolismo questi microrganismi disaggregano i metalli. Un procedimento a ridotto impatto ecologico ma più lungo.

«Abbiamo brevettato un metodo di estrazione del rame da schede elettroniche usando batteri capaci di ossidare il ferro», ha raccontato Francesca Beolchini, docente di teoria dello sviluppo dei processi chimici all’Università Politecnica delle Marche.

«Il processo dura 7 giorni. Abbiamo ideato reattori capaci di trattare 200 kg di materiale alla volta: con questo metodo si potrebbe costruire una rete di impianti capillari in tutta Italia, limitando così il trasporto dei rifiuti».

Dunque, uno scenario vivace e promettente, che però non potrà dare molti frutti se non aumenterà il tasso di raccolta dei rifiuti elettronici. Perché l’Italia recupera così poco? E cosa si può fare per migliorare la situazione?

Oggi il territorio italiano è un colabrodo. Dovrebbe esserci un centro di raccolta ogni 20mila abitanti, ma così non è: Roma, ad esempio, dovrebbe averne 150, ma ne ha solo 12.

In generale, il Nord Italia è dotato di un numero adeguato di impianti, ma il Centro-sud molto meno: Sicilia, Calabria, Campania e alcune zone della Puglia sono poco coperte.

I centri di raccolta sono 3.906 per 7.983 Comuni: ma il 62% è al Nord, il 16% al Centro e il 22% al Sud. E i controlli sui traffici illegali ahimè sono scarsi.

Per aumentare la raccolta bisogna dare la possibilità di raccogliere piccoli apparecchi elettronici e pile esauste anche ai negozi di altre categorie merceologiche. E occorrono incentivi per spingere i cittadini a riciclare: ad esempio, prevedendo sconti sull’acquisto d’un nuovo apparecchio quando se ne consegna uno vecchio.

Dal 2016 il decreto ministeriale 121 ha stabilito il diritto dei cittadini a conferire un vecchio dispositivo ai centri commerciali più ampi di 400 m2 anche senza acquistare nulla: la formula “uno contro zero”, ma ancora pochi lo sanno.





5. IL TELEFONO RICICLABILE

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La vera rivoluzione, però, andrebbe fatta a monte: progettando i dispositivi elettronici in modo da facilitarne poi il riciclo dei componenti.

Un esempio virtuoso arriva dai Paesi Bassi, dove è nato Fairphone, uno smartphone modulare: se si guasta un componente, è facile sostituirlo senza dover comprare un nuovo apparecchio.

Il 73% dei materiali è riciclabile in modo facile, e i telefoni sono fatti per durare almeno 5 anni.

Non solo: «I minerali, specialmente la columbite-tantalite, provengono da miniere non controllate dai signori della guerra civile che sta devastando il Congo, e i prodotti sono assemblati da lavoratori a cui sono garantiti diritti sindacali», precisa il sito.

E si punta molto sul riciclo: chi compra un nuovo modello offrendo in cambio uno vecchio funzionante, ottiene uno sconto fino a 200 euro sull’acquisto.

Come indurre gli altri produttori a seguire questo esempio? In Francia una legge impone ai produttori di classificare i di- spositivi elettronici in vendita con un indice di riparabilità da 1 a 10.

E grazie a una legge europea, dal 2024 i produttori di telefoni sono obbligati a inserire la stessa porta (Usb-C) per il caricabatterie: così risparmieremo fino a 250 milioni di euro all’anno sull’acquisto di caricatori non necessari, e non avremo 11mila tonnellate di caricabatterie inutilizzati da smaltire.

Se l’Europa approvasse una legge anche per rendere più ecocompatibili i telefonini in fase di progettazione, la torre di quelli dismessi si potrebbe abbassare di molti chilometri.








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