Un magistrato che credeva nella giustizia e ha svolto il suo mandato fino in fondo, nonostante le minacce e i pericoli a cui sapeva di esporsi.
Un cristiano cattolico che aveva nella fede la sua bussola, il faro che gli indicava la retta via da seguire nella vita privata così come in quella professionale.
Parliamo di Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato il 9 maggio 2021 nella cattedrale di Agrigento perché riconosciuto martire in odium fidei (“in odio alla fede”), cioè assassinato per disprezzo verso la sua fede cristiana.
1. Studente impegnato contro la mafia
Rosario Livatino nasce il 3 ottobre 1952 a Canicattì (Agrigento), figlio di Vincenzo e Rosalia Corbo.
Il suo impegno come cattolico si manifesta già sui banchi del liceo classico con la partecipazione alle attività della sezione locale di Azione Cattolica.
Come sottolineato dalla Santa Sede, «sin dalla giovinezza frequentò la parrocchia, dove teneva conversazioni giuridiche e pastorali, dava il proprio contributo nei corsi di preparazione al matrimonio e interveniva agli incontri organizzati da associazioni cattoliche».
Nel frattempo Livatino studia con eccellenti risultati: iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Palermo, si laurea a pieni voti cum laude nel 1975, a nemmeno 23 anni. Dopo una prima esperienza lavorativa presso l’Ufficio del registro di Agrigento, nel 1978 supera brillantemente il concorso per l’accesso in magistratura diventando uditore giudiziario presso il Tribunale di Caltanissetta e dando così il via alla sua encomiabile carriera.
Nel 1979 Livatino diventa sostituto procuratore presso il Tribunale di Agrigento dove conduce importanti indagini sugli interessi della mafia e su quel sistema della corruzione che garantiva ai criminali di agire impunemente.
Come si legge nella sentenza di condanna per l’omicidio di cui fu vittima, Livatino diviene fin d’allora un bersaglio per la criminalità organizzata perché «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».
Il suo impegno come sostituto procuratore non gli impedisce comunque di proseguire a frequentare la parrocchia e nel 1988, dopo aver seguito il corso di preparazione, riceve il sacramento della Confermazione, o Cresima.
2. Incorruttibile, cioè da eliminare
Nel 1989 assume l’incarico di giudice a latere presso il Tribunale di Agrigento, dove si occupa prevalentemente di misure di prevenzione come il sequestro dei beni ai mafiosi.
La sua indipendenza come giudice attira l’attenzione nefasta dei cosiddetti stiddari, clan emergente che contendeva il predominio criminale locale a Cosa Nostra.
Prima come sostituto procuratore e dopo come giudice, Livatino dà fastidio, troppo fastidio, soprattutto con quelle misure preventive di sequestro contro il patrimonio dei boss.
Inoltre non è disposto a farsi corrompere, non accetta di seguire le leggi contrarie alla giustizia imposte dai clan. Non solo: a dare fastidio ai criminali è anche la sua incrollabile fede, la stessa che esprime nelle sue agende con la sigla ricorrente S.T.D., sub tutela Dei, sotto la tutela di Dio.
Denigrandolo, il capo provinciale di Cosa Nostra, Giuseppe Di Caro, che paradossalmente abita nello stesso stabile di Livatino, lo chiama “santocchio”, mentre, in un primo momento, i suoi futuri killer pensano di ucciderlo proprio davanti alla chiesa di Agrigento che visita quotidianamente.
A passare all’azione sono proprio gli stiddari, intenzionati non solo a dimostrare agli avversari la propria forza, ma anche desiderosi di vendicare un sequestro di armi che Livatino ha disposto contro di loro.
Nella foto sotto: il giudice Rosario Livatino in mezzo ai genitori Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo e con due amici.
Rosario sa di essere nel mirino dei criminali. Sa, come scrive Nando dalla Chiesa nel suo Il giudice ragazzino (Einaudi, 1992) che quello non è un periodo facile per coloro, come lui, che hanno deciso di combattere la mafia in prima linea e si trovano “pochi, isolati, senza mezzi, contro un nemico organizzato, ricco e potente”.
Nonostante tutto, Livatino non vuole la scorta, perché, come si legge in un suo appunto, “non voglio lasciare vedove e orfani”.
Sempre per lo stesso motivo, scrive don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, che riunisce circa 1600 associazioni attive contro le mafie, Livatino chiede e ottiene “l’affidamento di inchieste delicate, sottolineando di essere l’unico, in Procura, a non avere una famiglia per cui temere”.
È così che il 21 settembre 1990, come tutti gli altri giorni, dopo aver salutato i genitori, il giovane giudice si allontana da casa a bordo della sua Fiesta rosso amaranto per imboccare la statale 640 che da Canicattì porta ad Agrigento.
3. Le sue ultime parole, poi gli ultimi spari
Poco prima di arrivare nella città, gli viene teso l’agguato: una Fiat Uno turbo diesel con sue sicari a bordo lo sperona mentre dal finestrino, come scrive nel suo libro dalla Chiesa, partono «grappoli di colpi, subito moltiplicati da quelli sparati dal giovane appostato sul sellino posteriore della moto enduro» che segue l’auto.
La pioggia di proiettili dura 90 secondi. Dopo che la macchina del giudice si ferma contro il guardrail, lui riesce a scendere dall’auto e cerca la salvezza fuggendo verso i campi.
Purtroppo viene raggiunto dai killer ai quali, come ha raccontato in seguito uno di loro, rivolge una sola domanda: «Picciò, ma che cosa vi ho fatto?».
Rosario Livatino muore a 37 anni: è il più giovane dei 27 magistrati uccisi in ragione del loro servizio soprattutto dalla mafia o dai terroristi.
Le successive indagini giungono presto all’identificazione di due dei quattro sicari grazie alla fondamentale prova di coraggio di Piero Nava, agente di commercio che, con grande senso civico, racconta ai magistrati ciò che ha visto transitando sul luogo dell’attentato proprio mentre il giudice cercava di salvarsi scappando nei campi.
Nava diventa così il primo testimone di giustizia nella storia della lotta alla mafia nell’Italia repubblicana. Ripercorre la sua vicenda e le conseguenze della sua scelta nel volume Io sono nessuno (Rizzoli, 2020). In seguito le indagini individuano, arrestano e condannano all’ergastolo tutti gli esecutori e i mandanti.
Nella foto sotto, il ritrovamento del cadavere di Rosario Livatino nei campi dove aveva invano tentato di rifugiarsi per scampare all’agguato che la mafia gli tese il 21 settembre 1990, uccidendolo.
4. Il decreto di Papa Francesco e le parole di Papa Wojtyla
Il processo diocesano per la beatificazione prende il via ventuno anni dopo, il 20 settembre 2011, con la firma dell’arcivescovo Francesco Montenegro e con don Giuseppe Livatino come postulatore, cioè colui che è incaricato dalla diocesi di raccogliere informazioni e promuovere l’iter verso la beatificazione.
Tutto si conclude il 3 ottobre 2018, giorno del compleanno del giudice, facendo coincidere l’apertura del percorso con il giorno del sacrificio, 21 settembre, e la chiusura nel giorno del compleanno.
Dopo la valutazione da parte della Congregazione delle Cause dei Santi, il 21 dicembre 2020 Papa Francesco, con un decreto, ne riconosce il martirio in odium fidei.
Come ha sottolineato il postulare della causa, «Livatino non faceva il giudice per infliggere delle pene, ma giudicava per poter riportare in qualche modo l’ordine voluto da Dio e quindi una serena convivenza tra gli uomini [...] Il fatto di sostenere che l’atto di giustizia è anche atto d’amore conferma che non si trattava di giudicare per condannare, ma di giudicare con gli occhi di Dio, soprattutto per redimere. Non per condannare. Questa era la visione che Rosario aveva della sua professione».
Papa Wojtyla disse ai mafiosi: “Convertitevi”! La data scelta per la beatificazione di Rosario Livatino, il 9 maggio 2021, corrisponde all’anniversario del messaggio rivolto nel 1993 da Papa Giovanni Paolo II ai mafiosi durante la messa celebrata nella Valle dei Templi (Agrigento): «Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire che non si permette di uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare o calpestare questo diritto santissimo di Dio! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, io dico ai responsabili: convertitevi!».
5. Chi fu il primo a usare l’espressione “giudice ragazzino”?
- Chi fu il primo a usare l’espressione “giudice ragazzino”?
L’espressione “giudice ragazzino” si deve a un discusso commento di Francesco Cossiga, politico e ottavo presidente della Repubblica italiana dal 1985 al 1992, che otto mesi dopo la morte di Rosario Livatino dichiarò: «Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga».
Dodici anni dopo, in una lettera inviata ai genitori di Rosario Livatino tramite il Giornale di Sicilia, Francesco Cossiga smentì di essersi voluto riferire al magistrato ucciso che definì «coraggioso, integerrimo, esemplare servitore dello Stato, martire civile e santo nel senso cristiano del termine».
- Così scrisse Rosario Livatino
«L’indipendenza del giudice non è solo nella coscienza, nell’incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella capacità di sacrifizio, nella conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle amicizie, nella sua indisponibilità a iniziative e affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia a ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione e il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività».
- Don Pino Puglisi fu ucciso dalla mafia per la sua fede
Rosario Livatino è il secondo beato martire in odium fidei, ucciso dalla mafia: il primo fu don Pino Puglisi (1937-1993), beatificato il 25 maggio 2013 da Papa Francesco.
Don Puglisi venne freddato il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, davanti a casa a Palermo. Al suo assassino disse: «Me l’aspettavo».
Questa la motivazione alla base della beatificazione: «Educando i ragazzi secondo il Vangelo, li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo».