È stato un grande maestro americano, il padre nobile della Pop Art e uno degli artisti più influenti del ’900.
Il suo stile e le sue opere sono diventati icone della post-modernità, citati, parodiati, ripresi da generazioni di creativi in ogni campo (pittura, pubblicità, fotografia, design, moda).
La suggestione esercitata dalla sua arte resta ancora intensa ed è ancora immediatamente comprensibile e decifrabile. Nonostante sia morto da più di 20 anni, Roy Lichtenstein resta ancora una presenza viva.
“Il peggior artista americano”. Così fece la prestigiosa rivista Life nel 1964, mettendo in dubbio che le sue opere, lontane dai canoni classici, potessero essere considerate “vera arte”.
Ma il tempo ha dato ragione a lui che è scomparso da più di vent’anni ma è sempre famosissimo e quotatissimo. Ma chi era veramente Roy Lichtenstein? Scopriamolo insieme.
1. Un curriculum regolare
Roy Lichtenstein (RL) non si è mai presentato come un artista maledetto e inquieto.
Nasce il 27 ottobre 1923 in una tranquilla famiglia di origine ebraica e cresce nell’elegante quartiere newyorchese dell’Upper West Side, a Manhattan.
Da ragazzino coltiva due grandi passioni, la musica jazz e la pittura; è intelligente, talentuoso, capace di rigore nello studio. Non ha nulla del genio precoce e petulante.
A 17 anni, si iscrive alla School of Fine Arts della Ohio State University; il suo idolo è Picasso, il suo quadro preferito è Guernica, ammira Rembrandt e conosce bene la storia dell’arte.
I suoi studi vengono interrotti dalla guerra: dal 1943 al 1946 viene arruolato nelle forze armate, inquadrato come disegnatore e spedito in Belgio, Francia e Germania.
Al suo ritorno si laurea, e qualche anno dopo, nel 1949, consegue un master e si sposa con Isabel Wilson. Un curriculum esemplare e regolarissimo, ma sotto la frangetta da bravo ragazzo Roy sta maturando un’impronta critica e ribelle. Rivoluzionaria, per certi aspetti.
Gli anni 50 sono importanti per RL: nascono i suoi due figli e tiene le sue due prime mostre personali in Ohio e alla Carlebach Gallery di New York. Quanto al lavoro, oscilla tra l’insegnamento presso varie facoltà di arte e l’impiego come decoratore di finestre e designer industriale.
Dipinge, ma il suo stile è ancora in via di definizione: agli inizi del decennio le sue opere hanno un carattere prevalentemente geometrico, fortemente ispirato al cubismo e all’amato Picasso, mentre alla fine inclinano verso lo stile espressionista astratto.
Tutte queste sperimentazioni non portano alla creazione di grandi capolavori, ma assolvono a una funzione essenziale: danno a Roy il gusto di osare, sperimentare e sovvertire le regole artistiche di prospettiva e anatomia.
Uno dei suoi maestri, Hoyt L. Sherman, lo incoraggia a mettere apertamente in discussione i canoni dominanti del gusto. Ed è proprio questa libertà ciò di cui l’artista – probabilmente ogni artista – ha bisogno per dare piena voce alla propria creatività.
2. Consacrato negli anni 60...
Gli anni 60 iniziano bene: Roy accetta un posto di insegnante alla Rutgers University del New Jersey e torna nella Grande Mela, all’epoca un vivaio di fermenti artistici e stimoli culturali ineguagliabili.
È proprio qui che inizia a incorporare nei propri dipinti riferimenti alle immagini pubblicitarie e soprattutto ai personaggi dei fumetti: Topolino e Paperino (Walt Disney) e Bugs Bunny (Looney Tunes), in particolare.
Si narra che sia stato proprio uno dei figli a sollecitarlo in questo senso: RL stava leggendo un albo di Topolino insieme al figlio più piccolo, che pare abbia esclamato: «Scommetto papà che non sapresti disegnare bene come questo fumetto!».
È così che nel 1961 nasce Look Mickey!, un olio su tela considerato il primo esempio delle tecniche che renderanno Roy un artista famoso: ricreazione consapevole di immagini e personaggi di fumetti, uso delle nuvolette con i testi o le onomatopee tipiche dei fumetti e puntinato Ben-Day.
Sempre nel 1961, il più influente mercante d’arte della scena newyorchese, Leo Castelli, lo nota e lo inserisce in una mostra collettiva.
L’anno successivo viene selezionato per partecipare a un’altra importante collettiva organizzata dal Solomon R. Guggenheim Museum, assieme ad Andy Warhol, Jim Dine e Jasper Johns.
Nel 1966 Roy è uno dei 5 artisti americani selezionati per rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia e tiene una mostra personale di gran successo presso il Cleveland Museum of Art.
Nel 1967 lo Stedelijk Museum di Amsterdam gli dedica una retrospettiva che verrà in seguito ospitata anche da altri importanti musei del mondo come la Tate Gallery, il museo di Londra che, nel frattempo, si è precipitato ad aquistare una delle sue tele più famose, Whaam!, dipinta nel 1963.
Alla fine del decennio RL ha raggiunto un solido successo internazionale.
3. Fu anche ferocemente criticato
Dai fumetti di Walt Disney, RL passa a quelli della DC Comics e con il passare del tempo, oltre ai fumetti, incorpora nelle proprie tele (quasi sempre di grandi dimensioni) sia le immagini tratte dalla pubblicità, dal cinema e dalla televisione sia gli orizzonti visuali entro cui si muove una società dedita al consumo massificato e compulsivo.
Diventa un abile interprete e nello stesso tempo un fine critico dell’estetica consumistica e inventa una serie di tecniche interamente manuali che “imitano” alla perfezione le tecniche industriali e meccaniche di riproduzione.
Tutto nei quadri di Lichtenstein sembra stampato o fatto a macchina, ma in realtà tutto è realizzato a mano con un lavoro certosino; i “suoi” fumetti, tanto simili alle vignette stampate in milioni di copie dalla DC Comics, sono dipinti che richiedono una laboriosa preparazione.
Che senso ha tutto questo? Che cosa vuole dire questa nuova arte, battezzata “Pop Art”? Se lo chiedono in molti, all’epoca. Non mancarono le critiche, spesso aspre e feroci: molti esperti definiscono i suoi lavori “vuoti e volgari”.
La rivista Life gli riserva un articolo nel 1964 il cui titolo è: «Lichtenstein: è davvero il peggior artista americano?».
Accettare queste critiche miopi e dure è difficile per Roy, un uomo colto, riservato e assai meno sulfureo e provocatorio di Andy Warhol, che cerca, a suo modo, senza protervia, di spiegare che la Pop Art porta alla luce le tensioni e le contraddizioni della società.
I suoi quadri esprimono con una forza e un impatto straordinari il paradosso che imprigiona la “mano” dell’artista nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. La stampa e i sistemi di riproduzione meccanica su scala industriale svuotano di senso il lavoro artistico tradizionale e tolgono valore alla sua intrinseca originalità e unicità.
Nel mondo industriale, dove ogni oggetto di consumo, anche di lusso, è prodotto in serie, che spazio resta all’opera d’arte? I quadri di Lichtenstein, come quelli di altri esponenti della Pop Art, pongono con insistenza una domanda pressante: nel mondo consumistico moderno, anche l’arte, privata della sua aura, diventa una merce come tutte le altre?
«Non sono contro l’industrializzazione, ma deve lasciarmi qualcosa da fare. Non disegno un’immagine per riprodurla, ma per ricomporla», dice una volta l’artista.
In effetti, tutte le sue opere rivelano un attento lavoro di decostruzione e ricostruzione dell’immagine e dei codici che ne regolano la comprensione. Tutte le immagini, in effetti, sono elementi di un linguaggio regolato da un codice: sotto questo profilo non c’è differenza tra un’immagine artistica e quella di un hot dog.
Uno dei meriti di RL e della Pop Art in generale è stato quello di aver creato una sorta di corto circuito tra le “belle arti” tradizionali e l’arte commerciale così da far saltare ogni confine netto tra le due.
Nelle opere di RL la presenza di testi e onomatopee tratte dai comics serve proprio a cancellare i confini tradizionali e accademici tra arte alta e bassa, tra linguaggio verbale e linguaggio visuale.
Qualcuno ha detto che Lichtenstein ha portato nei musei la rivisitazione di un tabù: l’arte popolare e commerciale, godibile e comprensibile a tutti.
4. Non solo fumetti...
«In quasi mezzo secolo di carriera, sono pochi gli anni in cui ho dipinto fumetti e puntini. Possibile che nessuno si sia mai accorto che ho fatto altro?».
La carriera artistica di RL è stata in effetti un po’ cannibalizzata dalle grandi tele degli anni 60, ispirate ai personaggi e allo stile grafico dei Comics americani, ma l’artista ha sperimentato moltissimo, realizzando tantissime serie, tra cui Perfect/Imperfect (con linee nette che rappresentano immagini astratte), Brushstrokes (con pennellate di colore), Mirrors (serie incentrata sul tema dello specchio), Chinese Landscapes (in cui omaggia i tradizionali pittori cinesi con forme espressive rivoluzionarie: la linea e i contorni scompaiono per lasciare spazio alla rappresentazione astratta del paesaggio attraverso i puntini) e la riproduzione dei classici (Monet, Matisse, Van Gogh e Picasso).
Ultima in ordine cronologico è la serie dei Nudes (1995-95), caratterizzati da una minuziosa ricerca sull’uso espressivo del puntinato. Purtroppo la morte per polmonite nel 1997 ferma una sua sperimentazione sui dipinti virtuali.
Roy Lichtenstein lavorava in media 10 ore al giorno:
- Negli ultimi decenni della sua vita, RL lavorò una media di 10 ore al giorno, tutti i giorni, con una disciplina e un’energia straordinarie che gli hanno consentito di produrre quasi 5mila tra dipinti, stampe, disegni, sculture, murales, arazzi ecc.
- RL ebbe due figli dalla prima moglie: due maschi di nome David Hoyt e Mitchell. Il primogenito venne chiamato Hoyt per onorare un professore che RL ebbe all’università, Hoyt L. Sherman: un uomo che l’incoraggiò sotto il profilo artistico e lo spinse a sfidare la tradizione accademica, cancellando il rigido confine tra buono e cattivo gusto, arte nobile e arte commerciale.
- Tra le varie opere d’arte che andarono perdute nell’attentanto alle Torri Gemelle (World Trade Center, 11 settembre 2001) c’è anche un dipinto di RL tratto dalla serie The Entablature.
5. Tante tecniche complesse e diverse
- Le tele più celebri di RL sono state realizzate con una triplice tecnica. In una prima fase RL abbozzava un’immagine su carta ispirandosi a una vignetta o a una comic strip e ai codici della comunicazione pubblicitaria.
Poi la proiettava su un’ampia tela e la correggeva manualmente. In questa seconda fase dipingeva usando soprattutto i colori acrilici Magna: i suoi quadri sono riconoscibili per la stesura piatta dei colori, la bidimensionalità e i contorni spessi e decisi.
Infine procedeva alla caratteristica puntinatura.
- Il Ben-Day Dots, cioè il puntinato “Ben-Day”, costituisce la cifra stilistica di RL, quella che più di ogni altra lo contraddistingue, lo ha reso riconoscibile e in qualche modo ne ha condizionato il successo artistico.
Agli inizi della sua carriera, Roy Lichtenstein lo adotta, ma ben presto passa a realizzarlo in modo leggermente più veloce con l’ausilio di una lastra metallica perforata.
Ma di che cosa si tratta esattamente? I puntini Ben-Day (dal nome del loro inventore Benjamin Henry Day che li mise a punto nel 1879) si chiamano tecnicamente “retino tipografico”: si tratta di un procedimento di stampa che permette di ottenere sfumature cromatiche per mezzo di linee e puntini regolari che interrompono la continuità della superficie inchiostrata.
Già a metà Ottocento si usavano dei puntini neri di varie misure su un fondo bianco per rendere le sfumature di grigio: era un sistema economico, adatto a stampe commerciali di poco conto. Benjamin Day usò puntini ravvicinati in colori diversi per creare mezzi toni o nuovi colori sulla carta economica dei periodici.
- RL ha sperimentato tecniche e supporti diversi per ottenere effetti estetici e cromatici di grande impatto e decisamente “pop”.
In particolare ha utilizzato gli smalti la cui resa gli ricordava la superficie brillante e omogenea dei frigoriferi o delle insegne nelle stazioni della metropolitana newyorchese; le plastiche, come il plexiglas, il Mylar (tecnicamente polietilene tereftalato), una resina termoplastica che può presentarsi in forma amorfa (trasparente) o semi-cristallina (bianca e opaca), e soprattutto il Rowlux, un tipo di plastica lenticolare con capacità riflettenti, così chiamato dal nome dell’azienda che lo produceva come film di rivestimento dei segnali stradali.
Il Rowlux, la cui patina cangiante dà effetti moirée tridimensionali, fu usato da RL per realizzare paesaggi di cieli cangianti e mari agitati.