Originario della celtica Irlanda, San Colombano percorse il continente evangelizzando i pagani e fondando monasteri.
Fino a fermarsi a Bobbio, dove fondò un centro culturale fra i più vivaci e importanti d’Europa.
Può un semplice monaco vissuto nei secoli lontani del Medioevo diventare una figura di riferimento così potente da rappresentare l’identità profonda dei diversi popoli europei?
Parlando di san Colombano la risposta non può che essere affermativa. È stato infatti dichiarato “patrono d’Europa” andando ad aggiungersi ai santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi, e a san Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale con la celebre Regola che porta il suo nome.
Scopriamo insieme la storia di un uomo che non conosceva confini.
1. Una figura di riferimento per l'Europa
Può un semplice monaco vissuto nei secoli lontani del Medioevo diventare una figura di riferimento così potente da rappresentare l’identità profonda dei diversi popoli europei?
Parlando di san Colombano la risposta non può che essere affermativa.
È stato infatti dichiarato “patrono d’Europa” andando ad aggiungersi ai santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi, e a san Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale con la celebre Regola che porta il suo nome.
Instancabile predicatore, amante della disciplina e nemico degli eccessi, asceta e raffinato intellettuale, Colombano ha saputo coniugare al lavoro materiale e di crescita spirituale che caratterizzava la vita del monaco benedettino anche il pellegrinaggio e l’apostolato.
Viaggiando dalla natìa Irlanda alla Francia, dalla Svizzera all’Italia, predicando e fondando monasteri ha esportato la cultura irlandese, irripetibile quanto miracolosa sintesi in cui la parola cristiana ha saputo fondersi sincretisticamente con i preesistenti elementi pagani di marca celtica dando vita ad un unicum ricchissimo, denso di conseguenze per l’intera storia d’Europa.
Le vicende di Colombano ci sono note principalmente grazie a una straordinaria fonte a lui vicina nel tempo: la Vita redatta dal suo discepolo Giona.
Da essa apprendiamo che nacque intorno al 540 nella cittadina di Navan, nel Leinster (Irlanda centro-orientale). Dopo aver studiato le arti liberali, imparò anche a padroneggiare arco e spada, senza disdegnare altre occupazioni manuali utili ad aiutare la famiglia.
Giovane attivo e intraprendente, Colombano dimostrò subito di possedere anche un’indole profondamente meditativa che lo indusse a interrogarsi sui grandi quesiti dello spirito.
Decisivo fu l’incontro, all’interno di un bosco, con una pia donna che gli profetizzò la sua missione: abbandonare tutto e farsi esule di Dio, pellegrino di Cristo, e dedicarsi alla predicazione.
All’età di quindici anni lasciò dunque la casa paterna, superando anche il disperato tentativo di fermarlo da parte di sua madre: accolto nel monastero di Cluane Inis (Cleenish Island) dall’abate Sinneill, discepolo del grande Columba di Iona (Columcille), vi rimase fino al termine degli studi, apprendendo il latino e l’esegesi delle Sacre Scritture.
La svolta però avvenne presso il monastero di Bangor (in Irlanda del Nord), dove sotto la guida dell’abate Comgall seguì una ferrea regola ascetica, mortificando il corpo e i sensi e dedicandosi intensamente allo studio. Qui fu anche ordinato sacerdote.
Fattasi sempre più pressante l’esigenza di partire alla ricerca di Cristo, Colombano nel 590 vinse le resistenze dell’abate e partì insieme a dodici confratelli, di cui la tradizione tramanda i nomi: Gall, Autierne, Cominin, Eunoch, Eogain, Potentino, Colum, Deslo, Luan, Aide, Léobard e Caldwald.
La loro missione era tanto semplice quanto ambiziosa: evangelizzare le genti ancora pagane, fondare nuovi monasteri e diffondere le Scritture e la cultura.
2. In viaggio, armati del Vangelo
Salpato per l’isola di Man, e poi in Cornovaglia, visitò il monastero di Bodmin Moor fondato da san Gonion quindi, dopo ulteriori tappe intermedie, si imbarcò per il Continente.
Secondo la tradizione sbarcò sulla spiaggia di Guesclin, tra Saint-Malo e Mont-Saint-Michel, in Bretagna, dove ancora oggi una croce ricorda l’evento.
All’epoca la Gallia franca, dopo la morte di Clodoveo e la suddivisione del regno del 511, era divisa in due tronconi in costante conflitto: l’Austrasia, comprendente la parte orientale con Aquisgrana, Rouen, Noyon e Reims e governata da Childeberto II, e la Neustria, quella occidentale, con Parigi e Soissons in mano a Clotario II. Vi era poi la Borgogna, che dall’Austrasia parzialmente dipendeva.
Colombano scelse di mettersi sotto la protezione di Childeberto II il quale gli donò un castello in rovina.
Fra il 591 e il 592 sorse dunque l’eremo di Annegray (odierna La Voivre, nell’Alta Saona), dove l’abate irlandese e i suoi confratelli si stabilirono al fine di predicare vivendo solo di elemosine, contornati da una natura selvaggia e per giunta in un periodo di profonda carestia.
La fama del rigido ascetismo praticato dall’intera comunità raccolta intorno alla chiesa di San Martino di Tours attirò però ben presto l’attenzione delle popolazioni del luogo (soprattutto dei malati, che accorrevano nella speranza della guarigione) e di molti aspiranti monaci.
A otto miglia di distanza, presso l’antica Luxovium (odierna Luxeuil-les-Bains), Colombano e i suoi fondarono allora un nuovo cenobio dedicato stavolta a San Pietro, cui si aggiunse non molto dopo quello intitolato a san Pancrazio, presso Fontaine-les-Luxeuil.
La zona corrispondeva ai gusti dell’abate: appartata, impervia, difficile da raggiungere. Soprattutto, e qui si può apprezzare tutto il peso del retaggio culturale celtico relativo alla sacralità delle acque, anche se intriso dei valori cristiani, è che le nuove abbazie sorgessero nei pressi di una fonte.
Luxovium era perfetta: distrutta da Attila un secolo e mezzo prima e da allora disabitata, era stata inghiottita dal bosco, da cui emergevano ancora (ce lo dice Giona) le imponenti rovine delle fortificazioni e delle terme, imponenti pur nello sfacelo: «Là, statue di pietra, che i pagani nei tempi antichi adoravano secondo una miserabile fede e un rito profano, si innalzavano nel mezzo della vegetazione».
Poco dopo Colombano vi si trasferì, costituendovi uno scriptorium, ossia un centro di scrittura e copiatura di manoscritti (attività fondamentale per l’evangelizzazione e la preservazione della cultura) e fissando due regole (la Regula monachorum e la Regula coenobialis) con cui indicò le norme comportamentali per i monaci.
Oltre a pregare e a lavorare, secondo ciò che già prescriveva la regola benedettina diffusa sul Continente, il monaco colombaniano doveva dedicarsi alle pratiche ascetiche e alla penitenza. Centrale era il ruolo dello studio, della lettura e della scrittura.
Ma se l’Isola verde mancava di una guida politica unica, disgregata com’era in clan mobili sul territorio e sovente in conflitto fra loro, la situazione sul Continente era ben diversa: qui i vescovi erano al vertice di un sistema di poteri forte e ben strutturato.
Per queste e altre ragioni, non ultima la severità della predicazione e il rigore con cui Colombano, uomo dal carattere duro e intransigente, stigmatizzava i comportamenti non sempre irreprensibili dei potenti e del clero, il santo divenne oggetto di progressivi attacchi personali.
Il culmine fu raggiunto nel 603, quando con il benestare del re di Burgundia Teodorico II, fu convocato al sinodo di Chalon-sur-Saône per rendere conto della “libertà” con cui aveva introdotto le controverse consuetudini irlandesi nei suoi monasteri, in aperta contraddizione con le pratiche locali.
Colombano non rispose alla convocazione e dirottò la questione sul Papa, il solo che egli riteneva fosse titolato a giudicarla. Ma intanto i rapporti con la corona si erano bruscamente interrotti.
L’intraprendente e spregiudicata regina Brunilde, offesa dalle ripetute critiche moraleggianti di Colombano (e, pare, dal suo rifiuto di benedire i gli illegittimi del sovrano), riuscì nel 609 a farlo cadere in disgrazia agli occhi del re.
Inaudito fu l’ardire con cui lo stesso sovrano, violando la clausura monastica, entrò nel refettorio allontanandosene solo dopo che l’abate lo fronteggiò minaccioso profetizzando la rovina del suo regno e della sua famiglia.
3. Un sogno premonitore
Tuttavia fu confinato a Besançon, da cui riuscì miracolosamente a fuggire per tornare a Luxeuil.
Un anno dopo, nuovamente catturato, fu imbarcato per essere espulso, stavolta definitivamente, dal regno. Ma non era questa la volontà di Dio.
Il battello stava navigando lungo la Loira quando, giunto nei pressi di Tours, Colombano chiese ai carcerieri di poter visitare il sepolcro di san Martino. Gli fu negato.
Leggenda vuole che la barca si diresse da sola verso l’approdo, incagliandosi e potendo riprendere la navigazione soltanto dopo che l’abate ebbe pregato sulla tomba del santo.
Giunta a Nantes, la nave che doveva riportare lui e i compagni in Irlanda si fermò in mare aperto a causa della bonaccia per finire nuovamente incagliata. Dopo tre giorni di inutili sforzi, la ciurma si convinse a riportarli indietro. L’abate e i suoi riuscirono così a fuggire verso la Neustria dove si posero sotto la protezione di Clotario II.
Anche qui Colombano trovò terreno fertile alla sua predicazione e poté creare nuovi monasteri a Remiremont, Rebais, Jumièges (nella foto), Noirmoutier, Saint-Omer, mentre la giovane Borgundofara, figlia del maestro di palazzo del re Teodeberto II d’Austrasia e da lui stesso battezzata, fondava l’abbazia femminile di Faremoutiers.
Proprio grazie a Teodeberto II, Colombano e i suoi discepoli si recarono, nel 611, in Austrasia per essere di lì a poco inviati dallo stesso sovrano a evangelizzare le terre ancora pagane abitate dagli Alamanni. Giunti a Bregenz, sulla riva del lago di Costanza, fondarono dunque l’eremo di Sant’Aurelia e iniziarono la predicazione.
Ormai ultrasettantenne, Colombano avrebbe potuto fermarsi lì e attendere serenamente la fine dei suoi giorni assistito dai confratelli. Ma la sua dimensione, così come gli era stato predetto ormai tanti anni addietro dalla misteriosa donna incontrata nel bosco, non sarebbe mai potuta essere, nemmeno in vecchiaia, la stanzialità.
A ciò si aggiunse che nel frattempo Teodeberto II era stato sconfitto da Teodorico II. Privato dunque del suo protettore, il vecchio abate decise nuovamente di partire (correva l’anno 612) questa volta diretto in Italia, unendo a ciò la volontà di raggiungere Roma per ottenere dal papa l’approvazione della sua regola.
Come al solito chiese ai suoi di seguirlo. Ma il discepolo Gallo, gravemente ammalato, chiese di rimanere sul posto. Colombano, assai contrariato, gli ricordò che era legato ad un giuramento che gli imponeva sia di obbedire al maestro, sia di continuare la missione di pellegrino: trasgredendo non avrebbe più potuto né dir Messa né predicare.
Gallo fondò un eremo e vi si stabilì insieme a un altro monaco, Hiltibod: era il nucleo di quella che sarebbe diventata, dopo la sua morte, l’abbazia che ancora oggi porta il suo nome.
Secondo la Vita sancti Galli vetustissima non disobbedì finché una notte di qualche anno dopo non vide in sogno Colombano tramutarsi in colomba e volare fino al sole scomparendo in esso: intuendo che egli fosse morto e la sua anima ascesa in cielo, solo allora avrebbe celebrato una messa in suo suffragio.
Poco dopo, in effetti, giunse da Bobbio un monaco a portargli, insieme alla notizia della dipartita del suo maestro, anche il suo bastone da pellegrino in segno di perdono.
4. L’arrivo in Italia
Ma torniamo a Colombano intento con i suoi discepoli, ora ridotti a undici, a varcare le Alpi.
Tre erano gli itinerari più facili da compiere per quel tragitto: il passo dello Spluga, che già in epoca romana connetteva Milano alla Rezia attraversando Como, il valico del Bernina o ancora il Passo del Settimo, tra la val Sursette e la val Bregaglia.
Scelse, pare, quest’ultimo, dirigendosi poi verso la pianura alla volta di Milano, dove fu ricevuto con tutti gli onori dai sovrani longobardi Agilulfo e Teodolinda.
La coppia regnante stava allora impegnandosi - in collaborazione con papa Gregorio Magno - nella conversione dei sudditi, ancora in gran parte pagani (o forse anche ariani), al cattolicesimo romano. I sovrani offrirono a Colombano la possibilità di scegliere egli stesso il luogo in cui stabilirsi.
L’opzione cadde allora su Bobbio dopo che un uomo di nome Giocondo, «per volere di Dio» (come si legge in Giona), si era recato dal re per parlargli di questa località sul Trebbia, fertile e ricca, dove sorgeva una basilica dedicata a san Pietro ormai in stato di abbandono.
Colombano dunque, dopo aver attentamente valutato una serie di questioni di carattere rituale, vi si recò e diede inizio ai restauri.
L’atto di donazione, datato 24 luglio 613, comprende tutti i territori che si trovavano entro le quattro miglia di raggio, comprese le saline, in parte appartenenti al demanio regio e in parte possedimenti del duca Sundrarit, che ne fu quindi espropriato a vantaggio della nascente comunità monastica.
L’abbazia fu inoltre sottratta alla giurisdizione dei funzionari regi e resa praticamente indipendente. Al di là degli aspetti leggendari e romanzeschi (la tradizione riporta che la stessa regina Teodolinda abbia voluto visionare i territori dall’alto della cima del Monte Penice, che però non inserì nella donazione), l’area non fu in realtà scelta a caso.
Rappresentava infatti un’interessante cuscinetto tra i territori liguri, piemontesi e lunigianensi, di importanza strategica anche per la corona longobarda in quel tempo intenta sia a consolidare il suo potere nella penisola che a sottrarre altri territori (e la Liguria era fra questi) a Bisanzio. Oltre che ancora abitati dai perfidi pagani...
Prima di recarsi a Bobbio, Colombano inviò a Roma, per conto del re, una lettera a papa Bonifacio IV per tentare di risolvere una questione spinosa: lo scisma dei Tre Capitoli, molto diffuso nella parte di regno già convertita al cattolicesimo.
Senza entrare troppo nel dettaglio, diremo che le chiese scismatiche (in Italia settentrionale, Dalmazia e Illirico) respingevano le decisioni del Concilio di Costantinopoli del 553, prese su pressione dell’imperatore Giustiniano e inerenti, fra le altre cose, la posizione da tenersi su alcune dottrine considerate eretiche.
Non si trattava di una disputa meramente teologica, anzi: la questione era importante per le sue conseguenze politiche.
5. La ricchissima Bobbio
La lettera di Colombano poteva, addirittura, convincere il papa a convocare un sinodo e magari aderire lui stesso alle tesi tricapitoline abbandonando una volta per tutte Bisanzio.
Se non lo avesse fatto, avrebbe invece perso il contatto con le comunità ecclesiastiche del regno, in gran parte come detto scismatiche, e quindi Agilulfo e Teodolinda avrebbero avuto il via libera alla creazione di una sorta di “chiesa nazionale longobarda”.
Le cose non andarono in questa direzione, anche perché Colombano non era certo un ingenuo e meno che meno aveva intenzione di farsi manovrare.
Il rapporto tra l’abate e la corona restò comunque sempre di grande fiducia e collaborazione soprattutto per il carisma di Colombano, che portò a Bobbio indubbi benefici.
L’abbazia divenne in breve un punto di riferimento per l’intera area appenninica, fu dotata di immensi beni fondiari e si sarebbe segnalata come tappa obbligata per il pellegrini,
soprattutto irlandesi, che transitavano lungo la via Francigena per raggiungere Roma.
Nella quaresima del 615 Colombano si ritirò nell’eremo di San Michele presso Coli, lasciando a Bobbio come suo vice il discepolo Attala e tornando al monastero solo alla domenica.
Ormai vicino alla fine dei suoi giorni, avrebbe ricevuto la visita dell’abate di Eustasio, suo successore alla guida di Luxeuil, latore di una richiesta del re Clotario II che, ormai unico signore dei tre regni merovingi precedentemente esistenti, desiderava il suo ritorno in Francia.
Oramai troppo vecchio e stanco per rimettersi in viaggio, Colombano morì a Bobbio, all’età di 75 anni, il 23 novembre del 615. Fu seppellito nella cripta dell’abbazia, dove ancora oggi riposa accanto agli abati suoi successori: Attala, Bertulfo, Bobuleno e Cumiano.