Socrate era un cittadino modello. Ma Atene, da poco tornata democratica e alla ricerca di una difficile pace sociale, non gli perdonò le vecchie amicizie e… una provocazione di troppo.
“Meleto, figlio di Meleto, del demo di Pitto, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo di Alopece, presentò quest’accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e di introdurre nuove divinità. Inoltre è colpevole di corrompere i giovani. Si richiede dunque la pena di morte”.
Comincia così, con questa denuncia depositata nel 399 a.C. all’arconte di Atene, il processo a Socrate, filosofo celebrato dai posteri, ma messo sotto accusa dai suoi concittadini, per di più in un regime democratico come quello ateniese.
Gli attori di quella vicenda probabilmente non lo sapevano, ma il procedimento di cui furono protagonisti sarebbe diventato nei secoli uno dei più controversi di sempre.
1. AMATO E CRITICATO
Quando venne a conoscenza della denuncia mossa contro di lui, Socrate aveva già settant’anni.
Figlio dello scultore Sofronisco, si era avvicinato da ragazzo alla filosofia frequentando i maggiori sofisti e retori della sua epoca, tra cui Protagora di Abdera e Gorgia di Lentini.
Se avessimo camminato per le trafficate strade dell’Agorà, lo avremmo senza dubbio notato, con la sua corporatura tozza e il volto satiresco, intento a interrogare incessantemente i suoi concittadini sui temi più disparati, dalla natura dell’uomo agli ideali di giustizia e morale, senza risparmiare critiche a politici e demagoghi.
Invitando alla riflessione attraverso un continuo dialogo con i propri interlocutori, Socrate introduceva nella storia della filosofia occidentale la maieutica, un nuovo metodo per ragionare – poi ribattezzato “socratico” – e fu inoltre il primo a dare risalto al cosiddetto daimònion (“demone”), una sorta di “voce” interiore in grado di guidare le decisioni morali degli individui.
Grazie alla sua personalità brillante e sfacciata, negli anni il filosofo raccolse attorno a sé uno stuolo di giovani seguaci.
Accanto a loro, non mancavano detrattori e dileggiatori, sempre pronti a prendersi gioco delle sue stravaganze, come per esempio il celeberrimo commediografo Aristofane, che in una delle sue più esilaranti commedie (Le nuvole, andata in scena nel 423 a.C.) lo dipinse come uno sfaccendato eccentrico e privo di spirito pratico. Più che a una farsa, tuttavia, le vicende di Atene ai tempi di Socrate assomigliarono a una tragedia.
2. CLIMA INFUOCATO
Dopo aver perso la sanguinosa Guerra del Peloponneso contro Sparta, nel 404 a.C. gli ateniesi dovettero subire l’abolizione della democrazia perpetrata dal partito oligarchico, che instaurò il regime filospartano dei “trenta tiranni”, responsabile di assassinii, confische e persecuzioni politiche.
Odiati dal popolo, i Trenta ebbero vita breve e l’anno seguente furono a loro volta cacciati dalla città, che tornò a essere governata dai democratici.
Ma nonostante i tentativi di ripristinare la pace sociale, le ferite provocate da quei dolorosi eventi continuarono per molto tempo a causare risentimenti e inimicizie.
In un tale infuocato clima politico, Socrate si comportò sempre da cittadino modello. Nel pieno del conflitto trentennale contro gli spartani indossò l’armatura da oplita combattendo nelle battaglie di Potidea (432 a.C.), Delio (424 a.C.) e Anfipoli (422 a.C.), e nelle rare occasioni in cui ebbe a che fare con la politica si distinse per rettitudine.
Come membro del consiglio cittadino (la boulè), per esempio, nel 406 a.C. fu l’unico a opporsi alla condanna a morte, ritenuta ingiusta, degli ammiragli ateniesi che avevano partecipato alla battaglia delle Arginuse, accusati di non aver salvato i naufraghi.
Non bastasse, nel pieno delle repressioni del regime dei Trenta, si rifiutò di partecipare a un’ambasceria incaricata di eseguire l’arresto di un innocente.
3. CONOSCENZE PERICOLOSE
Ma se Socrate si era sempre dimostrato un moderato, perché contro di lui furono formulate accuse così gravi?
A giocare un ruolo cruciale fu il fatto che alcuni dei personaggi più controversi della città, legati a doppio filo al partito oligarchico e simpatizzanti di Sparta, fossero stati suoi allievi.
Tra questi, spiccavano il giovane aristocratico Alcibiade e soprattutto Crizia, il più esaltato dei Trenta tiranni. Conoscenze pericolose, considerate indizi di come fosse un “cattivo maestro” nemico della democrazia, che secondo alcuni avrebbero giustificato un processo politico contro di lui.
Oltre a Meleto, figlio di un poeta, di cui sappiamo poco, a denunciare Socrate furono infatti altre due persone in vista, tali Licone e Anito, entrambi politici della fazione democratica. Il primo era un oratore, il secondo, considerato da tutti come il vero promotore della denuncia, proveniva invece da una ricca famiglia di artigiani.
Stando a quanto scrive Platone (discepolo di Socrate e non proprio imparziale), Anito avrebbe addirittura minacciato velatamente il filosofo: “Direi che ti vien facile di parlar male delle persone. Per parte mia, se mi volessi dare retta, ti consiglierei prudenza”.
Lo storico Senofonte (foto sotto), anch’egli seguace di Socrate, rincara la dose, affermando che il filosofo avrebbe disprezzato Anito per il suo mestiere di conciatore, consigliando al figlio di non seguire le orme paterne. Un altro motivo per farsi odiare.
4. ACCUSE SMONTATE
Ma veniamo al fatidico processo. La procedura stabilita dalle leggi di Atene prevedeva l’ascolto delle lunghe arringhe dell’accusa e della difesa, al termine delle quali una giuria di 500 cittadini era chiamata a votare sulla colpevolezza o sull’innocenza dell’imputato.
Nel primo caso, il reo aveva facoltà di proporre una pena alternativa, sulla quale si esprimeva nuovamente (e in modo definitivo) la giuria.
Il tutto, in una sola giornata. Alla presenza di un folto e rumoroso pubblico, Meleto, Anito e Licone, dei cui discorsi non rimane traccia, ribadirono dunque i capi d’imputazione: corruzione dei giovani e introduzione di nuove divinità “demoniache” al posto dei tradizionali dèi cittadini.
Stando all’orazione con cui si difese, riportata da Platone nei suoi scritti giunti fino a noi, in entrambi i casi Socrate smontò pezzo per pezzo le accuse: “Se è vero che io continuo a corrompere i giovani [...] avrebbero dovuto oggi presentarsi qui per accusarmi e vendicarsi [...], invece, o ateniesi, troverete tutto il contrario; troverete che tutti sono pronti ad aiutare me, l’uomo che li ha corrotti, colui che ha pervertito i loro parenti, come dicono Meleto ed Anito”. Se poi i dèmoni di cui egli parlava erano davvero “figli spurii di dèi”, “chi oserebbe affermare che siano figli di dèi, ma dèi no?”.
5. MORTE SERENA
Incalzando i suoi detrattori e rivolgendosi direttamente ai concittadini, Socrate sostenne di non aver mai impartito insegnamenti per denaro, ma di avere a cuore solo la ricerca della verità.
Il suo ruolo era stato quello di risvegliare la coscienza civica degli ateniesi, anche a costo di risultare fastidioso, come un tafano che stuzzica continuamente un grande cavallo pigro.
L’autodifesa di Socrate spaccò in due la giuria, che alla fine dichiarò il filosofo colpevole con uno scarto di soli 30 voti. Qua sotto, il carcere di Atene ai tempi di Socrate.
A differenza di qualsiasi altro imputato, che avrebbe a quel punto chiesto una punizione più lieve della morte, come l’esilio, inaspettatamente Socrate alzò la posta, ribadendo la propria innocenza e proponendo di essere mantenuto a spese dello stato nel Pritaneo, il luogo in cui venivano ospitati i benefattori della città.
Una mossa spiazzante, che se da un lato confermava la sua estrema moralità, dall’altro venne interpretata come una provocazione. Il risultato fu tragico: con 360 voti contro 140, fu condannato a morte.
Il resto è storia nota: un mese dopo bevve la dose fatale di cicuta, rifiutandosi di fuggire dalla prigionia malgrado le esortazioni degli allievi e accettando il verdetto per non contraddire le leggi della città.
Una fine tragica e grandiosa, che consacrò per sempre la sua fama di uomo giusto, impegnato fino all’ultimo al servizio della collettività e pronto a morire per la propria coerenza.