Uomo complesso, contraddittorio e sfuggente, Tito era intriso delle caratteristiche proprie degli altri due membri della famiglia che ebbero, come lui, l’onore e l’onere di occupare il soglio imperiale di Roma.
Del padre Vespasiano, Tito condivise non soltanto il cognomen, ma anche una certa saggezza pratica
Come il fratello, e poi successore, Domiziano era invece preda di una certa doppiezza d’animo che solo la morte precoce evitò di manifestare in tutto il suo potenziale distruttivo.
Eppure “delizia del genere umano” è la definizione con cui è passato alla storia questo imperatore dal brevissimo principato (79-81 d.C.), durante il quale però ebbero luogo avvenimenti capitali per la storia europea.
Ma andiamo con ordine e scopriamo alcuni aspetti della vita di questo sfuggente imperatore delineato come “Amor ac deliciae generis humani”.
1. Sogno d’Oriente
La biografia che lo storico Svetonio gli dedica nelle “Vite dei dodici Cesari”, racconta che Tito, da ragazzo, frequentava la corte giulio-claudia.
Era amico talmente intimo di Britannico, figlio dell’imperatore Claudio, da aver assaggiato la stessa bevanda avvelenata che uccise ’amico, provocando invece a lui un lungo periodo di malattia.
L’eliminazione sbrigativa di un concorrente al trono, magari facendo ricorso all’arma del veleno (particolarmente subdola anche perché difficilissima da dimostrare a obiettivo raggiunto), può essere presa quasi come filo conduttore per l’intera biografia di Tito.
Come ricorda Cassio Dione, non mancarono coloro che ritennero che Tito avesse avvelenato il padre Vespasiano durante un banchetto: tra questi vi sarebbe stato anche l’imperatore Adriano.
Ancora più corposi erano però i sospetti sulla responsabilità di Domiziano, fratello di Tito: costui fece gettare il padre in una piscina di acqua gelata quando era al culmine di un attacco febbrile, come se il procedimento potesse essergli di giovamento, ma di fatto accelerandone il trapasso.
I numerosi ritratti giunti fino a noi presentano Tito come di figura piuttosto tarchiata e non troppo alto, ma Svetonio afferma che era bellissimo, anche se poi aggiunge che aveva il ventre prominente.
Era dotato di straordinaria memoria, capace di “stenografare” più velocemente dei suoi stessi segretari, e possedeva un vero talento da falsario, che tuttavia non ebbe bisogno di esercitare per raggiungere il gradino più alto del potere: suo padre dimostrò eccezionali doti di tenacia e ambizione riuscendo a emergere vittorioso dalla guerra civile che aveva prostrato l’Impero dopo il suicidio di Nerone.
Il 69, quello che viene ricordato come l’“anno dei quattro imperatori” (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano), si chiudeva con la definitiva proclamazione di Vespasiano (foto), e Tito poteva legittimamente aspettarsi la propria parte di potere, avendo contribuito al successo del padre.
Eppure le fonti lasciano trapelare tracce di un qualche dissapore tra Tito e suo padre Vespasiano, proprio nel momento del successo, forse a causa di un progetto politico autonomo in Oriente, accarezzato da Tito.
Vespasiano aveva portato con sé il figlio quando aveva ricevuto da Nerone il compito di reprimere la ribellione scoppiata in Giudea, in seguito alle provocazioni del prefetto Gessio Floro.
Tito ricambiò la sua fiducia con ottime prove di valore militare, peraltro già messo in evidenza nei precedenti servizi in Germania Superiore e in Britannia, tra il 61 e il 63.
Quando la lotta per il soglio imperiale si concluse finalmente con la vittoria di Vespasiano, questi volle affidare al primogenito la missione di concludere la Guerra giudaica, mentre lui si insediava a Roma.
Tito lo seguirà nell’estate dell’anno 71, ottenendo dal padre la conferma del titolo prestigioso di imperator designates, che in precedenza gli era stato tributato dal “suo” esercito.
Ma ad Alessandria, che era la seconda città dell’Impero per numero di abitanti e per ricchezza, tanto da essere nei fatti la capitale orientale, arrivò a porsi sul capo il diadema, inequivocabile simbolo di regalità. Il valore del gesto non sfuggì agli alessandrini.
L’erede designato rientrò però subito nei ranghi e si affrettò a raggiungere Roma, mettendosi a disposizione del padre per spegnere sul nascere qualunque sospetto contro di lui.
Come ricompensa dei suoi servigi e della fedeltà dimostrata, Tito fu cooptato al potere, diventando a tutti gli effetti il collega del genitore al governo.
Fu investito del potere proconsolare e della potestà tribunizia e nominato prefetto del pretorio, carica che gli garantiva il controllo effettivo della città di Roma.
Gli storici hanno notato l’eccezionaiità di questo conferimento, che costituisce un unicum nella storia dell’Impero romano, dato che la carica era sempre stata affidata a un cavaliere.
2. Tra padre e fratello
Paradossalmente, la decisione mise per una volta d’accordo senatori e cavalieri, i due ordini perennemente divisi da un fiero antagonismo.
Va anche letta come volontà del fondatore della nuova dinastia Flavia di tenere saldamente tra le mani l’Urbe, considerata ancora il centro irrinunciabile del potere e fonte della legittimazione.
Se Vespasiano fu l’imperatore di Roma, come lo definiscono gli storici moderni, Domiziano (foto) divenne invece più attento alle esigenze dei piccoli possidenti terrieri dell’Italia e condusse una politica amministrativa antitetica a quella del padre e che certo non piaceva ai senatori latifondisti.
Il principato di Tito può essere considerato un nodo di congiunzione tra quello paterno e quello di Domiziano, con la cui uccisione violenta venne posta fine alla dinastia che nel complesso governò l’impero dal 69 al 96.
Va inoltre ricordato che la definizione di “delizia del genere umano” riservata a Tito si deve alla storiografia in gran parte di matrice senatoriale, interessata a sottolineare soltanto i punti di contatto tra la politica di Tito e gli interessi del proprio ceto di appartenenza.
Se Tito aveva mosso i primi passi nella politica per prima cosa attraverso le nozze con la figlia di un cavaliere, di cui era rimasto presto vedovo, per il secondo matrimonio aveva invece mirato più in alto, sposando la figlia di un senatore.
Non è chiaro da quale moglie ebbe una figlia, a cui solo in seguito sarebbe stato dato il nome di Giulia, una volta instauratosi il potere di Vespasiano.
Qualche storico legge il mutamento del nome come omaggio al fondatore dell’impero e dunque un altro puntello volto a sostenere la legittimazione della nuova dinastia.
A questo secondo legame Tito però pose fine con il divorzio a cui forse, anche in questo caso, non erano estranee motivazioni politiche: uno zio della moglie era stato infatti implicato nella congiura di Pisone contro Nerone.
Tito arrivò a proporre al fratello di sposare Giulia, ma Domiziano si rifiutò perché al momento aveva una storia con un’altra donna.
Non ebbe però scrupoli ad avere con lei una relazione amorosa e la portò nella residenza imperiale quando morirono suo marito e il padre Tito.
3. La buona azione quotidiana
Svetonio ricorda un aneddoto che concorre a dipingere una sorta di “santino” di Tito.
Durante una cena, l’imperatore si sarebbe ricordato di non avere realizzato durante quel giorno alcuna buona azione e se n’era uscito con un’angosciata esclamazione: “oggi ho sprecato la mia giornata!”.
Ma la maggiore influenza esercitata dal senato durante il suo principato si coniugò con un crescente autoritarismo che poi sfocerà nel governo “tirannico” di Domiziano. E interessante il commento di Cassio Dione all’accostamento che alcuni facevano tra Augusto e Tito.
Lo storico spiega infatti che come il primo non sarebbe stato alla fine amato se non avesse regnato tanto a lungo da far dimenticare con la pace i suoi sanguinosi esordi come capo-partito durante le guerre civili, così il secondo non si sarebbe probabilmente meritato il generale apprezzamento se avesse regnato più a lungo, perché avrebbe finito per abusare del suo potere dimostrando nei fatti quelle debolezze che era riuscito a contenere.
Tito si dimostrò attento come nessun altro all’opinione comune, ben consapevole di quanto fosse suscettibile e pur a malincuore allontanò la sua amata Berenice per sopire i malumori del “romano medio”, sempre prevenuto nei confronti degli orientali.
Più che alle due mogli romane, Tito fu legato sentimentalmente a Berenice, figlia di re Agrippa I e sorella di Agrippa II di Giudea. Con tre matrimoni alle spalle e non più giovanissima, la principessa ammaliò Tito, conosciuto al termine della campagna in Galilea.
Nel 75 Tito la portò nel palazzo imperiale e per tre anni visse con lei in un’unione di fatto, sfidando il malcontento del padre e del popolo romano. Ma nel 78 dovette arrendersi alla ragion di stato e rinunciare a quella che veniva considerata una novella Cleopatra.
Poco prima di morire, pare abbia pronunciato una frase sulla quale mai si è potuto far luce: «Ho sbagliato una sola cosa». Forse intendeva esprimere la propria disperazione per non essere riuscito ad impedire l'imminente ascesa del fratello.
Ma un'ipotesi ulteriore, ventilata dalle affermazioni di Domiziano, vuole che i rimorsi di coscienza fossero dovuti alla falsificazione del testamento del padre, che forse aveva pianificato per Tito e a Domiziano una compartecipazione totale al potere imperiale.
4. Il lato oscuro
Il breve principato di Tito fu segnato da alcuni eventi catastrofici, il più distruttivo dei quali fu senza dubbio l’eruzione del Vesuvio che seppellì le ricche città di Ercolano e Pompei sotto un enorme strato di materiale vulcanico, nell’agosto del 79 d.C.
Con un’accortezza esemplare l’imperatore ricorse al sorteggio per selezionare i consolari da inviare in Campania ad affrontare la calamità (una sorta di protezione civile dell’epoca) e utilizzò i beni delle vittime morte senza lasciare eredi per la ricostruzione delle città colpite.
Dimostrò la stessa sollecitudine quando un gravissimo incendio devastò per tre giorni Roma: Tito ordinò di spogliare le sue residenze di campagna per arredare nuovamente i templi danneggiati, invitando i cittadini più ricchi a seguire il suo esempio in questa forma di mecenatismo dell’emergenza.
E c’è da scommettere che la gran parte accettò “volontariamente” il suo caldo invito. Svetonio aggiunge tra le calamità del tempo una terribile pestilenza e l’instancabile attività dei delatori, gramigna che alligna all’ombra di ogni potere autoritario.
Ebbene, lo storico riferisce che Tito ordinò che questi ultimi, una volta scoperti, venissero fustigati in mezzo al foro, dando così alla condanna il massimo della visibilità perché fosse di ammonimento.
I risultati dovettero essere comunque piuttosto modesti se è vero che lo stesso Svetonio racconta, nella biografia di Domiziano, che il successore fece distruggere i testi diffamatori ancora così diffusi durante il suo principato.
Anzi, ricorda il suo impegno a reprimere le denunce per reati fiscali, attraverso l’imposizione di gravissime pene contro i calunniatori e cita un detto di Domiziano, diventato proverbiale: “Il principe che non punisce i delatori, li incoraggia”.
Da imperatore, Tito aveva ribaltato la sua stessa politica di criminale ricorso ai delatori, favorita durante la prefettura del pretorio, quando inviava agenti prezzolati nei teatri e nel pretorio perché denunciassero tutti quelli che lui aveva in sospetto.
Prontamente, egli poi li mandava a morte, cercando di nascondere dietro una fittizia volontà generale quella che era soltanto una sua brama. Come si vede, tanti delitti hanno macchiato il “santino” dell’imperatore “delizia del genere umano”.
5. La Roma di Tito
La dinastia flavia promosse un ambizioso programma edilizio, volto a modificare il nuovo aspetto urbano impostato, e già in parte realizzato, da Nerone dopo il violento incendio che aveva devastato l’Urbe nel 64 d.C.
- Il nome di Tito è indissolubilmente legato all’arco trionfale che si eleva ancora oggi nel foro romano, alle pendici del colle Palatino. Fu eretto in memoria del fratello divinizzato (quindi dopo la sua scomparsa, avvenuta nell'81) dal successore Domiziano.
Doveva celebrarne la vittoria sulla Giudea ribelle, come mostra il celebre fregio della processione trionfale in cui sfilano gli arredi sacri depredati come bottino dal Tempio di Gerusalemme, tra cui la "menorah", ovvero il candelabro a sette bracci realizzato in oro massiccio.
Ma che fine fece questo tesoro? È probabile che, dopo la cerimonia, il tesoro venisse custodito nel Tempio della Pace, fatto erigere da Vespasiano e diventato una sorta di museo. Sottratto dai Vandali nel sacco di Roma del 455, il candelabro fu recuperato in Africa dal generale Belisario, che lo trasportò a Costantinopoli per donarlo a Giustiniano. Nella capitale dell'Impero d'Oriente se ne persero le tracce durante il periodo turbolento delle Crociate, quando i latini arrivarono a saccheggiare la città nel 1204.
C’è però chi sostiene che quella portata a Roma fosse soltanto una copia, adducendo come prova la presenza di raffigurazioni di animali fantastici sul basamento dell’oggetto sacro, incongruenti con la tradizione ebraica, che le proibisce. - A pochi passi di distanza dall’Arco di Tito si staglia la mole dell’Anfiteatro Flavio, chiamato Colosseo per la vicinanza con una gigantesca statua bronzea di Nerone, modificata dopo la sua morte per effigiare il dio Sole. Fu voluto da Vespasiano per restituire al popolo romano l'immensa area che Nerone aveva riservato al suo lago personale in piena città. L’anfiteatro venne inaugurato nell’80 proprio da Tito, con una lunga sequenza di giochi gladiatori. Ospitava fino a 50 mila spettatori ed era dotato di un sistema di copertura mobile per evitare che il sole rovinasse il godimento dello spettacolo.
- Nello stesso periodo alle pendici dell’Esquilino furono costruite le Terme, portate a compimento da Domiziano.