Tutta la verità sulla carne coltivata… (E’ buona? Fa bene?)

Da poche cellule, prelevate dall’animale vivo e fatte crescere in laboratorio, si può ricavare un hamburger di carne coltivata che somiglia per gusto e consistenza a quella vera.

Alcuni scienziati sono favorevoli perché ridurrebbe significativamente gli allevamenti intensivi che hanno un forte impatto sull’ambiente. I contrari invece ne sottolineano i limiti e i danni che causerebbe a migliaia di allevatori.

«Sfuggiremo all’assurdità di far crescere un pollo intero, solo per mangiarne il petto o l’ala, facendo crescere queste parti separatamente in un ambiente adatto».

Il pensiero risale al 1931 e lo scrisse Winston Churchill nel suo saggio Fifty Years Hence, in cui speculava sul futuro dell’umanità nel giro di cinquant’anni.

Era stato lungimirante: oggi produciamo carne in laboratorio. L’Italia (per ora) ha detto no.

1. Il primo hamburger ma l’Italia (per ora) dice no

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La carne coltivata, originata da cellule staminali prelevate dal tessuto muscolare di un animale vivo tramite una piccola biopsia e poi fatte crescere e moltiplicare in laboratorio, era stata presentata per la prima volta nel 2013 a Londra, negli studi televisivi della ITV, dal fisiologo olandese Mark Post dell’Università di Maastricht.

Era un hamburger proveniente da cellule muscolari di bovini cresciuti in una fattoria con metodi di agricoltura biologica.

Era buono e della consistenza di un normale hamburger di manzo, ma costava 250mila euro! Oggi produciamo bocconcini o hamburger di pollo da carne coltivata a 10-20 dollari, un prezzo ancora non competitivo con quello medio di questi prodotti.

Nel 2020 Singapore ha autorizzato per prima la commercializzazione dei bocconcini di pollo coltivato, seguita da Israele e USA. In Europa questi nuovi alimenti non sono ancora in vendita, ma la ricerca va avanti in attesa che qualche azienda sottoponga all’EFSA, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, un dossier da valutare.

L’Italia però ha già detto no. Lo scorso novembre, infatti, il Parlamento ha approvato il disegno di legge che vieta la produzione e l’immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati e ne ha proibito l’importazione.

Non è un no definitivo. Si attende infatti il vaglio della Commissione europea. Poiché comunque non possiamo fermare le importazioni dai Paesi della UE, è probabile che, se l’Europa desse il via libera alla commercializzazione della carne coltivata, essa potrà essere consumata pure in Italia: mangeremo quindi quella prodotta in altri Paesi.

2. Non è sintetica. Qualcosa deve cambiare

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C’è chi la chiama carne sintetica o artificiale, ma la comunità scientifica non è d’accordo, come ci spiegano diversi ricercatori biotecnologi:
«Le cellule coltivate in laboratorio per la produzione di carne provengono da un campione di tessuto prelevato dall’animale, pertanto sono naturali; inoltre, non sono modificate a livello genetico. Quanto otteniamo è, dal punto di vista molecolare, una carne analoga a quella cresciuta nel corpo dell’animale, ma cresciuta in laboratorio.
Pertanto, la definizione scientificamente corretta è: carne coltivata. Da millenni l’uomo coltiva e alleva. Oggi le conoscenze scientifiche ci hanno reso capaci di farlo anche in laboratorio partendo da poche cellule e per questo abbiamo coniato l’espressione: agricoltura cellulare.
È lo stesso processo col quale ripariamo la pelle di persone ustionate: preleviamo cellule staminali dal paziente e le facciamo duplicare in un bioreattore fino a ottenere un nuovo lembo di pelle con cui rimarginare quella perduta».

Dal punto di vista ecologico, sanitario ed etico, la produzione e il consumo di carne da allevamenti intensivi non è più sostenibile. Raggiungeremo i 10 miliardi di individui sul pianeta entro il 2050 e il consumo di carne, che in vent’anni è cresciuto di oltre il 50 per cento (dati FAO), aumenterà ancora, a scapito del consumo di suolo e acqua e delle emissioni in atmosfera.

Ci sono poi gli aspetti sanitari: si stima che oltre il 70 per cento di tutti gli antibiotici usati nel mondo sia impiegato per l’allevamento animale e l’Italia è al terzo posto tra gli utilizzatori. L’uso massiccio di questi farmaci negli allevamenti intensivi è necessario perché gli animali sono confinati in spazi ristretti, a contatto tra loro e con le proprie deiezioni.

Ma ciò aumenta il rischio di generare ceppi batterici sempre più resistenti agli antibiotici e di diffondere nell’ambiente, attraverso i letami usati come fertilizzanti, batteri resistenti a molti tipi di antibiotici: queste resistenze si possono trasmettere ai patogeni che infettano l’uomo.

Inoltre, queste pratiche favoriscono il contagio tra animali e tra animali e uomo, come nel caso di zoonosi. C’è poi la questione etica. Nei macelli perdono la vita miliardi di animali e la sensibilità, soprattutto tra le giovani generazioni, per la sofferenza animale e il consumo di carne da animali allevati, ha spinto molti a mangiare meno carni e verso un’alimentazione vegetariana.

3. I pro e i contro

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Secondo alcune ricerche, la carne coltivata potrebbe usare fino al 45 per cento in meno di energia, il 99 per cento in meno di suolo e il 90 per cento in meno di acqua.

Le emissioni in atmosfera di gas a effetto serra come metano e ammoniaca sarebbero ridotte in media dell’80 per cento.

Secondo altri studi, per fare funzionare i bioreattori in laboratorio si produrrebbe però più anidride carbonica di quella generata dagli allevamenti intensivi.

Il problema della sofferenza animale sarebbe eliminato e dal punto di vista sanitario avremmo la sicurezza di una carne coltivata in ambiente controllato e con un ridotto rischio di malattie. La carne potrebbe essere più sana, per esempio arricchita di acidi grassi “buoni” omega 3, vitamine, antiossidanti e sali minerali.

Ma oggi la carne coltivata evita davvero la sofferenza di qualsiasi animale? Non proprio, perché, allo stato attuale delle conoscenze, i nutrienti più efficaci per la crescita delle cellule in laboratorio sono quelli estratti dal siero fetale bovino, ottenuto dalla raccolta di feti bovini prelevati da animali uccisi per fini alimentari.

Defez osserva: «Il progetto di creare carne coltivata non ha senso se si farà ancora uso di siero fetale bovino perché non è sostenibile dal punto di vista etico, ambientale ed economico (i costi sono enormi). La sfida scientifica è individuare altri tipi di nutrienti per le cellule, per esempio a base vegetale, e la stanno affrontando i laboratori di ricerca impegnati nel progetto».

4. Altre soluzioni

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La coltivazione cellulare non potrà essere l’unica soluzione. Bisogna promuovere la dieta mediterranea e le diete ricche di vegetali (tra cui i legumi, che sono un’importante fonte proteica), molto più vantaggiose sia per la salute umana sia per l’ambiente.

Ma è impensabile che l’umanità, in particolare i Paesi in via di sviluppo, rinunci al consumo di carne.

Per questo, quella coltivata può essere una valida alternativa a quella non più sostenibile da allevamenti intensivi, assieme ad altre fonti proteiche, come gli insetti, e alla carne tradizionale proveniente da piccole filiere di qualità non intensive, come ve ne sono anche nel nostro Paese.

L’Italia, con il suo recente no alla carne coltivata, ha tarpato le ali alla ricerca nel settore che ci vedrebbe invece in prima linea perché abbiamo conoscenze molto avanzate sulle cellule staminali.

Inoltre ha perso l’occasione di fare interagire tra loro in modo proficuo le proprie filiere agroalimentari della produzione mediterranea e di creare così nuovi posti di lavoro che potrebbero in parte compensare quelli persi nell’allevamento intensivo.

Gli scarti di lavorazione ortofrutticoli o della filiera dell’olio d’oliva, per esempio, potrebbero essere studiati come potenziale substrato nutriente per la crescita delle cellule di carne coltivata.





5. Come si produce la carne in laboratorio

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- Raccolta di un pezzetto di muscolo mediante prelievo (biopsia) da un animale vivo.

- Estrazione delle cellule staminali dal campione raccolto e loro moltiplicazione in un bioreattore a temperatura controllata con una soluzione nutritiva di origine animale o vegetale a base di proteine e zuccheri.
Le staminali si trasformano in cellule muscolari che fondendosi formano filamenti fibrosi.

- Lavorazione delle fibre.
I filamenti vengono stirati e ruotati per farne aumentare la massa e formano degli anellini.

- Prodotto finale.
Gli anellini vengono compattati in una massa di carne: ne servono circa ventimila per produrre un hamburger del peso di 140 grammi.








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