Ucraina: 5 tappe fondamentali della sua storia

L’attuale territorio dell’Ucraina, con una superficie di 600mila chilometri quadrati (poco più del territorio della Francia), è il prodotto di mezzo millennio di storia.

Originariamente definita come terra di frontiera dai confini vaghi, l’Ucraina fu contesa dai grandi stati dell’Europa orientale: Russia, Polonia-Lituania e impero ottomano.

Alla fine del XVIII secolo lo smembramento della Polonia fece sì che la maggior parte dell’Ucraina passasse nelle mani dell’impero russo e la parte occidentale in quelle dell’impero austriaco.

Solo nel XX secolo sono stati fissati gli attuali confini del Paese, che ha raggiunto l’unità territoriale nel 1945.

Ecco 5 tappe fondamentali della sua storia!

1. I COSACCHI, TRA VASSALLAGGIO E AUTONOMIA (1654-1764)

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Un momento decisivo dello sviluppo storico dell’attuale Ucraina fu l’ascesa dell’atamanato cosacco.

Questa entità politica che raggruppava gran parte dei territori centrali e nord-occidentali dell’attuale Ucraina è stata considerata dal moderno nazionalismo ucraino come un modello del primo stato indipendente.

Nel 1648 infatti l’atamano Bohdan Chmel’nyc’kyj, leader dei cosacchi zaporoghi – insediati nella zona meridionale del Paese –, si ribellò contro la Confederazione polacco-lituana e riuscì a stabilire un principato virtualmente indipendente nelle terre che costeggiavano il fiume Dnepr.

Nel 1654 la reazione polacca portò Chmel’nyc’kyj a firmare il trattato di Perejaslav con lo zarato russo, tramite il quale quest’ultimo s’impegnava a proteggere i cosacchi e il loro stato dalle pressioni della Confederazione polacco-lituana e dagli ottomani, riconoscendone l’indipendenza.

In cambio gli atamani dovevano prestare un giuramento di fedeltà allo zar. Sotto, medaglia dell’ordine di Bohdan Chmel’Nyc’Kyj(una decorazione sovietica).

Lo zarato iniziò così un processo di espansione dei suoi confini verso ovest, nel tentativo di riconquistare le frontiere della vecchia Rus’ di Kiev e far rivivere il mito dell’unità nazionale delle antiche tribù di slavi dell’est che avevano formato quel primo stato ortodosso dell’Europa orientale.

L’arcivescovado di Kiev fu uno dei più fervidi oppositori di quel trattato perché minacciava l’indipendenza della Chiesa uniata. Il nazionalismo ucraino di fatto ha sempre considerato il trattato di Perejaslav come un semplice accordo strategico tra cosacchi e russi che aveva come unico scopo quello di far fronte alla comune minaccia polacco-lituana; in nessun caso avrebbe comportato la subordinazione dei cosacchi ucraini allo zarato.

Secondo loro si trattava quindi di un semplice patto associativo, senz’alcuna specifica clausola di annessione o di unione. Dal punto di vista dei nazionalisti russi, invece, il trattato di Perejaslav fu un autentico atto di unione tra le nazioni russa e ucraina, che puntava a ripristinare la grandezza originale della Rus’ di Kiev.

L’accordo con i cosacchi nel 1654 permise allo zarato una prima espansione verso le terre del Dnepr che incluse l’occupazione della città di Kiev nel 1667. Nel XVIII secolo l’atamanato trovò sempre più difficile mantenere la sua autonomia dal potere imperiale, finché non fu soppresso definitivamente nel 1764.

Sotto, l’opera Per sempre con Mosca. Per sempre con il popolo russo, dipinta dall’artista ucraino Mykhaylo Khmelko al culmine dello stalinismo (1951).

2. UN POPOLO SEGNATO DA DUE IMPERI (1772-1914)

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Sotto Caterina la Grande (foto sotto) l’impero russo intraprese l’espansione verso ovest.

Tra il 1772 e il 1795 fu smembrata la Confederazione polacco-lituana e il suo territorio fu suddiviso tra Prussia, impero austriaco e impero russo.

In questo modo Caterina riuscì a impossessarsi dei territori a est del Dnepr, annettendo allo stesso tempo la Crimea e occupando la costa settentrionale del mar Nero.
I successori della zarina perseguirono una politica di russificazione sempre più intensa, soprattutto durante la seconda metà del XIX secolo. Tra le misure adottate ci fu il divieto di utilizzare l’ucraino come lingua amministrativa, educativa e letteraria (tranne che per la ristampa di vecchi documenti).

Furono abolite le“scuole domenicali”, dei centri educativi per la diffusione della dottrina che costituivano la base della Chiesa uniata. Si fece anche pressione sulla popolazione affinché si convertisse al cristianesimo ortodosso.

Gruppi di ucraini furono trasferiti per popolare la Siberia, una delle parti più inospitali dell’impero e, viceversa, fu incentivata l’immigrazione russa nei territori a est del Dnepr, come il Donbas, la zona del bacino del Don situata in Ucraina.

Un segno evidente della russificazione furono le denominazioni geografiche applicate al territorio ucraino. Il centro e l’ovest del Paese erano chiamati “Piccola Russia”e il sud-est“Nuova Russia”.

Alcuni ucraini riuscirono a sfuggire al dominio degli zar: erano gli abitanti della Galizia, un territorio che era passato all’impero austriaco dopo lo smembramento della Confederazione polacco-lituana.

Questa regione, con la città di Lviv come epicentro e caratterizzata da una grande mescolanza di nazionalità – tra gli altri ucraini, polacchi, tedeschi ed ebrei –, fu usata dall’impero austriaco per destabilizzare l’impero russo tramite la promozione del nazionalismo.

Gli ucraini della Galizia si definivano specificamente come tali, per differenziarsi dai russi. La rivendicazione ucraina era anche una risposta alla diffidenza e al disprezzo di cui erano oggetto da parte dei nazionalisti polacchi, che vedevano la Galizia come parte integrante di quello stato polacco che sognavano di ristabilire.

Nella foto sotto, contadini della Galizia all’inizio del XX secolo.

3. RIVOLUZIONE E GUERRA CIVILE (1917-1921)

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Provocando il crollo dei grandi imperi dell’Europa centrale e orientale, la Prima guerra mondiale diede l’opportunità a diverse nazionalità di rafforzare e realizzare le proprie rivendicazioni. Il caso ucraino non fu un’eccezione.

Il rovesciamento dello zarismo a seguito della Rivoluzione del febbraio 1917 aprì uno scenario caratterizzato da una notevole diversità e frammentazione delle opzioni politiche e sociali, che si protrasse fino alla fine della guerra civile russa, nel 1921.

Nel marzo del 1917 un parlamento (rada) riunito a Kiev richiese l’autonomia dell’Ucraina all’interno di una Russia liberale e federale. Ma i bolscevichi che realizzarono la Rivoluzione dell’ottobre 1917 identificavano la rada ucraina come un’entità nazionalista piccolo-borghese.

Dopo la presa del potere da parte di Lenin, la rada proclamò la Repubblica Popolare Ucraina, alla quale i bolscevichi opposero una nuova Repubblica Popolare Ucraina dei soviet, proclamata a Charkiv nel dicembre 1917, prima di occupare Kiev all’inizio del 1918 (foto sotto).

Nel marzo 1918 il trattato di Brest- Litovsk costrinse i bolscevichi a ritirarsi e Kiev fu occupata dai tedeschi, che appoggiarono l’ascesa al potere di Pavlo Skoropad’skyj, discendente di un atamano cosacco che instaurò un regime profondamente conservatore e autoritario.

In seguito alla sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale (1918) – e alla precipitosa fuga di Skoropad’skyj – il territorio ucraino divenne lo scenario di una lotta su più fronti nel corso della guerra civile russa.

Oltre alle truppe nazionaliste guidate da Symon Petljura e all’Armata Rossa dei bolscevichi, sul suo territorio marciarono anche l’Armata Bianca controrivoluzionaria – nelle cui file figuravano molti zaristi –, l’Armata Nera dell’anarchico Nestor Ivanovicˇ Machno e i gruppi contadini dell’Armata Verde, così come l’esercito polacco, che cercava di guadagnare territorio in favore della neonata Repubblica di Polonia.

Nel 1920 i nazionalisti ucraini si allearono con la Polonia nel tentativo di frenare l’esercito bolscevico. Il conflitto si concluse nel marzo 1921, quando i polacchi, sacrificando i loro alleati ucraini, firmarono la pace con Lenin e ottennero in cambio i territori della Galizia.

Il resto dell’Ucraina restò definitivamente in mani bolsceviche e divenne una delle quattro repubbliche socialiste sovietiche che nel dicembre 1922 costituirono l’URSS. Nella foto sotto, prigionieri dell’Armata Rossa scortati da truppe nazionaliste.

4. LE DUE FACCE DEL COMUNISMO (1922-1939)

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Nei primi anni dell’URSS, sotto la guida di Lenin, fu portato avanti un modello di stato federale che riconosceva le culture nazionali e ne incoraggiava la tutela.

L’Ucraina fu senza dubbio uno dei territori che beneficiarono maggiormente di questa politica. In contrasto con il processo di russificazione che aveva avuto luogo sotto lo zarismo, nel XX secolo fu promossa l’ucrainizzazione.

Si permisero – e spesso s’incentivarono – l’uso pubblico e la modernizzazione della lingua ucraina, e la cultura ucraina fu diffusa tramite l’istruzione e la stampa. Il Partito comunista d’Ucraina, che era parte del Partito comunista dell’Unione, da quel momento poté accogliere al suo interno numerosi dirigenti ucraini.

Eppure, nonostante quest’apparente apertura, l’ucrainizzazione non prevedeva la possibilità di dare vita a uno stato indipendente, in quanto tutte le nazioni che componevano l’URSS erano considerate parte integrante di un’immutabile struttura superiore.

Questa politica favorevole all’identità ucraina subì una brusca frenata quando nel 1928 Iosif Stalin assunse il pieno controllo del potere. Nonostante le origini georgiane, il nuovo leader sovietico non si fece scrupoli nel rilanciare la logica russificatrice, per quanto senza raggiungere i livelli dell’epoca imperiale.

La presenza dell’ucraino come lingua pubblica ed educativa fu ridotta – anche se non completamente eliminata –, così come diminuì il numero di dirigenti ucraini all’interno del partito. Furono epurati i sostenitori o simpatizzanti dell’ucrainizzazione – come il leader boscevico Mykola Skrypnyk (foto sotto), che si suicidò nel 1933 –, e i gruppi nazionalisti vennero duramente perseguitati.

Il cambiamento più radicale promosso da Stalin avvenne nelle campagne. Rompendo con la Nuova politica economica (NEP) promossa da Lenin dopo il 1921, che aveva permesso di ristabilire la piccola proprietà agricola in URSS, Stalin ordinò la collettivizzazione totale delle campagne.

I proprietari terrieri videro le loro fattorie espropriate per sviluppare un nuovo modello economico e finanziare l’industrializzazione dello stato sovietico.

Nel 1932-1933 le requisizioni forzate provocarono in Ucraina l’Holodomor, una disastrosa carestia, ma anche il Caucaso e il Kazakistan soffrirono gravi penurie alimentari.

Stalin proibì ai contadini dei territori ucraini di spostarsi in altre zone, per rompere ogni possibile resistenza al suo modello di collettivizzazione. Si stima che cinque milioni di ucraini siano morti di stenti.

Nella foto sotto, la dirigente comunista ucraina Rozalija Zemljacˇka (con indosso gli occhiali) durante un processo politico a Mosca.





5. LA SECONDA GUERRA MONDIALE E LA CRISI DELL’UNIONE SOVIETICA (1941-1991)

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La lettura ufficiale sovietica identificò la Seconda guerra mondiale come la Grande guerra patriottica, presentandola come una grande mobilitazione dei diversi popoli che componevano l’URSS, guidati dai russi, per affrontare l’invasione della patria sovietica da parte della Germania nazista.

Nei fatti fu l’Ucraina a dover far fronte alle conseguenze più devastanti della guerra. Quando nell’estate del 1941 Hitler lanciò l’Operazione Barbarossa, le sue truppe entrarono nel territorio sovietico attraverso l’Ucraina con l’obiettivo di occupare l’URSS.

Innumerevoli villaggi e città furono rasi al suolo dalla macchina militare tedesca o, in misura minore, dalla politica della terra bruciata praticata dalle autorità sovietiche per evitare di lasciare le infrastrutture e le risorse del territorio nelle mani degli invasori.

Circa cinque milioni di ucraini morirono nel conflitto, su un totale di 27 milioni di vittime sovietiche. Inoltre i nazisti man- darono circa due milioni di ucraini a lavorare nelle industrie tedesche come manodopera gratuita. Nell’immagine sotto, Charkiv dopo la conquista tedesca del 1942.

Al momento dell’invasione tedesca i nazionalisti ucraini videro i nazisti come degli alleati nella lotta per ottenere l’indipendenza dall’URSS e porre fine al comunismo.

Dal canto loro i comunisti fucilarono molti nazionalisti ucraini detenuti nelle prigioni proprio nel timore che diventassero collaboratori degli occupanti. Ma le speranze nazionaliste riposte nella collaborazione con le truppe naziste per smantellare il regime comunista furono presto disilluse.

I tedeschi misero l’Ucraina sotto il controllo di un commissariato e allo stesso tempo ne smembrarono il territorio, che venne ripartito tra Romania, Ungheria e Slovacchia.

Ciononostante i collaborazionisti antisemiti ucraini continuarono a partecipare attivamente alla politica di persecuzione ed eliminazione degli ebrei, il cui episodio più emblematico è costituito dal massacro di Babij Jar, un fossato di Kiev dove, dopo la guerra, furono rinvenuti i resti di circa 140mila persone che erano state giustiziate in massa.

Dall’altro lato, i comunisti ucraini formarono gruppi di guerriglieri che si rivelarono fondamentali per la sconfitta tedesca. Ma allo stesso tempo nell’Ucraina occidentale si sviluppò un attivo movimento di guerriglia nazionalista anticomunista, che fu duramente perseguitato dallo stato sovietico dopo il 1945 e fino alla sua estinzione, avvenuta nei primi anni cinquanta. Nella foto sotto, lavoratori in un caseificio ucraino sotto l’occhio vigile di un ufficiale tedesco.

La vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale consolidò il modello comunista in Ucraina. L’economia visse due decenni di continua espansione. L’industria ucraina crebbe grazie alla creazione di fabbriche come l’azienda di aerei Antonov, la produzione mineraria fu incrementata e venne sviluppato il potenziale agricolo.

Stalin proseguì la persecuzione dei «nazionalisti borghesi», molti dei quali furono mandati nei campi di lavoro forzato in Siberia. Ma alla sua morte, avvenuta nel 1953, Chrušˇcëv riprese parzialmente le politiche di ucrainizzazione del periodo di Lenin.

Tuttavia questa apertura fu di breve durata, e dal 1964 in poi Leonid Bréžnev, segretario generale del Partito comunista dell’URSS, nonostante le origini ucraine, consolidò la russificazione educativa e culturale. L’era Bréžnev fu caratterizzata anche dalla progressiva stagnazione dell’e- conomia sovietica, un processo che ebbe un forte impatto sull’Ucraina.

L’industria metallurgica e il settore minerario locali entrarono in crisi e il modello di agricoltura centralizzata mostrò di essere arrivato all’esaurimento. Nel 1986 l’incidente alla centrale nucleare di Cˇernobyl’, nel nord dell’Ucraina, mise in luce la paralisi generale dello stato sovietico.

Nella foto sotto, Leonid Kravcuk, a sinistra, e Borís Él’cin, a destra, presidenti rispettivamente di Ucraina e Russia, firmano un accordo economico alcuni giorni prima del referendum sull’indipendenza Ucraina.

Questo portò all’ampliamento dell’opposizione liberale e nazionalista in Ucraina e in altre repubbliche dell’URSS, soprattutto quando nel 1985 Michail Gorbacˇëv assunse la guida dell’Unione Sovietica e promosse varie riforme e una politica di liberalizzazione dell’informazione.

L’agitazione politica, con continue manifestazioni e proteste nelle strade di città come Kiev e Leopoli, raggiunse il parlamento ucraino – che veniva chiamato di nuovo rada invece di soviet –, dove alle elezioni del 1990 furono eletti molti candidati dell’opposizione liberale e nazionalista. I comunisti, con una risicata maggioranza parlamentare, decisero di adottare le richieste nazionaliste.

Nel 1990 la rada proclamò la sovranità dell’Ucraina all’interno dell’URSS e nell’estate del 1991, dopo un fallito colpo di stato da parte dei comunisti conservatori di Mosca, adottò la dichiarazione d’indipendenza, che fu ratificata il primo dicembre dello stesso anno con un referendum dal risultato indiscutibile: un’affluenza superiore all’80 per cento e un 90 per cento di voti favorevoli.

Il referendum ucraino fu uno dei fattori che fecero precipitare la fine dell’URSS, che si dissolse ufficialmente tre settimane più tardi. Nella foto sotto, votanti a Kiev.








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