La storia dell’uomo e quella del cavallo si sono intrecciate sin da tempi antichissimi, quando nel Paleolitico il cavallo era un animale selvatico, preda naturale dell’uomo che ne aveva fatto uno dei pilastri del suo sostentamento.
Come attesta il rinvenimento di giavellotti accanto a resti equini nel sito di Schöningen, in Germania, datati intorno a 300 mila anni fa, sin da quella lontana epoca le comunità umane si erano dotate di efficaci armi da lancio che consentivano di colmare lo svantaggio con una preda così veloce e sfuggente.
L’importanza rivestita dal cavallo per il sostentamento e la cultura dell’uomo, del resto, trova conferma nelle molteplici pitture rupestri, attestate a partire dal Paleolitico superiore (dai 45 mila ai 12 mila anni fa) in cui questo animale figura come soggetto predominante.
Il significato assunto da tali raffigurazioni agli occhi delle comunità che le realizzavano è argomento dibattuto e le ipotesi avanzate vi riconoscono ora un simbolo propiziatorio per la caccia e la fertilità, ora una divinità naturale all’interno del mondo mitologico, ora la raffigurazione di uno spirito evocato da sciamani.
In Italia, pitture parietali datate al Gravettiano finale o all’Epigravettiano antico (fasi culturali del Paleolitico superiore, intorno ai 20 mila anni fa) sono state rinvenute nel sito di Grotta Paglicci, in Puglia.
Gli scavi, attualmente hanno portato in luce alcune mani e due cavalli dipinti sulle pareti dell’antro; gli equidi sono raffigurati in diverse posizioni e presentano un corpo piuttosto tozzo, una coda molto lunga e un manto scuro sul dorso e chiaro sul ventre.
Le medesime caratteristiche compaiono nelle coeve pitture parietali del resto d’Europa e rappresentano le sembianze del cavallo preistorico, che doveva ricordare assai da vicino quelle degli odierni cavalli di Przewalski (Equus ferus przewalskii, noto come “pony della Mongolia”).
Uomini e cavalli: cinque millenni di storia comune hanno finito col segnare profondamente i destini dell’uomo e del cavallo. Da preda per abili cacciatori al prestigio di un animale considerato prossimo all’intelligenza e alla sensibilità dell’uomo.
1. Una rivoluzione a quattro zampe venuta dalle steppe e dignità dei cavalli fra i Veneti e gli Etruschi
- Una rivoluzione a quattro zampe venuta dalle steppe
Individuare l’area in cui si è sviluppata la prima domesticazione del cavallo non è semplice.
Le indagini archeologiche identificano le prime testimonianze nelle steppe euroasiatiche, in particolare a Botai, in Kazakistan, dove sono stati rinvenuti molari equini del IV millennio a.C. che presentano tracce compatibili con l’impiego di un morso morbido, realizzato in strisce di cuoio.
A partire dal III millennio a.C. sembra ormai praticata la domesticazione del cavallo, impiegato per la monta, ma anche come animale da traino, essendo più veloce e funzionale dei buoi nel trasporto dei carri.
In area italica, si deve tuttavia attendere la prima età del Bronzo (inizi II millennio a.C.) perché le testimonianze equine si facciano consistenti al punto di poter ipotizzare una diffusa domesticazione dell’animale.
Probabilmente il processo avvenne a seguito di una migrazione di popolazioni balcaniche che, dirigendosi verso la Penisola, diffusero l’uso del cavallo non più come solo animale da tiro, ma anche da sella.
Questa introduzione si rivelò decisiva in contesti bellici e probabilmente fu il motivo principale della diffusione della specie.
Nel mondo italico dell’età del Bronzo il cavallo assunse ben presto un valore sacro agli occhi della comunità e divenne un simbolo di distinzione sociale, in quanto prerogativa della classe guerriera.
- Dignità dei cavalli fra i Veneti e gli Etruschi
Nel mondo antico i Veneti godettero di grande fama per essere allevatori di puledri prestanti e vincenti.
La fama dei loro cavalli come campioni indiscussi nella corsa, del resto, era già ben nota ad Alcmane (antico poeta greco originario di Sardi) e a Omero, e giustifica la scelta fatta da Leonte di Sparta che, nel 440 a.C., trionfò nelle corse della LXXXV Olimpiade proprio guidando dei cavalli veneti.
Ancora sul finire del IV sec. a.C. la qualità dei destrieri veneti era fuori discussione, tanto che Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, fece in modo di importarne alcuni esemplari per il proprio allevamento.
L’abilità dei Veneti nella disciplina equestre si deduce anche dall’alto livello tecnico e qualitativo delle bardature utilizzate.
L’importanza rivestita dall’animale nella coeva ideologia religiosa etrusca è invece testimoniata da bronzetti votivi di forma equina, attestati a partire dalla fine dell’VIII sec. a.C. Anche nel mondo etrusco il cavallo costituì un elemento di prestigio sociale, impiegato, oltre che come animale da sella, anche per trainare sontuosi carri da guerra e da parata.
Nel 2018 è stato restaurato – e per la prima volta esposto a Firenze – il calesse proveniente dalla cosiddetta Fossa della Biga di Populonia, un carro da trasporto in bronzo, ferro e legno degli inizi del V sec. a.C., destinato al trasporto di personaggi di alto rango.
Il rarissimo esemplare è stato rinvenuto insieme a due cavalli ancora aggiogati che verosimilmente furono sacrificati durante il cerimoniale funebre del proprietario, dopo averne trasportato il corpo alla tomba.
Nella foto sotto, a destra "CAVALIERE CIPRIOTA". Figurina in terracotta (600/750 a.C.) rappresentante un cavaliere con elmo appuntito in groppa al destriero. Proviene dal tempio di Aphrodite a Páphos e si inserisce in una lunga tradizione di statuette utilizzate sia come ex voto in contesti sacri sia come offerte nei corredi funerari. (Firenze, Museo Archeologico).
A sinistra, invece, un frammento dal paleolitico di lastra calcarea con figura frammentaria di cavallo, dalla Grotta Paglicci (Rignano G. - Fg), databile all’Epigravettiano antico (circa 20 mila anni fa). I cavalli raffigurati nelle pitture del Paleolitico in Europa presentano tratti morfologici che li avvicinano agli odierni cavalli di Przewalski. (Università di Siena)
2. Il cavallo protagonista nel mito e nella storia
In ambito egeo le più antiche rappresentazioni equine provengono dal mondo dei Micenei, una delle prime aree, insieme al Vicino Oriente e all’Egitto, in cui, a partire dal XVI-XV sec. a.C., furono introdotti i morsi in bronzo, sino a quel momento realizzati in più fragili materiali organici.
Il cavallo era considerato un animale nobile ed elegante nella cultura ellenica, che lo rese protagonista di numerosi miti ed episodi omerici.
Non a caso fu scelto da Poseidone come unico dono paragonabile al prezioso ulivo, regalato invece da Atena, nella celebre contesa fra le due divinità per il possesso dell’Attica. Ma non solo, ai cavalli furono attribuiti qualità e sentimenti umani: ne è esempio l’episodio in cui Balio e Xanto, i cavalli di Achille, compiangono l’imminente morte dell’amato padrone.
Nella società greca il possesso di un destriero comportava un grande prestigio, date le spese elevate di acquisto e mantenimento, tanto che già nell’Atene di VI sec. a.C. il servizio di cavalleria era riservato alle due classi censitarie più elevate, di cui la seconda era proprio quella degli hippeîs, i cavalieri.
Entro le fila di una cavalleria combatterono i due cavalli di cui oggi ci restano solo i crani ancora dotati di morso, rinvenuti a Himera.
Nell’estate del 480 a.C., presso questa colonia greca sulla costa nord della Sicilia, i Sicelioti (Greci di Sicilia) guidati da Gelone di Siracusa sconfissero i Cartaginesi in uno scontro che portò alla morte di centinaia di soldati e cavalieri.
In prossimità del luogo della battaglia sono state rinvenute fosse comuni e tombe destinate ai caduti, affiancate da sepolture equine. Il loro rinvenimento risulta straordinario: nel V sec. a.C. sono rare le attestazioni di sepolture equine nel mondo greco e magnogreco, ma la risonanza della vittoria di Himera fece sì che i soldati e i loro cavalli fossero oggetto di particolari onorificenze.
Il cavaliere di età classica utilizzava morsi severi – imboccature dolorose, ma che consentivano un maggior controllo dell’animale e la possibilità di cavalcare con una sola mano – affiancati da filetti, strumenti più leggeri e meno invasivi. Non era ancora in uso la sella, al posto della quale si utilizzavano le ephìppia, coperte legate al dorso dell’animale mediante cinghie di cuoio.
Che fosse comune dotare i cavalli di una imbrigliatura riccamente ornata è testimoniato anche dal Cavallo Medici Riccardi, un rarissimo esemplare di scultura in bronzo della seconda metà del IV sec. a.C., che porta le tracce di un complesso sistema di finimenti costituito da falere e dischetti metallici a scopo decorativo.
Nella foto sotto, tombe di cavalli. Cranio di cavallo con morso bronzeo ad anello all’estremità della mandibola, dalla necropoli occidentale di Himera. Nel 480 a.C., presso questa città, i Sicelioti conseguirono una vittoria schiacciante sui Cartaginesi. Solo pochi anni fa sono state rinvenute le fosse comuni dei caduti e, in prossimità delle sepolture dei soldati, circa trenta tombe di cavalli. (Himera, Museo Archeologico)
3. Importazioni tecnologiche dal mondo dei Celti
Passi decisivi nell’affinarsi di una tecnologia del cavalcare saranno compiuti solo sul finire del I sec. a.C., negli anni in cui la conquista della Gallia da parte di Roma consentì all’arte equestre del Mediterraneo di attingere alle importanti innovazioni tecnologiche già perfezionate nel mondo celtico e centro europeo.
Prima fra queste novità fu senz’altro l’adozione della sella rigida. La tipologia delle selle militari romane (scordiscum) ispirate alla tradizione gallica è, infatti, caratterizzata da quattro alti corni rigidi posti, due a due, nella parte anteriore e posteriore della cavalcatura.
Grazie ad essa il cavaliere godeva di una maggiore stabilità e aveva minori probabilità di essere sbalzato a terra quando colpiva di punta con la lancia. Sembra che ai Romani fossero noti i ferri di cavallo nella forma familiare anche a noi, anche se il loro uso rimase molto limitato.
In climi secchi e asciutti, infatti, gli zoccoli di cavallo non hanno alcun bisogno di essere ferrati, come succede ancora oggi in molti paesi dell’Africa mediterranea. Questa premessa spiega l’inesistenza dei ferri in Grecia e la loro diffusione, invece, in contesti climatici umidi e freddi, come quelli dell’Europa continentale.
Dunque, anche in età romana l’uso dei ferri di cavallo non risulta generalizzato, come fu invece in epoca post-antica, rimanendo una pratica legata principalmente all’ambito provinciale gallico, retico e pannonico.
Molto più frequente era l’uso degli ipposandali, protezioni metalliche legate attorno agli zoccoli mediante cinghie di cuoio e utilizzati soprattutto per i cavalli destinati al traino di veicoli, costretti ad attraversare terreni spesso sconnessi.
Roma fu debitrice ai Celti di un’ulteriore innovazione: lo sperone o calcarium, un elemento metallico posto sulla sola calzatura sinistra e utile a stimolare l’andatura del cavallo.
Queste novità offrirono al cavaliere romano un controllo pressoché completo dell’animale, garantendogli, allo stesso tempo, una mano libera per il combattimento.
Nella foto sotto, Protome bronzea di cavallo (340/330 a.C.) di provenienza ignota, parte di una scultura equestre originale greca, dal Quattrocento utilizzata come bocca di fontana nel giardino di Palazzo Medici Riccardi a Firenze e appartenente alla collezione di antichità dei Medici. (Firenze, Museo Archeologico).
4. Idoli dei giochi circensi fra le opposte tifoserie e l'arrivo delle staffe
- Idoli dei giochi circensi fra le opposte tifoserie
Nell’impero romano il cavallo rivestì un ruolo indispensabile in diversi ambiti: la guerra, la posta imperiale, il trasporto, l’agricoltura, la caccia e, certo non ultimo, lo sport.
I cavalli erano protagonisti dei Ludi circenses la cui fortuna, a Roma, risaliva all’età regia.
Nell’assetto definitivo delle gare, le quadrighe compivano sette giri di circo in senso antiorario; il conto era tenuto da due contagiri con uova e delfini posti alle estremità della spina (il muro divisorio al centro del campo di gara).
Le corse erano molto apprezzate dal popolo, che parteggiava per una delle quattro factiones: la Veneta (azzurra), la Russata (rossa), l’Albata (bianca) e la Prasina (verde), che spesso furono utilizzate anche come strumento di controllo delle masse da parte di magistrati e imperatori.
Il lato posteriore di un grandioso sarcofago oggi agli Uffizi ci restituisce, con l’immediatezza di una cronaca sportiva, l’esito di una corsa che si tiene nel Circo Massimo.
Ciascun auriga è contraddistinto dal proprio nome, ma solo colui che alza il braccio in segno di esultazione è il vincitore.
È interessante rilevare che anche il più importante fra i quattro cavalli della quadriga, quello posto “intro iugo primo”, cioè uno dei due animali aggiogati al timone, è sempre segnalato dal proprio nome, a conferma dell’importanza del suo ruolo.
Non era strano, quindi, che ogni fazione provvedesse nel modo migliore possibile alla salute e al benessere dei propri campioni: lo testimonia un altare funerario della Collezione Santarelli di Roma, che mostra il ritratto di un veterinario affiancato dai suoi strumenti chirurgici: l’iscrizione frontale attesta che A. Iuilius Myrtilius svolse la professione per una delle fazioni del Circo Massimo, la factio Veneta, di cui era il veterinario ufficiale.
- E alla fine dell’Antichità dall’Est arrivano le staffe
Nei secoli dell’Alto Medioevo fu introdotta nel mondo occidentale un’importante innovazione nella tecnologia del cavalcare: le staffe.
Questi finimenti, noti in Cina sin dagli inizi del IV sec. d.C., caratterizzati da due anelli metallici a fondo piatto, erano legati ad ambo i lati della sella mediante corregge ed erano utili a issarsi sulla groppa del cavallo e a garantire la stabilità del cavaliere durante le battaglie, quando questi impiegava le mani nell’utilizzo delle armi.
Furono gli Avari, un popolo delle steppe euro-asiatiche, a diffondere nel VI sec. d.C. l’uso delle staffe in Europa, che furono poi adottate dall’esercito bizantino già dagli inizi del secolo successivo.
In Italia, fra le più antiche attestazioni di staffe sinora note, si annoverano quelle rinvenute nella necropoli altomedievale di Contrada Santo Stefano a Castel Trosino, in provincia di Ascoli Piceno (foto in alto a sinistra).
Questo sepolcreto fu utilizzato molto probabilmente da una comunità eterogenea costituita da elementi di popolazione locale e dalle famiglie longobarde che esercitavano il potere amministrativo sul territorio.
Un ruolo centrale nella diffusione della staffa in Italia sembrerebbe infatti spettare proprio ai Longobardi, che probabilmente avevano acquisito uso e tecnologia dagli Avari.
Nella foto sotto, biga italica. Gruppo fittile con currus e auriga, rinvenuto a Ururi (Cb) all’interno di una tomba aristocratica apula risalente al IV sec. a.C. Il copricapo indossato dall’auriga permette di attribuire il manufatto a un’officina italica. (Campobasso, Soprintendenza ABAP)
5. Senofonte: il grande esperto di cavalli
Alle origini della trattatistica sul cavallo. Senofonte (430/425 - 355 a.C. circa), storico, politico e mercenario ateniese, fu anche il primo autore a esplorare con sensibilità e competenza il complesso rapporto fra uomo e cavallo.
A lui si deve un trattato dal titolo eloquente, Perí Hippikés, ovvero ‘sull’equitazione’, la cui importanza e originalità era ben chiara ai contemporanei.
Compose l’opera tra il 390 e il 368/367 a.C., quando era esule a Scillunte, in Elide (Peloponneso), in una proprietà messagli a disposizione dagli Spartani.
In questa fase della sua vita, segnata da un ozio forzato, Senofonte dovette dedicarsi con particolare impegno all’equitazione, tanto che al medesimo periodo va ricondotta un’altra opera sull’arte equestre, l’Hipparchikós, consacrata alla formazione e alle incombenze del comandante di cavalleria.
Il Perí Hippikés si suddivide in dodici capitoli, ognuno dedicato a una delle diverse fasi di vita del cavallo, e affronta i temi più disparati, dall’addestramento e la cura, sino alla preparazione dell’animale per eventi bellici o evoluzioni da parata.
Senofonte attinge alla sua annosa esperienza. Infatti, non solo era membro dell’ordine dei cavalieri, o hippeîs, una delle quattro classi di censo nelle quali era organizzata la società ateniese, ma aveva combattuto per anni come cavaliere mercenario sotto diverse bandiere.
La pratica era poi stata affinata dalla lettura dell’unico scritto esistente sul cavallo redatto prima di lui, il trattato didattico di Simone di Atene, di cui ci sono pervenuti solo esigui frammenti.
Ciò che rende unico il Perí Hippikés è, però, la sensibilità con la quale l’autore tratta del cavallo: un fedele compagno, più simile all’uomo di quanto si possa pensare.
L’autore paragona l’addestramento del puledro all’educazione di un figlio e, come avviene per le relazioni umane, il rapporto deve essere costruito passo dopo passo, basandosi su un affetto reciproco.
Senofonte esorta alla moderazione nei confronti dell’animale, suggerendo di evitare atteggiamenti duri ed estremi, come le violenze fisiche o l’utilizzo di morsi severi, questi ultimi da utilizzare solo in rare occasioni.
Per l’attenzione nei confronti dell’animale e l’importanza riservata al rapporto tra uomo e cavallo, il Perí Hippikés fu un’opera del tutto innovativa.
Ripreso da innumerevoli fonti latine, tra cui Varrone (116-27 a.C.) e Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), il trattato di Senofonte fu ampiamente sfruttato anche da Leon Battista Alberti (1404-1472) per la composizione del suo De equo animante e nel 1516 fu pubblicato nella prima edizione a stampa curata da Filippo Giunta.
Il Perí Hippikés ha quindi letteralmente “cavalcato” i secoli della storia per essere, ancora oggi, una fonte essenziale sull’equitazione e sul rapporto che ha sempre legato l’uomo a un suo grande compagno: il cavallo.
Nella foto sotto, placchetta in bronzo dorato (VII sec. d.C.) con figura di cavaliere armato di lancia e al galoppo di un destriero. Proviene da Stabio (Canton Ticino) e guarniva uno scudo da parata. Interessanti i particolari incisi, quali la cintura del cavaliere, il morso, la bardatura del cavallo e le briglie. (Firenze, Museo del Bargello).