Fin dalla notte dei tempi l’essere umano si è dovuto confrontare con eventi che incutevano timore e paura.
La paura sorprende l’uomo mettendogli di fronte la sua limitata possibilità di controllo rispetto a ciò che lo circonda.
Il timore che suscitano il mare in tormenta, l’eruzione di un vulcano, la carestia od ogni altro disastro naturale è commisurato alla certezza dell’uomo di non potere alcunché di fronte a circostanze del genere.
È per gestire questa impotenza che si sono costruite divinità talmente potenti da essere cause e artefici di tutti i fenomeni naturali, e di conseguenza del destino degli uomini. Se le divinità avevano volontà, allora, a differenza della incontrollabilità della natura, potevano essere servite e omaggiate al fine di ingraziarsi la loro benevolenza.
Attraverso preghiere e sacrifici era possibile mantenere buoni anche quei fenomeni spaventosi che, da un momento all’altro, si sarebbero potuti abbattere sull’umanità. Non è quindi un caso che Phobos, il dio greco della paura, fosse spesso rappresentato negli scudi dei guerrieri che gli offrivano sacrifici prima di scendere in battaglia.
Sembra che persino il grande condottiero Alessandro Magno, come riportato da Plutarco nelle Vite parallele, avesse compiuto sacrifici a questa divinità, alla vigilia della battaglia di Gaugamela contro Dario III.
Sosteneva il filosofo Theodor Adorno: “Quel che temiamo più di ogni cosa, ha una proterva tendenza a succedere realmente”. E’ una legge ineluttabile?
1. Paura sana e paura patologica
Potremmo dire che nasciamo avendo in dotazione un patrimonio di paure che alcuni definirebbero ancestrali, come la paura del buio, dell’ignoto, degli eventi naturali, delle catastrofi e della morte.
Queste, da un lato, fungono da monito e da regolatore dell’agire umano ricordando che per essere temerari occorre avere rispetto del pericolo; la non considerazione del rischio, infatti, è pura incoscienza.
D’altro canto, la paura può divenire amplificatore del senso di insicurezza, rendendo l’uomo vittima dei propri timori. Ed è proprio su questo crinale che si gioca la partita fra paura “sana” e paura “patologica”.
La paura sana è quella che ci è amica, che permette di prendere sul serio il pericolo e l’impresa che stiamo affrontando.
Alexander Huber, famoso arrampicatore e alpinista tedesco, racconta nel suo libro proprio il rapporto fra paura e coraggio, che sono due facce di una stessa medaglia, in cui l’una non può esistere senza l’altra.
La paura, tuttavia, può pure assumere la veste del timore estremo che impedisce alla persona anche solo il pensiero di trovarsi di fronte alla situazione temuta, obbligandola a indietreggiare, a fuggire, a evitare.
Ciò che spaventa può essere rappresentato letteralmente da qualsiasi cosa, e ognuno di noi ne ha avuto una qualche esperienza. Chi può dire di non aver mai avuto timore, per esempio, del buio, dei cani, degli insetti, di una malattia, dei ladri, del terremoto?
Questo significa che siamo tutti fobici? Ovviamente no, significa che ognuno di noi sa che la paura nasce e si mantiene in primo luogo attraverso le nostre percezioni. Ciò che conta non è di che cosa io possa aver paura, ma che cosa farò o eviterò di fare in virtù della percezione che ho di quella precisa realtà.
Un esempio può chiarire la questione. Immaginiamo una persona con la paura dei gatti, la quale per evitare di trovarseli di fronte inizi a stare a debita distanza da ogni felino. Immaginiamo che questa stessa persona inizi a rinunciare a far visita ad amici e parenti per scongiurare il pericolo di incontrare il temuto nemico.
Capiamo bene allora che la paura cessa di essere amica o parte del coraggio, per divenire limite fobico a tutti gli effetti. Perché la paura diventi fobia occorrono quindi alcuni ingredienti, il primo dei quali, come abbiamo visto, è proprio l’evitamento sistematico e progressivo di ciò che spaventa, arrivando a condizionare e limitare drasticamente la vita.
Così, possiamo trovare persone che per anni non hanno messo piede sull’erba o camminato su un prato per paura delle formiche, o persone che non mangiano mai fuori di casa perché hanno timore che piatti e posate non siano sufficientemente puliti.
Uno straordinario Jack Nicholson ne dà una rappresentazione mirabile quando, interpretando Melvin Udall nel film Qualcosa è cambiato, va a mangiare tutti i giorni in un locale portandosi dietro le proprie posate di plastica per paura dei germi.
La poliedricità delle paure e la loro democratica diffusione le hanno anche rese oggetto di curiosità e di interesse, tanto che alcune famose riviste, come The Richest, hanno stilato una sorta di classifica delle fobie più stravaganti.
Alcune fobie sono talmente particolari da poter essere ritenute un’invenzione giornalistica o televisiva, ma sono assolutamente reali e talvolta nemmeno troppo rare. Possiamo così trovare la paura dei capelli, delle parole troppo lunghe, delle cose raggruppate per 4 o addirittura dei colori.
Ma a queste se ne possono aggiungere anche di più stravaganti come la paura degli angoli o quella dei tappi.
2. Un circolo vizioso
Se la loro particolarità può far sorridere, la sofferenza di chi ne è affetto è invece drammaticamente seria.
Perciò occorre chiedersi cosa è che mantiene tale paura patologica e impedisce alla persona di vivere.
Chi soffre di una fobia sa bene che la prima risposta per proteggersi dalla paura è quella di scansare il più possibile ciò che spaventa.
Azione che sembra assolutamente ragionevole, ma che, nei suoi effetti, porta a confermare la pericolosità di ciò da cui stiamo scappando, finendo per renderlo terrificante.
Aver evitato la situazione temuta, pur producendo una sensazione di sollievo immediato, conferma sia la pericolosità della situazione sia l’idea di nostre inadeguatezza e incapacità.
Ciò significa che ogni evitamento e fuga conduce all’evitamento successivo, fino a rendere la persona incapace di esporsi a situazioni potenzialmente critiche, limitandone drammaticamente la libertà di azione e movimento.
Ed è proprio l’interruzione di questa tendenza elusiva a divenire fondamentale per sospendere il circolo vizioso della paura patologica. Attraverso l’esposizione agli stimoli, oggetti o situazioni ritenute spaventose, ossia attraverso graduali e sistematici contro-evitamenti, diventa possibile superare tale disturbo (Davey, 1997).
Ma non è solo l’evitamento l’ingrediente che rende la paura “insana”. Per gestire ciò che la spaventa, la persona può attuare una sistematica, e a volte elaborata, analisi delle circostanze.
Può, per esempio, pianificare una serie di contromosse al fine di evitare di imbattersi in ciò che crea timore e spavento. In modo meticoloso, può identificare e mettere in atto una serie di precauzioni che costituiscono una vera e propria strategia difensiva.
Immaginiamo che la persona abbia la paura di perdere il controllo di sé stessa in pubblico, per esempio arrossendo o sudando copiosamente. In virtù di questo timore può iniziare a prendere precauzioni come evitare di vestirsi troppo, o mettersi vicino a una finestra aperta, oppure evitare di dare la mano o di essere troppo visibile.
Tale modalità di gestione ossessiva fornisce, purtroppo, solo un’illusione di controllo, andando viceversa ad amplificare la sensazione di tensione e timore.
Nel caso del wedding (paura di sudare), ciò assume una valenza drammaticamente paradossale in quanto il controllo aumenta l’attivazione fisiologica e l’innalzamento di alcuni parametri, fra cui proprio il battito cardiaco e la sudorazione.
Appare chiaro che, in questi casi, esporsi a ciò che spaventa non sortisce alcun effetto se nel contempo non si riduce il controllo ossessivo, portando gradatamente la persona a sospendere le precauzioni poste in atto per proteggersi dal pericolo.
Ciò permette di uscire dalla trappola del controllo, che conduce di fatto a una perdita di controllo.
3. La falsa soluzione dell’evitamento
Come dicevamo, la paura non è di per sé patologica, anzi ha un’importante valenza adattiva.
Allo stesso modo, le strategie di coping, ovvero le soluzioni che la persona adotta per fronteggiare eventi stressanti o problematici, non sono di per sé disfunzionali, ma lo diventano in virtù dei loro effetti.
Così, se l’evitare e il prendere precauzioni possono inizialmente dare un senso di sollievo, con il passare del tempo diventano conferma della pericolosità della situazione, che induce la persona a evitare o proteggersi ancora di più.
Alcune paure hanno preso il posto di altre, probabilmente in virtù dei cambiamenti sociali e di vita. In tal modo, la paura dei serpenti è stata sostituita da quella dei piccioni, di fatto molto più comuni e diffusi: se, difatti, è rarissimo imbattersi in un serpente, è assai più probabile incontrare questa specie di pennuti nelle nostre piazze e strade.
Chi ha paura degli uccelli è come se si trovasse all’interno dell’omonimo film di Hitchcock (foto sotto), in cui occorre sopravvivere alla minaccia di attacchi improvvisi da parte di corvi, gabbiani, volatili ritenuti di per sé innocui.
L’ultimo ingrediente che rende la paura qualcosa di patologico sono i comportamenti ripetuti, vere e proprie compulsioni attuate dalla persona per proteggersi dal pericolo.
Il timore dello sporco o di essere contaminati è una paura molto diffusa che spesso obbliga la persona a lunghi ed estenuanti rituali di pulizia che a volte costituiscono l’occupazione predominante della giornata.
I lavaggi di pulizia per combattere la paura possono anche toccare punte estreme, come il lavarsi solo con sostanze aggressive a base di cloro o ammoniaca, o il lavarsi talmente di frequente da avere la pelle del corpo segnata da vere e proprie escoriazioni.
In questi casi le azioni che vengono messe in atto per gestire la paura funzionano dapprima talmente bene che la persona sente diminuire la sua ansia. Ed è proprio in virtù di questo iniziale effetto positivo che la persona finisce per non poter più fare a meno di allestire tali rituali.
Dal punto di vista logico, si assiste alla situazione in cui, a partire da un’azione apparentemente ragionevole – «Per non essere sporco, mi lavo» –, si arriva a un punto di completa irragionevolezza per il quale «Ogni lavaggio fa temere di essere contaminato, costringendo a lavarsi ancora di più».
Capiamo, quindi, come le compulsioni su base fobica si alimentino drammaticamente proprio della soluzione che la persona aveva escogitato per combattere la paura. Compiere quelle azioni diventa tanto necessario che la paura di non eseguire
i propri rituali diviene ancora più forte della paura originaria. In questi casi è fondamentale riuscire a smontare la compulsione per mezzo di azioni mirate che permettano di riprendere il controllo di ciò che ormai è completamente fuori controllo. È divenuta famosa la prescrizione che viene data, all’interno dell’approccio strategico, alle persone che compiono rituali di lavaggio.
Si dice alla persona: «Di qui alla prossima volta che ci vediamo vorrei che, ogniqualvolta lei mette in atto uno dei suoi rituali di lavaggio, e per esempio si lava le mani, se lo fa una volta lo ripetesse cinque volte, né una volta di meno né una volta di più. Potrà non farlo, ma se lo farà una volta, lo dovrà ripetere cinque volte, né una volta di più né una volta di meno».
Una prescrizione del genere mira a far riprendere il controllo della situazione al soggetto, sottraendolo all’ossessione e alla mania. In questo modo, infatti, l’individuo attuerà il suo rituale non sotto un impulso irrefrenabile, ma dietro richiesta e dietro una decisione volontaria (Nardone e Portelli, 2013).
Per smontare sia la paura originaria sia quella legata alla compulsione occorre che anche la percezione si modifichi. È necessario guidare la persona ad avere una cosiddetta “esperienza emozionale correttiva” che le permetta di sentire, e poi capire, diversamente.
Così, per esempio, si porta la persona a percepire la paura di essere completamente pulita, perché nel momento in cui lo è, o lo sono le sue cose, ogni piccola traccia di sporco rischia di metterla in crisi, costringendola a infiniti lavaggi.
Iniziando a percepire che il piccolo sporco la protegge dal grande sporco, che concedendosi un piccolo disordine ella riesce a mantenere il giusto equilibrio e il giusto ordine, si potranno inserire esperienze diverse fino al completo superamento della paura e dell’ossessione.
4. Evitare di evitare
La paura va considerata una naturale e vitale caratteristica umana che, solo se combattuta o evitata, si trasforma in fobia.
Sapendo questo, la persona può coltivare la propria abilità nell’orientare la paura in modo funzionale, per esempio interrompendo tutto ciò che la trasformerebbe da alleata in pericolosa nemica.
Si può iniziare, così, ad agire guidati dal monito che ogniqualvolta si evita per paura, la difficoltà tenderà ad aumentare in modo esponenziale. In tal modo la persona può decidere di evitare di evitare le situazioni temute, creandosi un’esperienza emozionale positiva di fiducia nelle proprie capacità.
Una certa quota di paura e di angoscia è ineliminabile, anzi è addirittura necessaria per la maturazione e la crescita, per non relegare i bambini – poi i giovani – in un falso paradiso in cui si neghino le difficoltà e gli ostacoli. Errori pedagogici di segno opposto si sono alternati sulla scena famigliare e sociale.
In passato erano molti i genitori che ritenevano necessario “temprare” il carattere dei figli, soprattutto dei figli maschi, non concedendo loro alcuna indulgenza alle debolezze o forzandoli a superare le loro paure.
Oggi, invece, capita di vedere adulti iperprotettivi che temono che i loro figli possano soffrire e che a volte sono anche più spaventati di questi ultimi. Accade così di imbattersi in proposte estreme, quale quella di eliminare gli elementi angosciosi delle favole, dal lupo di Cappuccetto Rosso alla strega di Biancaneve!
Dal punto di vista educativo diventa fondamentale aiutare i bambini e i ragazzi a fronteggiare e superare ostacoli e piccole difficoltà affinché costruiscano un sano senso di fiducia nelle proprie capacità.
I genitori, ovviamente, devono ascoltare, supportare, motivare, ma nel contempo devono essere in grado di lasciare che i figli facciano esperienza della difficoltà. Proteggerli da ciò che li spaventa non li rende più forti, ma conferma loro che il mondo è pieno di insidie.
Se prendiamo come esempio la paura del buio dei bambini piccoli, vediamo come un genitore, al fine di far superare quella paura in modo sano e renderla alleata, dovrebbe rassicurarlo, ma non proteggerlo troppo.
In quest’ottica, si potrà condurre il bambino a esplorare l’oscurità per verificare che lì non si nasconde alcun mostro (contro-evitamento) e lo si potrà guidare ad affrontare rischi graduali che lo rassicurino, passando, per esempio, dalla luce alla penombra, fino all’oscurità.
Se non la si può evitare, la paura va accettata, e con essa i nostri limiti. Soltanto nel momento in cui accetto e mi concedo le mie debolezze, queste smettono di essere fragilità, per diventare punti di forza che mi spingono in avanti.
5. Fobie di star
Anche tanti personaggi famosi sono colpiti da tale paura: risulta che Naomi Campbell (foto sotto), per il timore dei germi, indossi in aereo sempre un paio di guanti in lattice e disinfetti immediatamente il posto dove dovrà viaggiare.
Charlize Theron e Cameron Diaz hanno il terrore dello sporco, motivo per cui la pulizia diviene per loro una vera e propria mania.
Le fobie e le manie hanno una diffusione molto democratica, rappresentando anche l’eccentricità di alcune star e la peculiarità degli sportivi; gli atleti e gli artisti, anzi, sono fra le persone maggiormente colpite da strane manie e rituali.
Woody Allen, pare, di fobie e manie ne ha davvero molte, fra cui la paura di cani, insetti, spazi stretti, cervi, folla, colori vivaci. Persino i più grandi performer provano ansia da prestazione prima di salire sul palco o scendere in campo, escogitando fantasiosi rituali per tenere a a bada l’ansia.
Se il cantante Alice Cooper mangia le caramelle Skittles e guarda film di kung-fu prima di salire sul palco, Leonard Cohen era obbligato a recitare la frase «Pauper sum ego, nihil habeo» («Sono povero, non ho niente») prima di ogni esibizione.
Gli esempi possono essere molteplici, da quello di dover compiere sempre lo stesso gesto a quello di mangiare sempre la stessa cosa prima di una prestazione, all’indossare un certo colore o un certo indumento, e così via.
Tali azioni possono costituire, se limitate e circoscritte, una sorta di rito che agevola e permette una migliore concentrazione e prestazione; al contrario, se diventano vere e proprie manie, finiscono per invalidare e compromettere la prestazione.