Ogni 15 minuti in Italia una donna subisce violenza. 88 al giorno, secondo i dati raccolti dalla Polizia di Stato.
Un crimine che colpisce senza distinzione sociale né culturale. L’80,2 per cento delle vittime è di nazionalità italiana così come lo è il 74 per cento dei colpevoli.
Un crimine che si consuma per la maggior parte dei casi tra le mura domestiche: l’82 per cento degli aggressori possiede le chiavi di casa della vittima e nel 2018, su 142 donne uccise, 119 sono morte in famiglia.
Negli ultimi cinque anni, 538mila donne hanno subito sevizie da parte di ex partner anche non conviventi. Dal 2004 al 2014 sono raddoppiate le denunce di maltrattamenti, passate dal 5 al 10 per cento.
Sono aumentate le denunce di violenza sessuale (+5,4 per cento), di stalking (+4,4), di maltrattamenti in famiglia (+11,7), ma non si riesce ad arrestare la valanga di femminicidi.
Se confrontati all’insieme degli omicidi commessi nel nostro Paese (in forte calo negli ultimi decenni, dai 755 del 2000 ai 352 del 2018 secondo i dati Eures), il numero delle uccisioni di donne “in quanto donne” rimane costantemente elevato negli anni, un incubo che si ripete senza sosta.
Eppure l’ordinamento italiano non fa alcun riferimento a questo tipo crimine: né il Codice Penale né alcuna legge speciale contiene una definizione precisa del termine femminicidio.
«Sarebbe invece importante che a livello giuridico si introducesse questo specifico reato», spiega Fabio Roia, giudice e presidente della Sezione misure prevenzione del Tribunale di Milano, che da 30 anni si occupa di violenza di genere, cioè di maltrattamento, stalking, violenza sessuale e maltrattamenti intrafamiliari.
«In Spagna e in altri Paesi ci sono riusciti, ma in Italia per ora non è probabile che ciò avvenga perché per la nostra Costituzione (come indicato dall’articolo 3) tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge indipendentemente dal sesso».
Da una parte si valorizza quindi la parità di genere, ma dall’altra non si dà il giusto peso a un delitto a danno delle cittadine proprio per il genere.
«Riconoscere il reato di femminicidio sarebbe auspicabile perché, a differenza di un omicidio, la parola femminicidio ha un valore semantico che enfatizza il reato commesso contro la donna in quanto parte debole», aggiunge il giudice Roia.
In controtendenza rispetto agli omicidi, in calo nel nostro Paese, sale vertiginosamente il numero dei femminicidi.
Ma non è la sola forma di violenza ai danni delle donne, a tutt’oggi vittime di stupri, matrimoni forzati, atti persecutori e abusi psicologici, le cui radici trovano terreno fertile in una diffusa mentalità maschilista.
1. Colpa della mentalità
La violenza contro le donne è un fenomeno diffuso, che fonda le sue origini nella disparità di genere data sia da una mentalità profondamente maschilista sia dai conseguenti pregiudizi atavici che ristagnano nella società.
Media, pubblicità, cultura, politica, lavoro, sport: ovunque la femmina è posta a un livello di inferiorità rispetto al maschio.
Se l’uomo è forte e potente, la donna è remissiva e bisognosa di protezione; se l’uomo fa e produce, la donna riceve e si prodiga per gli altri. Una mentalità culturale che nasce e si consolida in famiglia già in tenerissima età, frutto di un sistema educativo che definisce fin da subito i ruoli da maschi e i ruoli da femmina.
È in questo contesto che poi si formano la futura vittima e il futuro carnefice. Non si tratta solo di un problema italiano o medio-orientale.
La mentalità patriarcale è così comune e radicata in tutto il mondo che porta la violenza di genere a essere considerata come un problema sociale di dimensioni universali, al punto da essere stata definita addirittura come “genocidio di genere”, frutto di un sistema educativo che definisce fin da subito i ruoli da maschi e i ruoli da femmina.
È in questo contesto che poi si formano la futura vittima e il futuro carnefice. Non si tratta solo di un problema italiano o medio-orientale. La mentalità patriarcale è così comune e radicata in tutto il mondo che porta la violenza di genere a essere considerata come un problema sociale di dimensioni universali, al punto da essere stata definita addirittura come “genocidio di genere”.
La Convenzione di Istanbul del 2011, nata in seno al Consiglio d’Europa per contrastare proprio la violenza sulle donne e la violenza domestica, definisce questo crimine come una “violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione sociale”.
È stata recepita in Italia nel 2013 e di fatto è il primo strumento internazionale giuridico che protegge le donne contro qualsiasi forma di violenza.
I reati previsti sono: la violenza psicologica (art. 33); gli atti persecutori e lo stalking (art. 34); la violenza fisica (art. 35); la violenza sessuale incluso lo stupro (art. 36); il matrimonio forzato (art. 37); le mutilazioni genitali femminili (art. 38); l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata (art. 39); le molestie sessuali (art. 40).
La Convenzione di Istanbul prevede anche un articolo che mira a colpire i crimini commessi in nome del cosiddetto “onore”.
2. Il profilo dell’aggressore e l'importanza della denuncia
Gli assassini di mogli, compagne, fidanzate sono infatti del tutto consapevoli della loro azione.
Chi commette questo tipo di reato lo fa con assoluta lucidità e premeditazione. Non si tratta né di raptus né di gelosia né di pazzia; su 300 casi di femminicidio, solo nell’8 per cento dei casi si trova una malattia mentale.
Si tratta di soggetti che nella maggioranza dei casi non hanno precedenti penali, non hanno una storia psichiatrica alle spalle né una particolare altra storia, ma che in genere commettono maltrattamenti in famiglia spesso non denunciati e che poi, quando il rapporto si deteriora e non ne hanno più il controllo, arrivano all’omicidio.
Alla base dei femminicidi c’è infatti un’idea malata di possesso. La violenza (sessuale, psicologica, economica e fisica) è usata come mezzo di potere, allo scopo di sottomettere, di dominare e piegare alla propria volontà la compagna.
Gli autori di femminicidio hanno una personalità di tipo narcisistico. Hanno perciò una scarsa autostima e mostrano un desiderio continuo di potere e di controllo assoluto sull’altro. Sono persone cresciute con il convincimento che la donna sia inferiore e che debba ubbidire all’uomo, soprattutto nelle relazioni di tipo affettivo.
Chi cresce con queste convinzioni e poi commette violenza di genere lo fa agendo con normalità, pensando di avere pieno diritto per farlo. Questa convinzione è così radicata che continua a permanere anche dopo l’evidenza del reato stesso.
«Gli uomini che sono giudicati e condannati per forme di violenza contro le donne non hanno la piena consapevolezza di commettere dei crimini», aggiunge il giudice Fabio Roia, «al pari ad esempio dei rapinatori di banca o degli spacciatori. Questo avviene perché nella nostra società c’è ancora qualcosa o qualcuno che tende a giustificarli».
La denuncia è la sola arma per arrestare la violenza. La donna è la sola che può fermare la spirale di violenza che l’ha travolta. Se vuole salvarsi deve denunciare il suo aggressore alla Polizia di Stato.
Questo, tuttavia, non è facile per lei, sia perché a sua volta è vittima degli stereotipi sociali (che la rendono dipendente dal legame affettivo e la portano a giustificare l’uomo che la perseguita), sia perché si ritrova paralizzata dal vortice di violenza in cui è finita, risucchiata in quello che gli esperti riconoscono come un ciclo continuo di tensione, umiliazione, maltrattamenti e poi riappacificazione.
Il maltrattante miscela sapientemente e in modo strategico la violenza fisica e quella psicologica, a volte anche sessuale, alternandole a periodi di apparente riparazione.
In questa fase, il carnefice riporta la relazione in una sorta di luna di miele deliberatamente utilizzata per convincere la vittima del proprio pentimento e di essere tornato il principe azzurro dell’inizio della relazione: un principe che non è mai esistito.
Ci vogliono coraggio e forza per sottrarsi a tale meccanismo. Perciò le forze dell’ordine, le autorità, i medici nei centri di pronto soccorso e gli operatori sociali si stanno attivando per aiutare le donne a uscire da questa trappola.
3. Dobbiamo intervenire tutti
Grazie alla Convenzione di Istanbul, recepita in Italia nel 2013 con la Legge 119, negli ultimi anni nel nostro Paese si è attivata una rete di prevenzione della violenza di genere.
Non basta e soprattutto non esclude nessuno: tutti devono fare la propria parte.
«Si tratta di un problema culturale e strutturale che non si può pensare di risolvere solo nelle aule di tribunale, ma di cui deve farsi carico tutta la società, a cominciare dalla comunicazione, che è ancora sessista e stereotipata», dice il giudice Roia.
Capita ancora troppo spesso che nelle aule giudiziarie e sui giornali la donna da vittima finisca per trasformarsi paradossalmente in colpevole, in colei che ha istigato violenza e ha portato il suo aggressore a perdere il controllo.
Sullo stereotipo che “lui l’amasse e che lei fosse una poco di buono”, tanto nei bar di paese quanto sui rotocalchi o davanti ai giudici è facile giudicare la vita della donna e lo è ancora di più giustificare il gesto del suo assassino.
Serve un cambio radicale di rotta, a tutti i livelli: nelle istituzioni come nel mondo del lavoro, nelle scuole come nelle famiglie (dove i genitori sono il primo modello per le nuove generazioni).
Servono fondi per le case rifugio di prima accoglienza, ancora in numero insufficiente, e finanziamenti per la formazione degli operatori. «Oggi solamente il 13 per cento dei magistrati giudicanti è formato per questa materia», afferma Roia.
«Questo è un ambito che richiede anzitutto un approccio non giudicante ma empatico, in modo da capire e far capire che la testimonianza è una prova di verità e non soltanto di coraggio».
Serve una politica più attiva e servono leggi più efficaci. Il recente Codice Rosso, entrato in vigore ad agosto del 2019, è senza dubbio un primo passo importante.
Come ci spiega il giudice Fabio Roia, «il Codice Rosso è una buona legge perché obbliga la magistratura a prendere in esame e a predisporre misure adeguate entro 72 ore dalla denuncia. In più introduce normative sul trattamento degli uomini violenti che prima non c’erano, come ad esempio la possibilità di fermo giudiziario, che è una misura restrittiva della libertà personale del soggetto denunciato».
Più di tutto, però, è l’azione del singolo che può fare la differenza: è la segnalazione di chi sa, di chi ha visto o sentito; è il vicino di casa che prende il telefono e chiama la Polizia e salva la vita di una persona.
4. Le 4 fasi del “Ciclo della violenza”
Descritto per la prima volta nel 1979 dalla psicologa americana Leonor Walker, il “ciclo della violenza” definisce le fasi attraverso cui si sviluppa e si ripete la violenza domestica.
Come spiega Alessandra Kustermann, primario della Clinica Mangiagalli di Milano e responsabile del Centro antiviolenza, tra i primi in Italia, «la vittima subisce anche per anni queste sevizie perché ogni episodio di maltrattamento la porta a sviluppare una maggiore fragilità. Ciò fa diminuire la sua capacità di reazione e ne consegue un aumento del livello di tolleranza alla violenza».
1. Crescita della tensione
L’uomo inizia ad alzare la voce: in questa fase la comunicazione cessa, la vittima si spaventa e cerca il modo di placare il compagno da cui si sente minacciata.
2. Violenza espressa
L’uomo aggredisce la donna con minacce, intimidazioni e botte.
3. Costrizione amorosa
L’aggressore chiede scusa e cerca di farsi perdonare. Intanto attribuisce le colpe dell’accaduto alla donna facendola sentire in colpa: («Se tu non avessi fatto così, io non avrei perso la calma»). Poi nega o minimizza l’abuso.
4. Calma
È la fase della cosiddetta “luna di miele”, in cui non si verificano abusi e ci si dimentica di quelli che sono già avvenuti.
5. Che cosa prevede il Codice Rosso e i 4 casi italiani di femminicidio nel 2019
- Che cosa prevede il Codice Rosso
In vigore dal 9 agosto 2019, il Codice Rosso è la denominazione della recente Legge n. 69 del 19 luglio 2019 che introduce, tramite ventuno articoli, nuove disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.
Oltre a inasprire le pene, il Codice Rosso accelera i tempi di intervento, obbligando il pubblico ministero ad ascoltare la vittima entro tre giorni dalla denuncia.
Inoltre consente l’applicazione di misure cautelari (come per esempio il braccialetto elettronico), volte a tenere sotto controllo l’aggressore e a evitare che si avvicini ai luoghi frequentati dalla vittima.
Il Codice Rosso introduce anche quattro nuovi crimini:
1. il reato di diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti (Revenge porn): questo reato prevede una pena da uno a sei anni con una multa fino a 15mila euro;
2. il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso: prevede la reclusione da otto a quattordici anni o l’ergastolo in caso di decesso;
3. il reato di costrizione o induzione al matrimonio: prevede la reclusione da uno a cinque anni, aggravata in caso il reato riguardi un minore;
4. la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa: prevede la detenzione da sei mesi a tre anni.
- Fino al 1981 in Italia la legge aveva due pesi e due misure per uomini e donne
Il delitto per causa d’onore, ovvero il delitto per cui l’uomo uccideva la donna per gelosia, è stato abolito in tempi recenti: fino al 1981 era infatti considerato un delitto minore, punito con 3-7 anni di reclusione, pene oggi comminate per
un modesto spaccio di sostanze stupefacenti. Fino al 1956 la legislazione italiana riconosceva addirittura lo jus corrigendi, che permetteva al marito il potere di “correggere” la donna percuotendola o schiaffeggiandola.
Nel 1969 è stato abolito l’articolo 559 del codice penale sull’adulterio commesso dalla moglie, reato che invece era riconosciuto al marito soltanto se avesse tenuto una concubina nella casa coniugale o in una seconda casa.
Fino al 1975 esisteva una legge che regolava i rapporti familiari: il marito poteva decidere dove stabilire la dimora e la moglie aveva l’obbligo di seguirlo.
- 4 CASI ITALIANI DI FEMMINICIDIO NEL 2019
• MARIA SESTINA ARCURI è morta a Viterbo tra il 3 e il 4 febbraio 2019 cadendo dalle scale. Imputato per omicidio volontario è il suo fidanzato.
• ANA DI PIAZZA è morta a Partinico (PA) il 23 novembre 2019. E' stata uccisa a coltellate e bastonate dall’amante 58enne Antonino Borgia da cui attendeva un figlio.
• ELISA POMARELLI è morta il 25 agosto 2019 nel Piacentino. L’ha strangolata l’amico Massimo Sebastiani, che voleva da lei più di un’amicizia.
• ANNAMARIA SORRENTINO è morta il 19 agosto 2019 in Calabria, cadendo da un balcone. E' sospettato il marito Paolo Foresta.