Può bastare la visita in una caverna per avviare un’epidemia.
Non è la trama di un film di fantascienza, ma quello che è successo in Ruanda, dove una delle febbri emorragiche più temute – il virus Marburg (foto sotto) – ha già provocato oltre 60 casi e 15 morti: il “paziente zero” è infatti un uomo che è sceso in una grotta dove vive una specie di pipistrelli portatori del virus, che ha potuto così contagiare l’ospite umano di passaggio.
Ma quanti sono i germi in agguato che potrebbero provocare epidemie, approfittando di varchi minimi come questo per diffondersi? E soprattutto, abbiamo imparato qualcosa da Covid-19? Saremmo capaci di evitare una nuova pandemia?
1. DALL’ANIMALE A NOI
I pericoli sono tanti, ovunque e non da oggi. Da qualche decennio la spinta alle epidemie è cresciuta e, in un recente rapporto, il Global Preparedness Monitoring Board – iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e della Banca Mondiale – ha sottolineato che solo nel 2024 si sono già verificate 17 epidemie di malattie pericolose.
La storia dell’umanità è costellata di epidemie, basti pensare alla peste nera del ’300 (le stime parlano di 25-30 milioni di morti in Europa) o alla pandemia influenzale del 1918.
Negli ultimi anni però sono aumentati gli elementi che facilitano la diffusione dei germi: la popolazione umana è cresciuta esponenzialmente e la maggioranza vive in megalopoli da milioni di abitanti che convivono in spazi ristretti, i viaggi sono più veloci e in poche ore un virus può fare il giro del mondo su un aereo, magari trasportato da una zanzara.
A questo si aggiungono le tante guerre in corso, che favoriscono la comparsa di focolai epidemici, per il peggioramento delle condizioni igieniche delle popolazioni unito al crollo delle vaccinazioni e alla reticenza delle autorità nel riferire eventuali allarmi sanitari.
Non a caso, l’influenza spagnola del 1918 si chiama così perché la Spagna, neutrale nel primo conflitto mondiale, fu la prima a parlare di quella malattia che decimava la popolazione.
Con le attività umane, poi, abbiamo stravolto molti ambienti naturali: i focolai di virus Ebola in Africa, per esempio, sono spesso successivi a massicce deforestazioni.
Senza contare gli allevamenti intensivi, in cui la vicinanza fra l’uomo e animali ammassati in condizioni igieniche spesso precarie favorisce il “salto di specie” dei virus».
Il fenomeno più temuto è proprio questo passaggio da un ospite animale a noi: il cosiddetto spillover si verifica quando un virus dei pipistrelli, degli uccelli o di qualsiasi altra specie ci contagia e diventa capace di trasmettersi da una persona all’altra. In quel momento scatta l’allarme.
2. L’AVIARIA CI STA ATTACCANDO?
È quanto è avvenuto nei mesi scorsi negli Stati Uniti, quando il virus influenzale H5N1, chiamato aviario perché di norma infetta i volatili, ha contagiato le vacche da latte e poi l’uomo.
Stando ai Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) statunitensi, da aprile 2024 alla fine di ottobre i casi di influenza aviaria confermati sono 36, con 387 mandrie infettate in 14 Stati e 67 allevamenti di pollame o altri uccelli da cortile coinvolti.
Se un virus proveniente dagli uccelli si diffonde nei mammiferi, la minaccia si avvicina perché «questi animali hanno caratteristiche più simili alle nostre, e quindi anche noi potremmo diventare un bersaglio facile. Se poi il mammifero in questione è da allevamento, come una mucca, l’allarme è inevitabile per la stretta vicinanza anche fisica con la nostra specie.
Inoltre, le nostre difese sono scarse e l’attuale vaccino non ci protegge. Infatti, H5N1 è diverso dai ceppi di influenza stagionale in circolazione; anche se, stando a un’indagine di ricercatori dell’Università di Hong Kong, essere stati esposti alla pandemia di influenza suina H1N1 del 2009 potrebbe conferire un certo grado di protezione.
Tutto questo rende l’aviaria la principale “sorvegliata speciale” come possibile causa di una nuova pandemia, e sono già in atto piani di monitoraggio.
Per esempio se ne traccia la diffusione cercando il virus e gli anticorpi contro di esso nel latte e nel sangue delle mucche (un metodo allo studio anche all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie) e si lavora per sviluppare vaccini, per l’uomo e per gli animali.
3. FRA ALLARMI E RASSICURAZIONI
Negli Usa, il contagio si sarebbe diffuso fra le vacche per via dell’uso di attrezzature per la mungitura contaminate.
Uno studio di Valerie Le Sage, del Center for Vaccine Research dell’Università di Pittsburgh, ha infatti dimostrato che H5N1 resta attivo almeno per un’ora su tali superfici e ciò potrebbe averne favorito il passaggio anche alle decine di allevatori colpiti.
Il giallo si è infittito però a inizio settembre, quando in Missouri è stata contagiata una persona che non aveva avuto contatti con mucche, suggerendo che il virus abbia trovato il modo per passare da persona a persona e quindi abbia le carte in regola per provocare un’epidemia su più ampia scala.
I Cdc hanno chiuso il caso dopo aver tracciato i contatti del paziente, ammettendo di non aver scoperto la causa dell’infezione; nel frattempo ricercatori del Dipartimento dell’agricoltura Usa hanno osservato che, fra le vacche, il virus pare trasmettersi anche per via aerea, mentre Le Sage ha segnalato che il genoma virale è presente in abbondanza pure nel latte vaccino non pastorizzato, ma non è chiaro se ciò possa incidere sui contagi nell’uomo.
Il virologo Brian Wasik, della Cornell University di Ithaca (Usa), rassicura: «Il virus dell’influenza è instabile e suscettibile al calore; per ucciderlo basta la pastorizzazione delle uova, che avviene a temperature inferiori rispetto a quella del latte». Evitare il latte crudo quindi dovrebbe mettere al riparo.
E a tranquillizzare c’è anche uno studio di Yoshihiro Kawaoka dell’Università del Wisconsin a Madison (Usa), che ha dimostrato che il ceppo che sta infettando le mandrie non ha un’elevata capacità di trasmissione per via aerea fra i furetti, animali ritenuti molto più simili a noi e per questo usati nelle sperimentazioni sull’influenza.
4. SOUVENIR POCO GRADITI
È una buona notizia, perché il rischio di epidemie e pandemie è più alto con i virus che si trasmettono per via aerea, che sono meno controllabili e passano più velocemente fra le persone rispetto a quelli che contagiano attraverso lesioni cutanee, sangue o rapporti sessuali.
È il caso del virus Mpox, che ha preoccupato la scorsa estate, tanto da aver portato l’Oms a dichiararlo un’emergenza sanitaria pubblica.
Già noto come “vaiolo delle scimmie” – perché oltre a sintomi generali come febbre, dolori muscolari e stanchezza provocalesioni cutanee come vescicole e pustole – ha provocato un’impennata di contagi in Africa con migliaia di casi e la comparsa di un nuovo ceppo, più aggressivo.
Poi ha fatto capolino anche in Europa, con casi di importazione registrati in Svezia e Germania su persone che avevano viaggiato in Africa.
L’Europa resta a basso rischio di trasmissione per Mpox, per il quale peraltro esistono vaccini e possibili terapie antivirali; il problema con Mpox è riuscire a fronteggiarne i focolai in Paesi dove le condizioni di vita e le possibilità di intervento sono peggiori, per far sì che non “sfugga di mano”.
Ma i virus che potremmo importare dall’estero, anche tornando da viaggi esotici, sono diversi. Dobbiamo soprattutto essere vigili, segnalare i casi sospetti e sapere che occorre andare subito dal medico, se abbiamo sintomi insoliti al ritorno da un viaggio in Paesi dove sono diffuse malattie come queste.
È quanto ha fatto, per esempio, un ragazzo tedesco rientrato dal Ruanda temendo di aver contratto un altro virus, il Marburg, che provoca febbri emorragiche e in media uccide un contagiato su due. Il ragazzo, che è uno studente in medicina, è poi risultato negativo, ma il caso è da manuale: lui e la sua fidanzata hanno avuto sintomi sospetti dopo il volo di ritorno dall’Africa, sul treno che li riportava ad Amburgo, e hanno allertato subito i sanitari.
Binari isolati, tracciamento dei contatti, ricovero tramite un trasporto specializzato: tutto è stato igienizzato subito. È così che dovremmo comportarci per gestire il rischio di epidemie e pandemie, a maggior ragione se c’è di mezzo un virus letale come Marburg. È tuttavia difficile che questo virus possa provocare epidemie su larga scala, perché si trasmette attraverso il contatto diretto con sangue o altri fluidi corporei.
5. NUOVI CORONAVIRUS
Non si può dire lo stesso dei tanti coronavirus parenti di SARS-CoV-2, annidati in pipistrelli e non solo.
Stando a una ricerca dell’Università di Sydney, gli allevamenti cinesi di animali da pelliccia, come visoni o volpi, sarebbero vere “autostrade” verso la nostra specie per nuovi agenti infettivi, visto che dei 125 ceppi virali identificati nei 164 animali analizzati ben 36 erano del tutto sconosciuti.
I coronavirus inoltre sono tantissimi, si trasmettono per via aerea e il rischio che ne emerga un altro capace di provocare una pandemia esiste, al punto che, come spiegano i virologi, «i nuovi piani pandemici dell’Oms sono stati modificati».
Prima di Covid-19 questi piani erano mirati alla gestione di virus influenzali, perché si pensava che il pericolo venisse solo da lì, ma oggi sono stati corretti ed estesi a 48 diversi agenti, virali e batterici. La pandemia dovrebbe avere insegnato l’importanza di condividere informazioni, di reagire in maniera coordinata ovunque, perché le epidemie e le pandemie non hanno barriere.
Speriamo quindi di essere più preparati a gestire la prossima, perché com’era vero in passato, resta vero oggi: non dobbiamo chiederci se ci sarà una nuova pandemia, ma quando. Gli intervalli fra l’una e l’altra, storicamente, sono stati dai nove ai 40 anni circa: dobbiamo convivere con l’idea che si tratta di eventi possibili, cercando di ridurne il rischio.
Per esempio migliorando le condizioni negli allevamenti di maiali, che si infettano con tutti i tipi di virus che così possono mutare e passare facilmente all’uomo, o contrastando le zanzare, vettore di tantissime malattie pericolose, dalla malaria al virus Zika, alla Dengue.