Vittorio Emanuele II di Savoia nacque a Torino il 14 marzo 1820 nel palazzo della famiglia paterna, il Palazzo Carignano.
Al piccolo vennero imposti i nomi di Vittorio, Emanuele, Maria, Alberto, Eugenio, Ferdinando, Tommaso, quelli tradizionali dei Savoia e degli Asburgo di Toscana.
Era primogenito di Carlo Alberto di Savoia Carignano, che di lì a poco sarebbe diventato l’erede al trono, e di Maria Teresa d’Asburgo-Lorena.
I piemontesi lo definirono “il re galantuomo” dopo che, sul trono da meno di 24 ore e a soli 28 anni, dovette trattare con l’Austria che aveva sconfitto suo padre, ottenendo di mantenere in Piemonte la Costituzione, concessa l’anno prima.
Ma chi era veramente Vittorio Emanuele II? Scopriamolo insieme.
1. Diventò re in una notte
Vittorio Emanuele nacque a Palazzo Carignano il 14 marzo 1820, primogenito di Carlo Alberto e Maria Teresa di Toscana.
Carlo Alberto era secondo nella linea di successione e per questo fu inviato a vivere in Toscana, dove regnava la famiglia della moglie, i Lorena.
Così Vittorio Emanuele ebbe a Firenze un’infanzia tranquilla, a parte un incidente che quasi provocò la sua morte quando aveva solo 4 anni e la mancanza di affetto che lo circondava.
Nel 1831, quando finalmente suo padre poté rientrare in Piemonte per succedere a Carlo Felice, i precettori a cui fu affidato gli imposero una dura routine giornaliera: sveglia alle 5 e mezzo, tre ore di studio, un’ora di equitazione, scherma, ginnastica e altre tre ore di studio.
Mezz’ora per il pranzo, visita di prammatica alla madre e mezz’ora di preghiere. Vittorio Emanuele apprezzava solo cavalli e armi, mentre aveva un rigetto totale per lo studio sui libri: anche da sovrano, in effetti, le sue lettere sarebbero rimaste piene di errori di ortografia.
Con la maggiore età poté sottrarsi a questa disciplina e intraprendere la carriera militare col grado di colonnello e il comando di un reggimento. Nel 1842 sposò sua cugina, l’arciduchessa Adelaide d’Asburgo-Lorena (nell'immagine sotto).
Fu il classico matrimonio combinato, ma mentre la duchessa si innamorò davvero, lui si limitò a volerle bene, consumando una lunga serie di tradimenti (le malelingue dicevano che il primo re d’Italia era fin troppo il “padre della patria”), il più famoso dei quali fu con Rosa Vercellana, una popolana che conobbe nel 1847.
La prima guerra di indipendenza (1848-49) portò la svolta decisiva nella sua vita. Sul campo di battaglia di Novara (23 marzo 1849), infatti, suo padre fu sconfitto dal maresciallo austriaco Radetzky e dovette abdicare la sera stessa.
Toccò così a Vittorio Emanuele trattare col vincitore, presso la cascina Vignale, dove riuscì a ottenere condizioni sorprendentemente favorevoli: a parte una breve occupazione di alcune piazzeforti, il Piemonte non perse alcun territorio e mantenne, unico stato nella penisola, la Costituzione scritta, concessa nel 1848.
Secondo la testimonianza del generale Thaon di Revel, Vittorio Emanuele si sarebbe vantato di aver preso in giro il vecchio Radetzky, mentre per il grande storico Denis Mack Smith era interesse dell’impero austriaco non imporre condizioni troppo dure per non spingere il regno sabaudo nelle braccia della Francia.
Non fu comunque facile per Vittorio Emanuele, a soli 28 anni, convincere il Parlamento ad accettare le condizioni di pace austriache, che prevedevano il pagamento di una forte indennità di guerra.
Fu necessario sciogliere le Camere per due volte per ottenere finalmente una maggioranza disposta a convalidare la firma del trattato di pace: il giovane re dovette rivolgersi direttamente agli elettori (all’epoca non più di 80mila in tutto il Piemonte) con il famoso Proclama di Moncalieri.
2. Il fulcro del Risorgimento
Salvando lo Statuto, Vittorio Emanuele trasformò di colpo il Piemonte da paese arretrato a punto di riferimento per tutti i patrioti risorgimentali: da quel momento, infatti, fu evidente che qualsiasi processo di unificazione nazionale avrebbe dovuto per forza passare per Torino.
Negli anni immediatamente successivi la strada politica del giovane re si intersecò con quella del grande statista piemontese Camillo Benso, conte di Cavour, che divenne primo ministro il 4 novembre 1852, un breve ma intenso apprendistato nel governo di Massimo d’Azeglio.
In realtà, Vittorio Emanuele non lo amava affatto. Quando gli venne proposto come Presidente del Consiglio si dice abbia risposto: «E va bene, come vogliono loro. Ma stiamo sicuri che quello lì in poco tempo lo mette nel culo a tutti!».
Mentre Cavour era sinceramente liberale, infatti, il re era fedele a una visione del mondo conservatrice: per esempio, solo a malincuore aveva approvato la legge Siccardi, che aboliva i privilegi degli ecclesiastici di origine medievale.
Tuttavia, aveva fiuto politico sufficiente per capire che solo così poteva aspirare a un ruolo guida nella penisola italiana, svincolandosi da una posizione subalterna – alla Francia o all’impero asburgico – alla quale la posizione geografica (a metà tra le due potenze) condannava il Piemonte.
Accettò pertanto la scelta, apparentemente strana, di Cavour di impegnare lo stato sabaudo a fianco delle superpotenze dell’epoca, Inghilterra e Francia, nella guerra contro la Russia nel 1854, che si combatté prevalentemente in Crimea.
Al termine del conflitto le potenze vincitrici riservarono una seduta del congresso di pace per discutere della situazione in Italia (era una delle condizioni poste da Cavour): in questo modo lo statista piemontese poté indicare nell’Austria il Paese che occupava ingiustamente i territori della penisola.
3. Dimostrava eccessivo coraggio
In realtà, né Cavour né Vittorio Emanuele avevano in mente l’unificazione italiana: come si vide nel 1857, quando si stipularono gli accordi segreti di Plombières, aspiravano a un “regno dell’alta Italia” che doveva comprendere Piemonte, Lombardia e Veneto.
La guerra scoppiò il 27 aprile 1859 e vide Vittorio Emanuele guidare di persona le truppe, dimostrando un coraggio personale fin eccessivo.
Durante la battaglia di Palestro il 31 maggio il re si trovò in prima linea tra gli Zuavi francesi e alcuni reparti di Bersaglieri e guidò di persona un contrattacco per catturare dei cannoni agli austriaci, che poi si ritirarono.
Il 24 giugno si ritrovò ancora sotto tiro nella battaglia di San Martino, combattuta assieme a quella di Solferino (dove invece si trovava Napoleone III con il suo esercito).
I piemontesi dovevano attaccare una ripida collina sulla cui cima erano attestati gli austriaci: dopo diversi assalti si dice che Vittorio Emanuele abbia esclamato: «Figlioli, o prendiamo San Martino o i nostri avversari ci obbligheranno a “fare San Martino”» (San Martino era il momento in cui scadevano gli affitti dei contadini e quindi si doveva traslocare).
Alla fine furono gli austriaci a ritirarsi. Napoleone, però, sconvolto dalle perdite, interruppe la guerra con l’armistizio di Villafranca l’11 luglio. Cavour reagì male alla notizia, mentre il re accettò senza scomporsi una pace che pur sempre garantiva al Piemonte il controllo della Lombardia.
Aveva comunque costantemente cercato di sviluppare una politica parallela a quella di Cavour, mirando a tenersi aperte tutte le porte, comprese quelle degli odiati repubblicani: Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini.
Nella foto sotto, Vittorio Emanuele II incita i suoi soldati nella battaglia di Solferino e San Martino il 24 giugno 1859. Fa parte della Seconda Guerra di indipendenza italiana e finisce con la sconfitta degli austriaci e la vittoria piemontese.
4. L’incontro del secolo a Teano
L’anno dopo si aprì lo spazio politico per la spedizione dei Mille, ambiguamente appoggiata dal governo di Torino fin quando Garibaldi non sconfisse definitivamente l’esercito borbonico al Volturno (1° ottobre 1860).
A quel punto, le frange più estremiste dei garibaldini (e forse lo stesso Garibaldi) avrebbero voluto conquistare Roma, che però era sotto la protezione della Francia.
Per evitare il conflitto con Parigi, Cavour spedì a fermare Garibaldi l’unico uomo che aveva l’autorità per farlo: Vittorio Emanuele, il re. I due si incontrarono a Teano, vicino a Caserta.
Garibaldi sacrificò gli ideali repubblicani e alla vista del sovrano si levò il cappello gridando: «Saluto il primo re d’Italia!».
Tuttavia, quando il 17 marzo 1861 venne proclamato ufficialmente il regno d’Italia, Vittorio Emanuele si rifiutò di cambiare il proprio numerale e rimase Vittorio Emanuele II (invece di I) per sottolineare la continuità della propria dinastia: una questione che rinfocolò i risentimenti di quanti pensavano che l’unità di Italia fosse solo una sorta di espansione coloniale del Piemonte.
Negli anni successivi il re cercò sempre di condizionare la politica italiana, rischiando a volte di trascinare il Paese in avventure rischiose (come nel 1870, quando fece fuoco e fiamme per correre in aiuto di Napoleone III contro i prussiani).
Vittorio Emanuele non perse mai la passione per la caccia e ciò gli fu fatale. Negli ultimi giorni del 1877 passò una notte all’addiaccio nella sua tenuta di caccia in Lazio e iniziò il nuovo anno a letto con la febbre alta. Il 9 gennaio il re galantuomo, padre della patria, morì. La sua salma venne deposta nel Pantheon a Roma.
La regina Vittoria d’Inghilterra, saputa la notizia della morte del Re d’Italia scrisse sul suo diario: “Ho ricevuto la notizia della morte del povero re d’Italia, avvenuta alle due di oggi. Era un uomo strano, sregolato e spesso sfrenato nelle sue passioni, ma un coraggioso, prode soldato, con un cuore generoso, onesto, con molta energia e con grande forza”.
Nella foto sotto, i funerali di Vittorio Emanuele II.
5. Tre curiosità su Vittorio Emanuele II
- Si convertì davvero prima di morire?
Come tutti i protagonisti del Risorgimento, anche Vittorio Emanuele era stato scomunicato da papa Pio IX.
Ma lui, per quanto non così fervente, non voleva morire senza essere riammesso nella Chiesa cattolica. La cancelleria papale, invece, pretendeva una sua abiura scritta, firmata da testimoni.
L’Italia era un Paese fortemente cattolico e la morte del re in stato di scomunica sarebbe stato uno shock difficilmente assorbibile, che avrebbe potuto avere rilevanti conseguenze anche sulla politica nazionale.
La velocità della malattia costrinse sia la diplomazia papale sia quella italiana a un grande lavoro per trovare una soluzione accettabile a tutti: alla fine fu il cappellano personale del re, monsignor d’Anzino, a conferire l’estrema unzione al sovrano e a redigere, dopo la sua morte, una relazione da cui ne risultava il pentimento.
- E' vero che fu scambiato nella culla?
Quando aveva solo quattro anni il futuro re scampò a un incendio, partito da una candela, che quasi lo avvolse mentre era nella culla. In realtà, quando arrivarono i soccorsi, il suo materasso era bruciato per metà e lui era indenne (mentre la sua balia morì qualche giorno dopo).
A distanza di qualche tempo, però, si diffuse la diceria che in realtà fosse morto e fosse stato sostituito con un altro bambino, forse il figlio di un macellaio, tal Gaetano Tiburzi, che aveva denunciato proprio in quei giorni la sparizione del proprio figlio e che all’improvviso era misteriosamente diventato ricchissimo, tanto da poter acquistare un intero palazzo.
Ad alimentare la diceria contribuì anche la notevole diversità fisica di Vittorio Emanuele rispetto a suo padre Carlo Alberto: quest’ultimo era alto quasi due metri e aveva tratti somatici aristocratici, mentre lui era basso di statura (1,58 cm), tarchiato e aveva lineamenti poco delicati.
È chiaro che le supposizioni si basano sulla convinzione, impossibile da dimostrare, che le leggi dell’ereditarietà agiscano in maniera rigida e inesorabile. Quanti figli sono diversi dai padri, tanto nell’aspetto fisico quanto nel temperamento?
Definire Vittorio come «figlio di un macellaio», fu probabilmente un modo per stigmatizzare i modi rozzi, grossolani e tutt’altro che aristocratici che egli assumeva crescendo.
E inoltre, se Carlo Alberto e Maria Teresa avessero avuto un tale segreto da nascondere, probabilmente non avrebbero pronunciato con tanta leggerezza queste parole: «Non rassomiglia a nessuno di noi, e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti».
- Apparteneva al ramo dei Savoia Carignano
Vittorio Emanuele apparteneva a un ramo cadetto dei Savoia, quello dei Savoia-Carignano, che non era quello principale né era in linea diretta di discendenza per il trono.
La linea dei Savoia-Carignano era nata nel 1620 quando il duca Carlo Emanuele I aveva coniato il titolo di “principe di Carignano” per Tommaso, il quinto dei suoi figli.
Da allora i Carignano ebbero sempre almeno un figlio maschio al quale trasmettere i diritti ereditari (in Piemonte valeva la lex salica che escludeva le donne dal trono).
Quando nel 1831 la linea diretta si estinse, i Carignano risultarono i più vicini per discendenza al ramo principale della famiglia e quindi ereditarono la corona.