Quando si parla di vulcani in Italia, viene spontaneo pensare a quelli più famosi e imponenti: dal Vesuvio all’Etna, passando per lo Stromboli, Vulcano e i Campi Flegrei.
Questi giganti hanno fatto parlare di loro nel corso dei millenni, per via delle potenti eruzioni che hanno scatenato e che hanno lasciato traccia nella memoria e nei testi antichi.
Eruzioni che in alcuni casi hanno causato migliaia di morti, come è successo con il Vesuvio durante l’eruzione del 79 d.C. che cancellò Pompei ed Ercolano.
Oggi questi vulcani sono conosciuti, studiati e di loro e del potenziale pericolo che rappresentano si sa davvero tanto.
Eppure non molti sono a conoscenza del fatto che queste montagne di fuoco, capaci di svettare verso il cielo dominando intere regioni, hanno un fratello oscuro, silenzioso e invisibile che giace nelle profondità del Mar Tirreno, a migliaia di metri di profondità.
È il Marsili, il vulcano sommerso più grande d’Europa e del Mediterraneo, localizzato a metà strada tra Palermo e Napoli, subito a nord delle isole Eolie.
Negli oscuri abissi del Mar Tirreno, a migliaia di metri di profondità, si nasconde un vulcano, enorme, invisibile e sconosciuto.
È stato scoperto cento anni fa ma ancora oggi di questo gigante si sa davvero poco. E la cosa più preoccupante è che non è solo.
1. DIMENSIONI SPAVENTOSE
Il Marsili è un vero mostro in fatto di dimensioni: è alto oltre 3000 metri dalla base alla cima, più del Gran Sasso d’Italia, misura circa 70 km in lunghezza e 30 in larghezza e si sviluppa su un’area di circa 2100 km quadrati.
Insomma, un vero gigante con i piedi ben saldati sui fondali del Tirreno e la testa che arriva a circa 500 metri dalla superficie del mare.
Per capire come si sia formato bisogna guardare ai complessi fenomeni geologici che avvengono da milioni di anni sotto il Tirreno, dove la placca Africana e quella Euroasiatica si scontrano generando calore ed energia che vengono poi liberati in superficie attraverso la risalita di magma incandescente.
È da quel magma che ha preso vita il mostro, il quale nel corso di centinaia di migliaia di anni ha assunto le dimensioni e la forma attuali: un’enorme struttura allungata in direzione NNE-SSO costituita da più fratture eruttive allineate e da oltre 80 centri eruttivi minori.
I ricercatori dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) e del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) hanno condotto dei recenti studi che hanno permesso di stabilire che questo gigante degli abissi farebbe parte del contesto geologico che ha portato alla formazione delle Eolie.
Quindi il Marsili sarebbe una sorta di arco sommerso che si va ad aggiungere all’Arco delle Eolie, formato dalle sette isole emerse (Stromboli, Panarea, Vulcano, Lipari, Salina, Alicudi e Filicudi).
Come tipologia invece può essere considerato uno “stratovulcano”, ovvero un vulcano di forma conica costituito dalla sovrapposizione di vari strati di lava solidificata, tefra, pomice e ceneri vulcaniche, con pendii piuttosto ripidi.
La sua scoperta risale agli anni Venti del ‘900 ed è stato chiamato con questo nome in onore dello scienziato e geologo italiano Luigi Ferdinando Marsili (foto sotto).
2. UN PERFETTO SCONOSCIUTO
Anche se sono passati cento anni c’è però da dire che, a causa della sua inaccessibilità vista la profondità a cui si trova, del Marsili ancora oggi non si sa tanto, soprattutto in relazione alle moltissime informazioni che invece si hanno sui vulcani continentali.
Nel 2006 e nel 2010 le campagne di esplorazione effettuate a bordo delle navi oceanografiche Universitatis e Urania hanno contribuito a fare luce sulle caratteristiche di questo vulcano fornendo dati in alcuni casi tranquillizzanti e in altri un po’ preoccupanti.
Sembrerebbe che la storia eruttiva del Marsili sia iniziata tra 0,7 e 1 milione di anni fa e che nel corso della sua lunga attività abbia dato luogo ad eruzioni prevalentemente effusive, ovvero non violente e con abbondanti colate di lava fluida, e in misura minore, esplosive anche se a bassa energia.
Per anni l’ipotesi più accreditata tra gli studiosi fu che il Marsili avesse termi- nato la parte più importante della sua attività eruttiva circa 200.000 anni fa, ma nel corso delle ricerche con- dotte a bordo della nave Universitatis sono stati prelevati, a una profondità di 839 metri, alcuni sedimenti che hanno evidenziato due livelli di ceneri vulcaniche dello spessore di 15 e 60 centimetri, la cui composizione chimica risulterebbe coerente con quella della lava del vulcano.
Grazie all’analisi del Carbonio-14 utilizzato sui gusci di organismi fossili contenuti in tali sedimenti, i ricercatori hanno potuto stabilire l’età di questi due strati di lava che risalirebbero a 3000 e 5000 anni fa. Ulteriori studi condotti successivamente hanno spostato le date delle più recenti eruzioni a un età compresa tra i 2100 e i 3000 anni fa.
Queste datazioni raccontano quindi un’importante attività del Marsili in tempi relativamente vicini, il che significa che il gigante sommerso è ancora vivo e capace di creare problemi.
La necessità di un serio monitoraggio del vulcano a questo punto è diventata fondamentale per comprendere i rischi legati a una sua possibile eruzione sottomarina e per calcolare quanto spesso queste eruzioni possano verificarsi.
Purtroppo per ora i cosiddetti “tempi di ritorno” delle eruzioni del Marsili non sono disponibili perché tali stime si basano su calcoli statistici compiuti su un gran numero di datazioni.
Il problema è che per il Marsili ci sono solo 4 datazioni disponibili. In altre parole, è come se noi del Vesuvio conoscessimo solo le eruzioni del 1631 e del 1944 e calcolassimo che i tempi di ritorno sono di 400 anni, mentre, in realtà, l’attività del Vesuvio tra queste due date è stata pressoché continua.
3. UN RISCHIO CALCOLATO
Lo stato attuale del Marsili è caratterizzato da fenomeni vulcanici secondari (in particolare degassamento sottomarino) e da sismicità di bassa magnitudo indotta da processi vulcano-tettonici e idrotermali. Parliamo di terremoti di lieve entità che sono stati registrati solo dalle stazioni di monitoraggio poste sul fondo del mare.
Gli studi recenti portano invece a credere che non ci siano tracce morfologiche di grandi frane o collassi delle pareti laterali del vulcano avvenute nel passato, ma sono in corso attività di ricerca per valutare l’effettiva stabilità dell’edificio vulcanico e quindi la possibilità che tali frane o collassi possano avvenire, originando degli tsunami.
Certo, bisogna ricordare che nel record storico e geologico degli tsunami che hanno interessato le coste tirreniche non ci sono prove di onde anomale ricollegabili a collassi laterali del Marsili ma non è detto che in futuro questi non si possano verificare.
Il rischio derivante da eventuali eruzioni sottomarine è invece basso. Infatti nel caso di un’eruzione a una profondità intorno ai 1000 metri, l’unico segno visibile in superficie sarebbe il “mare che bolle” legato al degassamento e al galleggiamento di materiale vulcanico.
Questo per via dei 500 metri di acqua che separano la cima del vulcano dalla superficie marina, uno spessore in grado di attenuare gli effetti di un’eruzione che comporterebbe per l’uomo il solo problema di deviare le rotte navali nella zona.
Il vero pericolo legato al Marsili potrebbe essere invece rappresentato dalla possibilità che interi settori del vulcano possano crollare all’interno della camera magmatica a seguito della rapida risalita di significative quantità di magma. Ma in questo caso si parla di una fuoriuscita di lava di svariati chilometri cubi di materiale, ovvero un’eruzione che risulterebbe davvero eccezionale.
Ci sono però alcune buone notizie che possono rassicurare coloro che vivono sulle coste del Tirreno: sembra che non ci siano prove che lascino pensare che negli ultimi 700.000 anni questo evento sia accaduto e quindi si spera che rimanga un rischio davvero raro.
Inoltre, alcune indagini farebbero pensare che il Marsili possa risultare stabilizzato da una serie di fratture riempite da magma raffreddato che fungono da mura di contenimento e che dovrebbero rendere il vulcano sottomarino un blocco solido e apparentemente immobile. Certo, il condizionale è d’obbligo, visto che le informazioni sono ancora poche per poter esprimere pareri definitivi.
Qualche anno fa, l’allora presidente dell’INGV Enzo Boschi lanciò un serio avvertimento sui rischi del Marsili nato a seguito delle analisi che venivano condotte sul vulcano e che potevano far pensare che la sua struttura fosse tutt’altro che solida.
4. IL MARSILI NON È SOLO
Un team di ricercatori di INGV e CNR, infatti, dimostrò che la struttura interna del Marsili ricorda molto da vicino quella di un altro gigante sommerso del Tirreno, molto più antico: il Vavilov.
Quest’ultimo – che si trova poco più a nord, 160 km a largo del Golfo di Napoli – mostra sul suo versante occidentale le “cicatrici” di un potenziale collasso di un’enorme quantità di materiale (circa 40 miliardi di metri cubi) avvenuto qualche migliaio di anni fa.
Crolli di queste dimensioni sono in grado di sviluppare onde anomale in superficie e lo tsunami che ne sarebbe seguito (anche se a oggi le prove scientifiche di questo evento continuano a essere insufficienti) potrebbe essere alla base della scomparsa dell’antica e fiorente civiltà Nuragica in Sardegna.
Quindi, un collasso sul Marsili con le stesse caratteristiche di quello avvenuto sul Vavilov potrebbe produrre onde anomale in grado di arrecare gravi danni alle coste tirreniche dell’intero meridione d’Italia. Insomma, capire quanto il Marsili sia o meno un vulcano stabile appare come una necessità primaria.
Anche perché c’è da considerare che laggiù, nelle fredde e buie acque del Tirreno, il mostro non è da solo. Oltre al Vavilov, che abbiamo appena nominato, ci sono altri due giganteschi edifici vulcanici sommersi: il Palinuro e il Magnaghi.
E poi diversi altri vulcani più piccoli come il Glauco, l’Eolo, il Sisifo, l’Enarete, il Lametini e alcuni altri. Tutte queste montagne di fuoco possono rappresentare un pericolo e per questo si spera che in futuro si troverà la maniera di poterle studiare e classificare.
Intanto il Marsili è stato inserito nella lista dei vulcani italiani attivi come Vesuvio, Campi Flegrei, Stromboli, Etna, Vulcano, Lipari e Palinuro dalla Smithsonian Institution nell’ambito del Global Volcanism Program.
Tutto ciò deve servire a studiare il più possibile i vulcani che ci circondano in maniera tale da riuscire a prevenire catastrofi come quella che si è verificata nel gennaio del 2022, quando l’esplosione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha'apai nell’Oceano Pacifico ha devastato l’arcipelago di Tonga, provocando uno tsunami le cui onde hanno fatto il giro del mondo, giungendo fino ai Caraibi.
Sia chiaro, nessuno oggi pensa che un evento simile a quello di Tonga possa interessare il Marsili perché le differenze tra i due vulcani sono davvero tante. Eppure più saremo in grado di conoscere questo mostro sottomarino più sarà facile tenerlo a bada laggiù negli abissi, dove è nato e dove si spera che rimarrà per sempre. Sotto, la simulazione di un devastante tsunami.
5. IL TESORO DEI GIGANTI SOTTOMARINI
Accanto ai rischi legati alla presenza dei grandi complessi vulcanici, occorre ricordare che gli ambienti che vengono formati dal vulcanismo sono sempre, in qualche modo, anche una risorsa.
Ad esempio, sulla terraferma, i terreni di origine vulcanica sono estremamente produttivi dal punto di vista delle coltivazioni.
I grandi complessi vulcanici in ambiente marino sono invece particolarmente interessanti per due motivi: la produzione di energia e la mineralizzazione in prossimità delle emissioni idrotermali.
Negli ultimi decenni, infatti, si è scoperto che l’idrotermalismo, cioè l’emissione di fluidi (gas e liquidi) riscaldati in prossimità dei centri vulcanici marini producono ambienti particolari, ricchi di batteri e altre forme di vita in grado di attivare una serie di trasformazioni (dette “bio-geochimiche”) capaci di far addensare, nel corso dei centinaia o migliaia di anni, materie prime preziose come minerali contenenti oro, argento, rame e terre rare.
Questa nuova frontiera della ricerca, conosciuta a livello internazionale come Deep Sea Mining, ovvero estrazione mineraria in acque profonde, rappresenta la nuova strategia planetaria per il reperimento delle risorse.
Ovviamente, molti studi devono essere perfezionati affinché si possano sfruttare questi giacimenti senza rischiare di rovinare i delicati equilibri degli ecosistemi che li caratterizzano e per limitare l’inquinamento che potenzialmente potrebbe essere innescato dallo sfruttamento delle risorse stesse.
Ad ogni modo più nel futuro saremo in grado di conoscere i vulcani sottomarini come il gigantesco Marsili, più avremo la capacità di tirare fuori il meglio da loro, trasformandoli da grave problema a grande opportunità.
Nella foto sotto, le strutture per il Deep Sea Mining assomigliano molto da vicino alle piattaforme di estrazione petrolifere.