Con la sua inconfondibile firma curvilinea, il nome di Walt Disney è divenuto una leggenda della storia del cinema, sinonimo di intrattenimento di qualità per tutta la famiglia.
Vincitore di 26 Oscar, vari premi e importanti riconoscimenti internazionali, Disney ha emozionato e divertito più generazioni di spettatori di ogni età riscuotendo un successo talmente grande da essere spesso considerato come l’inventore dell’animazione disegnata.
Questa tecnica in realtà esisteva da circa vent’anni, ma è stata la fantasia e la determinazione di Disney a farle spiccare il volo.
I personaggi di Walt Disney hanno incantato intere generazioni. Ecco chi c’era dietro.
1. La famiglia
Walter Elias Disney Jr., quarto di cinque figli, nacque a Chicago nel 1901 da una famiglia di umili origini.
Gli anni dell’infanzia furono difficili. Il padre, uomo autoritario, lo costringeva a lunghe ore di lavoro nelle attività di famiglia e non gli risparmiava punizioni corporali.
Il bambino si consolava come poteva: con il disegno, grande passione fin da subito; con la compagnia del fratello Roy di poco più grande; con le amate fiabe che la mamma gli leggeva la sera; e con la magia del cinema di Charlie Chaplin.
Disegno, cinema, fiabe... a ben guardare, gli ingredienti per il futuro re dei cartoon c’erano già tutti. Infatti, subito dopo gli studi artistici tra Kansas City e Chicago, il ragazzo iniziò a dedicarsi all’animazione.
I primi passi in quello che diverrà il suo mondo, fantastico e totalizzante, li mosse con l’amico Ub Iwerks. Insieme realizzarono cortometraggi che chiamavano Laugh-O-grams. Ma i tempi erano quelli che erano, e le difficoltà finanziarie non mancavano.
Così traslocò a Los Angeles, sperando in una maggiore fortuna, che in effetti era ormai a portata di mano. Il giovane Disney infatti si fece strada in fretta, e nel 1923 fondò insieme al fratello una sua casa di produzione, la Disney Brothers Cartoon Studio.
Qui si ritrovò a lavorare gomito a gomito con una ragazza minuta e graziosa di nome Lillian Bounds: lui disegnava, lei gli ripassava i disegni con l’inchiostro.
La mancanza di talento artistico, e un certo nascente interesse del boss nei suoi confronti, la portarono a cambiare mansione e a diventare la segretaria personale di Walt. E poco dopo la moglie.
Nel 1925 si sposarono e nel 1933 ebbero la prima e unica figlia biologica, Diane Marie. Per festeggiarne la nascita Walt annunciò che il primo giorno di ogni film Disney la proiezione sarebbe stata gratuita per tutti gli orfani.
Pochi anni dopo adottarono la seconda figlia, Sharon Mae. Lilli e Walt resteranno insieme fino alla morte di lui, nel 1966.
Nella foto sotto, Ub Iwerks (1901- 1971), il disegnatore e fumettista che iniziò la sua carriera con Walt Disney: fu lui a creare lo stile dei primi cartoni animati e di Topolino (più a destra, nel 1928).
2. Arriva Topolino
Nel 1927 nacque la serie di Oswald il coniglio fortunato, personaggio che in breve Iwerks, rielaborando alcuni schizzi, trasformò in un topo.
Lillian lo battezzò Mickey Mouse – in Italia Topolino – e lo stesso Disney gli diede personalità e voce.
Fu proprio questo fortunato personaggio, emblema stesso dell’impero Disney, a debuttare col sonoro. Il cortometraggio, del 1928, si chiamava Steamboat Willie e scatenò nel pubblico un’ondata di entusiasmo.
Non che Topolino fosse particolarmente divertente o interessante, come osserva lo storico Stephen Cavalier nel suo Cartoon, storia mondiale del cinema d’animazione (Atlante), ciononostante il topo detective si affermò come «l’individuo retto che cerca di controllare i personaggi e le situazioni caotiche che gli gravitano attorno, un amabile “eroe” a cui i bambini – e i genitori – possono fare riferimento».
Un mondo luminoso e magico, lo descrive Cavalier, in cui «l’intero scenario è intelligentemente realizzato per essere apprezzato da ogni bambino ma anche dal bambino che alberga in ogni adulto».
Vero pioniere delle tecniche di animazione, Disney era pronto a rischiare la bancarotta pur di elevare le sue produzioni a nuova forma d’arte.
Dopo l’introduzione del sonoro sperimentò l’utilizzo della musica e del colore per migliorare le atmosfere dei suoi cortometraggi, che ottennero il picco di maggior successo nel 1933 con I tre porcellini.
Per Disney l’animazione era lo strumento con cui raccontare storie in grado di suscitare una vasta gamma di emozioni. Una visione che portò, nel 1937, alla realizzazione del primo lungometraggio nella storia dell’animazione d’oltreoceano: Biancaneve e i sette nani.
Costato molto di più di quanto stimato, Biancaneve non soltanto ripagò ampiamente la compagnia (che crebbe fino ad avere ben oltre 1.000 dipendenti), ma aprì la strada verso la produzione di molti altri classici, come Fantasia e Pinocchio (entrambi del 1940), Dumbo (1941), Bambi (1942), fino ai successivi Cenerentola (1950), Alice nel paese delle meraviglie (1951), Peter Pan (1953) e La carica dei 101 (1961).
Nella foto sotto, Walt Disney si sporge su un animatore mentre elabora una nuova azione per il personaggio del Grillo parlante del lungometraggio Pinocchio.
3. Genitori cercansi
In molti dei suoi film, tuttavia, la carica fantastica di Disney assume anche una dimensione più profonda e oscura.
Stando alla biografia di Marc Eliot dal titolo Walt Disney, Hollywood’s Dark Prince (Birch Lane Press), ogni lungometraggio riflette vari aspetti del grande tema che più gli stava a cuore: la sacralità della famiglia e le tragiche conseguenze dovute al suo venir meno.
Non a caso ciò che spesso accumuna questi film è il tema dell’abbandono e della ricerca dei veri genitori da parte del protagonista.
Un fatto che avrebbe personalmente ossessionato Disney sin dalla giovane età, da quando, non potendo prendere parte alla Prima guerra mondiale perché minorenne, scoprì l’inesistenza del suo certificato di nascita e si insinuò in lui il dubbio di essere stato adottato, tanto da giustificarsi così le punizioni subite da bambino.
Un simile retaggio lo portò a considerare la sua azienda come una grande famiglia, disposizione che gli rese particolarmente odiosi i contrasti che si verificarono con i dipendenti.
Il suo carattere dispotico mise a dura prova le relazioni con i numerosi animatori e, presto, i rapporti divennero conflittuali, tanto più che Walt non voleva riconoscere il loro contributo creativo.
Di più: paghe basse, licenziamenti ingiustificati e rifiuto del sindacato portarono le relazioni nell’azienda-famiglia allo scontro aperto.
Nel maggio del 1941 i dipendenti entrarono in sciopero con tanto di picchetti all’ingresso della casa cinematografica e la partecipazione di diverse centinaia di dimostranti muniti di cartelli con slogan e caricature dei celebri personaggi disneyani.
La lotta si protrasse per due mesi, finché un arbitrato riconobbe aumenti salariali, ferie pagate, la riassunzione dei licenziati e la presenza del sindacato. Disney se la legò al dito.
4. Propaganda e servizi dello “zio Walt”
Durante la Seconda guerra mondiale anche gli studi della Disney vennero “arruolati” per produrre film di propaganda per il governo.
Tra le decine di titoli il più noto – e anche premio Oscar come miglior cortometraggio animato – è La faccia del Führer, con Paperino che vive l’incubo di trovarsi sotto il regime nazista.
Sembra che lo stesso presidente Roosevelt fosse rimasto condizionato dall’abile propaganda di Disney e avrebbe dato il via alla strategia del bombardamento a lungo raggio solo dopo aver visto il film-documentario Victory Through Air Power, realizzato per raccogliere fondi per la costruzione di aerei da guerra.
Ma l’impegno politico e ideologico di Disney non finì con il termine del conflitto. Anzi, le tensioni della Guerra fredda e l’inizio della caccia alle streghe che negli Anni ’50 investì anche Hollywood, vide Walt Disney in prima linea contro il “pericolo comunista”.
Cominciò con il togliersi qualche sassolino dalla scarpa contro i suoi dipendenti che avevano scioperato anni prima: testimoniò al Comitato contro le attività antiamericane (Huac) e denunciò l’infiltrazione dei comunisti nella sua azienda.
Negli anni del maccartismo fu un informatore del’Fbi, diretta dall’amico J. Edgar Hoover, e nel 1954 diventò Special Agent in Charge, offrendo all’agenzia un uomo di fiducia anche dietro le quinte della neonata industria della televisione.
Disney trovò nel piccolo schermo, dove presentava i suoi programmi, un’occasione per rendere il volto dello “Zio Walt” familiare e osannato tanto quanto quello delle grandi stelle del cinema.
Ma la televisione si rivelò soprattutto uno strumento straordinario per finanziare e promuovere la sua ultima visionaria creazione: Disneyland, il parco divertimenti che aprì nella città di Anaheim, vicino a Los Angeles, nel 1955.
Inaugurato in diretta televisiva, il suo straordinario successo non si fermò neanche con la scomparsa del suo stesso ideatore, finendo per arrivare in molte grandi città del mondo dove continua ad attrarre milioni di famiglie.
Tra le molteplici creazioni della sua carriera, Disney lasciò un segno indelebile anche nel cinema dal vero con il film Mary Poppins uscito nel 1964, due anni prima della sua scomparsa.
In una miscela impeccabile di riprese dal vivo e animazione, Disney dipinse il grande ritratto dell’eterno trionfo della speranza sul cinismo, della gioventù sulla vecchiaia, della vita sulla morte. Come osserva il biografo Marc Eliot: «è il suo grande monumento all’immortalità».
5. Perché fu un innovatore
Nonostante avesse smesso di disegnare sin dall’inizio della carriera e non fosse nemmeno accreditato come regista o sceneggiatore, Disney ottenne più onori di chiunque altro grazie allo straordinario intuito, all’immaginazione e alla formidabile capacità nel guidare ogni settore della produzione.
Fu tra i primi a sfruttare il sonoro, la musica e il colore, e investì presto anche nella messa a punto del sistema “multiplane”, in cui le varie parti dell’immagine sono disposte su più piani davanti alla macchina da presa e mosse a diverse velocità e distanze per dare all’animazione l’illusione della profondità.
Ma oltre alle innovazioni tecniche, Disney aprì nuove frontiere con la caratterizzazione dei personaggi quando realizzò I tre porcellini (1933), dove a ognuno di essi corrisponde una diversa personalità.
Un approccio sperimentale e innovatore che poi segnò uno dei suoi più grandi capolavori (il cui costo finì per superare sei volte il budget iniziale): Biancaneve e i sette nani.
Realizzato facendo ricorso alla tecnica del rotoscopio, con la quale i personaggi sono ricalcati o disegnati sopra i singoli fotogrammi di un filmato dal vero (girato cioè con attori in carne e ossa) per rendere i movimenti fluidi e realistici, la fiaba di Biancaneve incanta il pubblico con il suo impatto emozionale che in seguito caratterizzerà tante altre produzioni.
A creare la magia di Biancaneve e i sette nani fu Albert Hurter (1883-1942), l’art director del film. Ufficialmente il suo compito era quello di individuare l’aspetto grafico dei personaggi e studiare le ambientazioni.
Fu lui, infatti, a definire tutti i protagonisti del lungometraggio, e fu sempre Hurter, più avanti, a trasformare il toscano Pinocchio (1940) nel burattino gotico-tirolese proposto dal film.
Disney introdusse innovazioni fondamentali non soltanto per il cinema di animazione ma anche per la cinematografia in senso lato. Basti pensare all’istituzione della figura dello story artist, un creativo interamente votato alla ricerca delle idee per la costruzione dei personaggi e degli ambienti.
La forza innovatrice di Disney non si è fermata con la sua morte. Un passaggio importante nel processo creativo è quello che matura con i film degli anni Sessanta grazie al metodo Xerox, che permette di duplicare le immagini senza ridisegnarle manualmente, che fu usato per La spada nella roccia e Robin Hood.
L’evoluzione si compie infine con l’introduzione del computer negli anni Novanta, che conduce all’era attuale con opere come Frozen. Qui gli animatori lavorano con la tavoletta grafica e strumenti digitali ottenendo risultati eclatanti, con virtuosismi recitativi e sottigliezze del tutto degni dei pionieri che disegnavano a matita su carta.