Watergate: lo scandalo che travolse Nixon

Sembrava un banale tentativo di furto all’Hotel Watergate di Washington, invece era un’attività di spionaggio a danno del Partito Democratico.

L’avevano orchestrata gli uomini del presidente repubblicano in carica, Richard Nixon.

Cruciale fu il ruolo di due reporter del Washington Post, che con le loro indagini fecero scoppiare il caso. E di un informatore soprannominato “Gola profonda”.

Ecco un riassunto breve dello scandalo Watergate: gli avvenimenti che hanno portato alle dimissioni del presidente Richard Nixon, le prime negli USA.

1. Le prime reazioni

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Era passata da poco l’una di notte del 17 giugno 1972 quando Frank Wills, una giovane guardia di sicurezza che lavorava nel Watergate Hotel a Washington, notò pezzi di nastro adesivo su alcune porte, tra le scale e il parcheggio sotterraneo.

Wills si limitò a togliere lo scotch, ma quando dopo un’ora si accorse che era stato riposizionato, si decise a chiamare la polizia.

Intervenne una pattuglia che, al sesto piano dell’albergo – dove aveva sede il Comitato nazionale Democratico (la principale organizzazione per la campagna e la raccolta fondi del Partito)– arrestò cinque uomini che si erano introdotti illecitamente nell’ufficio della segretaria del vicepresidente.

Da subito sembrò trattarsi di qualcosa di diverso da un semplice furto con scasso, sia perché tutti gli arrestati avevano con loro attrezzature elettroniche per intercettazioni telefoniche sia perché alcuni avevano avuto a che fare con la CIA (Central Intelligence Agency).

Nell’agendina di uno di loro furono trovati numeri di telefono riconducibili alla Casa Bianca. Nella foto sotto, il Watergate Complex, luogo dove avvenne l'effrazione il 17 giugno 1972.

In quel momento il presidente degli USA Richard Nixon si trovava in vacanza in Florida con Harry Robbins Haldeman, capo del suo staff personale. Venuti a conoscenza di quanto accaduto, rientrarono a Washington ed ebbero diversi incontri con il loro staff in cui le conversazioni venivano registrate.

Il 19 giugno l’ex ministro della Giustizia – John Newton Mitchell – che coordinava la campagna per la rielezione di Richard Nixon, dichiarò che non esisteva alcun collegamento con l’episodio del Watergate. Anche l’addetto stampa del presidente, Ron Ziegler, liquidò il fatto come un “tentativo di furto di terz’ordine”.

Il 22 giugno fu lo stesso Nixon, durante una conferenza stampa, ad affermare che la «Casa Bianca non era minimamente coinvolta nel fatto».

A fine agosto Nixon tornò sull’argomento, dichiarando che il suo consigliere legale, John Dean, aveva appena concluso “un’approfondita indagine interna” che aveva confermato l’assoluta estraneità della sua amministrazione “allo sconcertante episodio”.

Così furono chiamati a giudizio solo gli uomini che si erano fisicamente introdotti negli uffici, con l’accusa di associazione a delinquere, scasso e violazione delle leggi federali. Nessun accenno ai mandanti e alle motivazioni di tali reati.

Nella foto sotto, John Newton Mitchell, il direttore del Comitato per la rielezione del presidente, aveva approvato il piano di attività illegali di G. Gordon Liddy.

2. Due cronisti, una “gola profonda” e le indagini

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Pochi giorni dopo, il direttore del Washington Post, intuendo che potesse esserci altro dietro le verità ufficiali – uno degli “scassinatori” era James McCord, ex agente CIA e direttore dei Servizi di sicurezza del CRP (Comitato per la rielezione del presidente Nixon) – affidò a due reporter, Robert “Bob” Woodward e Carl Bernstein, il compito di indagare.

In tre mesi furono pubblicati sull’argomento ben 79 articoli, cui seguivano all’interno le inchieste dei due giornalisti, che lavoravano su piste non esplorate dalla giustizia governativa. Bob Woodward, in particolare, poté contare su una sua fonte “segreta” molto ben informata, a cui diede il nome di “Gola profonda”, ironico omaggio a un film erotico di quell’anno.

Solo nel 2005 si verrà a sapere che era il vicedirettore dell’FBI Mark Felt (foto sotto), che lo ammise durante un’intervista rilasciata a Vanity Fair.

Bob Woodward e Carl Bernstein erano partiti proprio da James McCord, ma pian piano ampliarono il loro raggio d’azione e contattarono centinaia di persone. Già nell’agosto 1972 il Washington Post rivelò che un assegno di 100mila dollari era stato versato sul conto di uno degli uomini arrestati.

Non esistevano, però, ancora testimonianze e prove certe che riconducessero alle istituzioni presidenziali; fu a questo punto che la fonte segreta Mark Felt diede il celebre consiglio follow the money, “seguite il denaro”.

Così fecero i due reporter, scoprendo che gli uomini che si erano introdotti nel Watergate Hotel stavano chiedendo soldi ai più stretti collaboratori di Nixon. Sembrò il più classico dei ricatti: denaro in cambio del silenzio. Non solo: si accorsero della circolazione di enormi somme di denaro, di provenienza poco chiara.

Tra fine settembre e inizio ottobre, uscirono più articoli in cui John Mitchell, presidente del Comitato per la rielezione, veniva apertamente accusato di essere la “mente” di una complessa macchina cospirativa.

Le prove schiaccianti, però, mancavano ancora e la Casa Bianca passò al contrattacco, accusando a sua volta il Washington Post di fare un giornalismo di bassa lega e smaccatamente di parte. Nixon, tra l’altro, aveva sempre avuto un rapporto conflittuale con la stampa.

Comunque, nonostante il popolare quotidiano mantenesse i riflettori sempre accesi sulla vicenda, in quei primi mesi l’opinione pubblica non le diede particolare peso. A molti americani dovette parere poco verosimile che il presidente degli Stati Uniti, che aveva ottime probabilità di essere rieletto, fosse invischiato in piccole o grandi azioni illecite.

Nella foto sotto, Bob Woodward in una immagine del 2004 e Carl Bernstein in una immagine del 2007.

3. Il caso s’ingigantisce

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Il 7 novembre 1972 Nixon vinse le elezioni presidenziali con ampio margine sul candidato democratico George McGovern.

L’inchiesta sembrò arenarsi e il 27 gennaio 1973 Nixon firmò la fine della guerra con il Vietnam, raccogliendo un enorme successo personale.

Ma proprio in questo momento di massima popolarità l’affare Watergate iniziò a ingigantirsi, nonostante i continui tentativi di depistaggio e insabbiamento da parte dei suoi uomini.

I due tenaci cronisti del Washington Post ebbero la certezza che esistesse un vero e proprio fondo, destinato a finanziare operazioni segrete di controllo e spionaggio ai danni dei Democratici. Come quella, appunto, del Watergate.

A capo di quel fondo c’era Gordon Liddy, uno degli uomini di fiducia di Nixon (foto sotto).

Da lì in poi, fu un’escalation di rivelazioni e di colpi di scena. Woodward e Bernstein individuarono anche un’organizzazione che, durante le primarie, si era mossa per depotenziare i possibili avversari di Nixon e far prevalere il candidato democratico più debole, George McGovern.

Mark Felt rivelò che più di 50 persone erano impegnate esclusivamente in questo genere di azioni.

Il 30 aprile 1973 i due più stretti collaboratori del presidente, Robbins Haldeman e John Ehrlichman, accusati da John Dean di averlo indotto a falsificare il primo rapporto sull’episodio per evitare conseguenze, si dimisero. Lo scandalo si stava ormai avvicinando allo Studio Ovale, la stanza del presidente.

Nella foto sotto, i veri reporter Bob Woodward (a destra) e Carl Bernstein, i due giovani cronisti del Washington Post che vinsero il premio Pulitzer con la loro inchiesta.

4. La Commissione parlamentare

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A questo punto si mosse anche la politica e fu istituita una Commissione d’inchiesta sulle attività presidenziali del 1972.

Il 17 maggio 1973 ebbero inizio le udienze, trasmesse in diretta tv.

James McCord confessò che il Watergate faceva parte di un vasto piano di spionaggio politico (piano Gemstone, si saprà più avanti) diretto dalla Casa Bianca; emerse poi la complicità di alcuni stretti collaboratori di Nixon, che avevano fatto pressioni sui responsabili dell’intrusione al Watergate Hotel e cercato di depistare le indagini, e di parte dell’FBI, il cui direttore Patrick Gray fu costretto a dimettersi.

Una testimonianza chiave fu quella del consulente legale della Casa Bianca, John Dean (foto sotto), che temendo di divenire il capro espiatorio dello scandalo svelò molti aspetti oscuri della vicenda, coinvolgendo il presidente.

Intanto, anche la procedura giudiziaria seguiva il suo corso e Mitchell e Haldeman furono rinviati a giudizio con l’accusa di avere ostacolato la giustizia, reso falsa testimonianza, corrotto testimoni e distrutto prove.

Nella foto sotto, udienze alla Commissione d’inchiesta del Senato sulle attività presidenziali legate al Watergate a Washington, il 18 maggio 1973. Furono trasmesse in diretta tv.

Il colpo micidiale per Nixon arrivò quando gli inquirenti scoprirono che esistevano dei nastri con le registrazioni delle conversazioni avvenute nello Studio Ovale nei giorni successivi all’effrazione al Watergate; il presidente si rifiutò di consegnarli.

Ma la Commissione si rivolse al Tribunale e il 20 ottobre 1973 la Casa Bianca dovette consegnarli. Presto ci si rese conto che nella registrazione del colloquio del 20 giugno 1972 tra Nixon e Haldeman c’era un “buco” di 18 minuti e mezzo.

Il capo dello staff della Casa Bianca accusò la segretaria di Nixon di avere cancellato “per sbaglio” quella parte di nastro. Il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Usa, all’unanimità, ingiunse a Nixon di consegnare i nastri mancanti.

Dal loro ascolto emerse che Nixon sapeva molto più di quanto aveva ammesso e che aveva discusso con i suoi uomini di come minimizzare i fatti e “distrarre” l’opinione pubblica.

Nella foto sotto, Dustin Hoffman (a sinistra, nel ruolo di Carl Bernstein) e Robert Redford (a destra, in quello di Bob Woodward) nel film Tutti gli uomini del presidente, che nel 1977 si aggiudicò quattro premi Oscar. Il film era basato sul libro omonimo scritto dai due cronisti del Washington Post nel 1974 in cui davano conto di tutte le tappe della loro inchiesta. Vinsero il premio Pulitzer.





5. Le dimissioni

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La Commissione parlamentare concluse i suoi lavori e in un rapporto di duemila pagine descrisse le responsabilità dirette di Nixon e i suoi successivi tentativi di ostacolare le indagini.

La Camera di Giustizia votò l’impeachment, con l’accusa di abuso d’ufficio e ostruzione della giustizia (il cosiddetto “insabbiamento”).

Negli USA, tuttavia, per destituire un presidente è necessario il voto favorevole di due terzi di Camera e Senato. Numeri alla mano, Nixon si sarebbe potuto salvare, ma ormai, avendo mentito alla nazione, il patto di fiducia con gli americani si era rotto e i parlamentari repubblicani sapevano che la sua permanenza alla Casa Bianca avrebbe danneggiato il partito.

Nel dubbio, per sottrarsi al procedimento che avrebbe dovuto essere votato dal Congresso, Nixon scelse di dimettersi. Primo e unico presidente ad averlo fatto nella storia degli Stati Uniti. L’8 agosto 1974 fece un discorso nel quale non ammise le sue responsabilità, ma rivendicò il suo operato come presidente.

Nella foto sotto, la lettera di dimissioni presentata dal Presidente Nixon il 9 agosto 1974; secondo la Costituzione degli Stati Uniti d'America, il presidente rimette il suo mandato nelle mani del segretario di stato, Henry Kissinger, che su un lato del foglio ha siglato lo storico documento.

Richard Nixon (1913-1994) è stato il 37° presidente degli USA. Si candidò per la prima volta alla Casa Bianca nel 1960 ma fu sconfitto dal più giovane e brillante John Fitzgerald Kennedy, mentre alle presidenziali del 1968 prevalse di poco sul democratico Hubert Humphrey, dopo una campagna elettorale funestata dagli omicidi di Robert Kennedy e di Martin
Luther King.

Nixon si propose come simbolo di quella “maggioranza silenziosa” che chiedeva ordine e benessere, dopo anni di grandi cambiamenti che avevano visto crisi internazionali, rivolte nei ghetti, contestazioni giovanili.

Il suo obiettivo principale era riunire un Paese che si era diviso sulla guerra del Vietnam e infatti pose fine a quel conflitto; Nixon siglò anche i primi importanti accordi sul disarmo con l’URSS e aprì alla Cina di Mao, con un viaggio che cambiò gli equilibri internazionali.

Travolto dallo scandalo Watergate, si dimise e il suo posto alla Casa Bianca venne preso da Gerald Ford.








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