Nei secoli, tra Scozzesi e Irlandesi non sono mancati i conflitti.
Ma esiste una questione su cui nessuno dei due popoli è disposto a scendere a patti: la paternità del whisky.
Secondo gli irlandesi, da loro si produceva “ottimo” whiskey già prima del Medioevo.
E sarebbe stato niente meno che il patrono nazionale, San Patrizio (385-461), a introdurre in Irlanda la nobile arte della distillazione, appresa in Medio Oriente durante la sua missione evangelica.
Dal canto loro, gli scozzesi sarebbero anche pronti ad accettare il fatto che il padre del whiskey irlandese sia il santo. Ma solo dopo aver precisato che era scozzese di nascita.
A far propendere per l’origine scozzese ci sarebbe comunque un documento ufficiale. Il più antico relativo alla questione: una registrazione del 1494 dell’ordine effettuato dal frate John Corr di una certa quantità di cereali per produrre l’Uisge beatha, ossia “l’acqua di vita”, nome gaelico di quello che secoli dopo diverrà il whisky.
Oggi se ne distinguono diverse varianti: il processo di produzione è sempre lo stesso, ma il prodotto finale cambia a seconda dell’acqua usata, del clima locale e persino del legno della botte in cui il distillato matura.
1. Ce ne sono tanti
Nonostante il XX secolo abbia portato alla chiusura di molte storiche distillerie a causa di una sempre più serrata lotta all’alcol e dell’introduzione di tasse sempre più pesanti, il whisky resta il distillato più amato al mondo.
Immune alle mode passeggere, è oggetto di culto per milioni di appassionati.
I Paesi dove si producono i whisky migliori e dove il consumo procapite resta importante sono Scozia, Irlanda, Stati Uniti e Canada, ma anche il Giappone, dove da anni si producono alcuni dei whisky più costosi in assoluto.
Da notare, però, che se gli ingredienti di base sono sempre gli stessi, acqua e cereali, ogni Paese ha elaborato una propria variante sul tema. Tanto che sarebbe più corretto parlare di whisky sempre al plurale.
In Scozia, per esempio, si possono distinguere almeno tre grandi famiglie:
- quelli di puro malto, che rappresentano la vera aristocrazia del whisky scozzese, ottenuti dalla lavorazione di solo malto d’orzo e che possono anche essere definiti single malt;
- i blended whisky, che rappresentano gran parte del mercato, ottenuti dalla miscelazione di whisky di cereali diversi con whisky di malto;
- i single grain che dei tre sono i meno nobili e spesso non vengono neppure imbottigliati ma usati solo nell’elaborazione dei blended. I single grain sono ottenuti dalla lavorazione di mais e orzo non maltato, a cui si possono aggiungere anche segale e grano.
Anche in Irlanda si fa una distinzione tra blended, che sono i più comuni, e single malt. Le differenze con quello scozzese sono più di carattere produttivo. È infatti leggermente diverso il processo di distillazione.
Nel caso di un whiskey irlandese avviene in distillatori, o alambicchi, molto differenti da quelli usati in Scozia. È un processo più lungo e prevede addirittura un passaggio in più. Il tipico whiskey irlandese, o pot still irish whiskey, è ottenuto sempre da una miscela di orzo e malto d’orzo.
Il termine Bourbon, invece, identifica il whiskey prodotto negli Stati Uniti. Qui in genere si usa, oltre al malto d’orzo, anche il granturco e la segale. Il nome Bourbon deriva dall’omonima contea del Kentucky, dove storicamente si producono i whiskey migliori.
Ha un fratello minore con cui si contende popolarità e fette di mercato: il cosiddetto Tennessee whiskey, che nasce dalle stesse materie prime ma con un processo produttivo molto particolare.
Dopo la distillazione, infatti, viene filtrato attraverso uno spesso strato di carbone di acero bianco. Ciò che si ottiene è un distillato particolarmente morbido e dunque più facile da bere, anche per chi non è abituato ai superalcolici, con un sentore affumicato.
Proseguendo, oltre il confine canadese il distillato non cambia troppo. Anche il canadian whisky, infatti, nasce da una miscela di mais e orzo. Mentre, se ci si spinge fino ai confini dell’Alaska si trova il cosiddetto rye whisky, ossia quello prodotto con almeno il 51 per cento di segale, rye appunto.
In Giappone, infine, si ritorna all’origine. I whisky giapponesi, infatti, sono prodotti su chiara ispirazione scozzese. Ritorna il concetto di single malt, ottenuti con un processo di distillazione simile a quello che si usa nella vecchia Scozia.
2. La maltazione, la macinazione e la distillazione
Il processo di produzione del whisky può essere sintetizzato in alcuni passaggi fondamentali.
Per prima cosa bisogna trasformare l’orzo in malto. Questo delicato processo, la cosiddetta maltazione, si rende necessaria perché il cereale di partenza è ricco di amido ma povero di zuccheri fondamentali per la produzione di alcol.
In pratica l’orzo viene messo all’interno di speciali forni dove è prima idratato e spinto a germinare. Subito dopo, nel momento in cui i semi si rompono e iniziano a crescere i germogli, viene velocemente fatto essiccare. Il riscaldamento dei semi parzialmente germogliati è uno dei momenti più importanti di tutto il processo produttivo.
Volendo semplificare al massimo, più lunga è la tostatura del malto, più intenso sarà il sapore del whisky ottenuto. Non solo. In Scozia, in particolare, dove il suolo è ricco di torba, questa viene usata come combustibile all’interno dei locali di maltazione chiamati kiln.
Il fumo prodotto dalla torba dona al malto un caratteristico profumo di affumicato per il quale gli appassionati sono disposti a spendere qualunque cifra. Quella che per molti potrebbe sembrare una insopportabile puzza di terra bagnata, per gli amanti dei whisky scozzesi torbati è il più elegante dei profumi.
Al contrario in Irlanda, dove la torba non è così comune, si preferisce utilizzare del più comune carbone vegetale per alimentare i forni di maltazione. Il risultato finale è il medesimo, ma il malto irlandese risulta meno affumicato.
Terminata la maltazione, si passa alla fase di macinazione dei cereali. Il malto d’orzo, ed eventualmente gli altri cereali previsti dalla ricetta, vengono passati in un mulino e trasformati in una farina grezza, il grist, che poi viene messa in infusione in acqua calda.
L’acqua è uno degli elementi più importanti nella produzione del whisky: leggera o pesante, ricca di torba o cristallina, determina la qualità del whisky al punto che le distillerie spesso vengono costruite proprio in corrispondenza delle sorgenti.
Il mashing, ossia la miscelazione, serve per completare il processo di trasformazione dell’amido in zucchero, iniziato con la maltazione. La poltiglia zuccherina che si ottiene si chiama wort, cioè mosto.
Ed è proprio qui che inizia la magia, ossia quel lungo processo di trasformazione chimica e fisica che in alcuni anni porterà questa insulsa materia grezza a diventare il più nobile tra tutti i distillati. Per prima cosa il wort viene fatto fermentare grazie all’aggiunta di lieviti.
Con il passare delle ore lo zucchero contenuto nel mosto viene trasformato in alcol, dando vita a una sorta di birra, il wash, con una gradazione alcolica di circa 7-8 gradi.
Nella foto sotto, il wort (mosto), la poltiglia zuccherina composta da acqua e farina di cereali da cui si parte per produrre il whisky.
Finalmente la birra può essere avviata alla distillazione. Lo scopo di questo processo è quello di estrarre alcol e aromi dal liquido di partenza. Il principio è quello dell’evaporazione. L’alcol, infatti, evapora velocemente, molto prima dell’acqua.
Quindi, applicando calore alla base dell’alambicco riempito con la “birra” di partenza, dopo pochi minuti l’alcol inizia a evaporare. I vapori alcolici vengono raccolti e raffreddati, riportando l’alcol, ormai puro, allo stato liquido.
Questo processo è molto complicato e richiede una precisione assoluta nel controllo delle temperature da parte dello stillman, ossia il mastro distillatore. Il rischio, infatti, è che un eccessivo calore faccia sfumare tutti i profumi più delicati imprigionati nell’alcol.
In Scozia questo processo si svolge in due tempi e all’interno di due diversi alambicchi. In Irlanda, invece, i passaggi della distillazione sono addirittura tre, con il risultato di ottenere un alcol ancora più puro (ma più puro non vuole dire migliore).
Al termine della distillazione si passa da una birra torbida a 7 gradi a un alcol puro e cristallino a circa 70 gradi. Purtroppo, però, da un barile di birra si ottengono poche bottiglie di alcol.
L’alcol ottenuto a questo punto non può ancora essere considerato whisky. Per raggiungere la fine del processo, infatti, deve passare ancora diverso tempo. Anni, per la precisione.
Nella foto sotto, la distillazione, ossia il processo attraverso cui si estraggono alcol e aromi dalla birra di partenza, è un’operazione che richiede grande maestria.
3. La maturazione
L’alcol ora viene diluito per abbassare lievemente la gradazione e avviato alla fase di maturazione in botte.
E qui ogni distilleria ricorre a tecniche proprie e particolari legnami per impreziosire i whisky.
Alcune distillerie, per esempio, fanno maturare i whisky in botti che hanno precedentemente ospitato altri distillati o vini liquorosi come il Porto, il Madeira o lo Sherry.
Sembrano sottigliezze ma se si pensa che il whisky dovrà rimanere in quel contenitore per legge non meno di 3 anni (e nella realtà molti ci rimangono per periodi più lunghi) è chiaro che la decisione va ponderata con cura.
In genere si considera che la maturazione ideale di un whisky non possa essere inferiore a 10 anni. Anche i locali in cui vengono fatte riposare le botti di whisky possono influire sul risultato finale.
L’umidità, il calore e la vicinanza con il mare, tanto per fare degli esempi, sono tutti elementi che possono fare la differenza. Per questo, assicurano gli esperti, non possono esistere due whisky uguali.
Anche se la ricetta di partenza è la stessa e la procedura usata per la distillazione non cambia, basta che la maturazione avvenga in due locali diversi per ottenere un prodotto con “sfumature” differenti.
Ed ecco perché nel mondo del whisky, oltre alle distillerie, giocano un ruolo fondamentale anche i commercianti che comprano i whisky grezzi e li invecchiano nei loro magazzini, indicandolo sulle etichette (e spesso facendo lievitare i prezzi).
Con gli anni il colore muta, fino ad assumere la tonalità bruna caratteristica, mentre il legno della botte contribuisce a rendere il bouquet del distillato ancora più complesso. La gradazione alcolica, infine, con il tempo si riduce lievemente, per effetto di una lenta ma costante evaporazione che fa disperdere nell’aria la cosiddetta “parte degli angeli”.
Terminata la maturazione, i diversi whisky possono essere miscelati per dar vita a dei blended, o imbottigliati direttamente. Si parla di cask strenght, per indicare un whisky messo in bottiglia a gradazione piena, in genere attorno ai 60 gradi.
Per tutti gli altri la gradazione base si aggira tra i 40 e i 45 gradi, ottenuta diluendo ulteriormente il whisky prima dell’imbottigliamento.
4. Come si beve il whisky e quale scegliere?
In Italia e in generale nel Vecchio Mondo, siamo abituati a pensare al whisky come a un piacere da centellinare dopo cena. Negli USA, al contrario, si beve tranquillamente come aperitivo, mentre si mangia e dopo.
Spesso servito in bicchieri generosi con abbondante ghiaccio. Ma come beve un whisky il vero esperto?
Partiamo dal bicchiere. Mai troppo piccolo. Non è un fatto di quantità, ovviamente, ma di facilità a percepire i profumi. In un bicchiere troppo stretto il naso non riesce ad avvicinarsi e a cogliere le sfumature migliori. Senza ghiaccio, rigorosamente.
In genere, però, viene richiesto anche un bicchiere di acqua che serve al degustatore per diluire con precisione il distillato. Sembra un controsenso ma per apprezzare al meglio un whisky è necessario aggiungere sempre un goccio di acqua perché la gradazione alcolica è sempre molto alta e l’alcol è la prima, e spesso l’unica, cosa che si percepisce. Aggiungendo un po’ di acqua, si abbassa la gradazione alcolica e si permette ai profumi di giungere meglio al naso.
Sempre in tema di profumi, il vero esperto non indugia con il naso nel bicchiere per evitare che l’alcol finisca con l’anestetizzare le mucose. Si avvicina il naso al bicchiere per un secondo o due e poi lo si allontana. Solo così si potranno cogliere le sfumature più sottili ed eleganti. Lo stesso vale per l’assaggio. Mai sorseggiare troppo avidamente il distillato.
Bisogna invece fare piccoli sorsi, quasi solo bagnare le labbra. Questi accorgimenti sono sufficienti per godersi appieno l’aroma del whisky, oltre a prolungare per diversi minuti il piacere della conversazione. Ultimo suggerimento.
Quando è possibile, per apprezzare davvero a pieno il profumo di un distillato importante come il whisky, si può conservare il bicchiere vuoto fino al giorno dopo. Tornando ad annusarlo a distanza di qualche ora, l’alcol non sarà più così percettibile e quello che rimane è solo il buono, l’aroma più puro del distillato.
Per chi si avvicina per la prima volta al mondo del whisky, non è raro sentirsi spaesati. Le differenze, come abbiamo già spiegato, sono davvero tante e notevoli e scegliendo il prodotto sbagliato si rischia di rimanere profondamente delusi.
Per chi cerca prodotti più semplici e morbidi, ad esempio, la scelta dovrà ricadere sicuramente su un whiskey americano. I Bourbon o, meglio ancora, i Tennessee whiskey sono l’ideale per iniziare.
Se invece si cercano le emozioni forti e l’alcol non rappresenta un problema, i cask strenght e i single cask, ossia i whisky che provengono da un unico barile (vera chicca per appassionati), possono essere la scelta giusta. Il loro gusto è più deciso e l’alcol dona una sensazione di calore molto piacevole.
Un mondo a parte è infine quello dei single malt scozzesi, dove ogni appassionato ha la possibilità di trovare il distillato giusto. Come per i vini, anche i whisky scozzesi hanno caratteristiche precise a seconda del luogo di provenienza.
Quelli provenienti dalle Lowlands, al confine con l’Inghilterra, giusto per fare qualche esempio, sono i più morbidi e possono essere confusi con quelli irlandesi. In genere hanno un lievissimo sentore di affumicato che deriva loro dalla particolare torba che si estrae dal suolo di quelle regioni.
I più amati whisky scozzesi, però, provengono dalle mitiche distillerie delle isole di Skye, come Talisker, e soprattutto Islay (pronuncia “ailay”), dove si trovano Bowmore, Ardbeg e Caol Ila. Qui, grazie alla vicinanza con il mare, i whisky hanno aromi pungenti e iodati.
Possono essere abbastanza torbati e, se non si è abituati a quel genere di sapore, possono risultare un po’ estremi. E per concludere ci sono i whisky delle Highlands, che è la regione più estesa.
Qui si trova davvero un po’ di tutto. I più conosciuti e apprezzati prodotti sono quelli che provengono dallo Speyside, la regione che prende il nome dal fiume Spey e che riunisce alcune delle distillerie più famose di tutta la Scozia.
Il consiglio è solo uno: assaggiare, assaggiare e assaggiare ancora. Con il tempo e un po’ di pazienza, chiunque può diventare un vero esperto.
5. Sette curiosità
- QUANDO SI PARLA DI SCOTCH?
Una commissione reale ha ufficializzato il termine Scotch nel 1908.
Successivamente, nel 1988, fu approvato lo Scotch Whisky Act, che fissa con precisione le regole da seguire per produrre vero whisky scozzese.
Il whisky si produce solo con acqua e una miscela di cereali, maltati e non. La distillazione deve avvenire in Scozia e la gradazione alcolica finale, prima della diluizione, non può essere superiore a 94,8 gradi.
La maturazione, in fusti, non può durare meno di 3 anni e, al momento dell’imbottigliamento, la gradazione del whisky non può essere inferiore a 40 gradi.
- DA DOVE HA ORIGINE LA PAROLA WHISKY?
Le origini della parola whisky vanno ricercate negli antichi dialetti delle isole britanniche. Alla base di tutto, infatti, sembra che ci sia la parola gaelica uisge (o uisce) che significa “acqua”, a cui si aggiunge beatha, ossia “di vita”. Il risultato, uisge beatha (o uisce beatha), è il termine usato in origine per indicare l’alcol prodotto da cereali. E da lì, nel corso di secoli, si è arrivati all’attuale whisky.
- SI SCRIVE WHISKY O WHISKEY?
La parola whisky può essere scritta con o senza una “e” aggiuntiva. Quindi whisky (al plurale whiskies) o whiskey (al plurale whiskeys). La differenza è presto spiegata. La parola whisky si usa per indicare i distillati prodotti in Scozia, in Canada e in Giappone. La versione whiskey, invece, indica un distillato di origine irlandese o americana, come il Bourbon whiskey e il Tennessee whiskey.
- QUANTI ANNI OCCORRONO PER FARE UN BUON WHISKY?
I whisky più costosi sono quelli che hanno subito un periodo più lungo di maturazione. Ma dato che la stragrande maggioranza dei prodotti in commercio sono frutto del blend di botti diverse, spesso con invecchiamenti diversi, il numero riportato in etichetta è puramente indicativo.
Fa riferimento solo all’invecchiamento del whisky più giovane del blend. Un whisky di 12 anni, per esempio, indica che il distillato più giovane presente in quella bottiglia ha 12 anni. Ma nulla vieta al produttore di usare anche una parte di whisky più vecchio per aggiungere complessità e piacevolezza al prodotto finale.
In genere l’invecchiamento ideale varia a seconda del tipo di whisky. Per un Bourbon o un whiskey irlandese, per esempio, 15 anni sono più che sufficienti per ottenere un ottimo prodotto.
Se si punta all’eccellenza in Scozia, si può arrivare a oltre 30 anni di invecchiamento. Questi, però, sono parametri indicativi. Poi è il gusto personale a guidare le scelte di ognuno.
- FA BENE AL CUORE?
Non con certezza. In anni recenti diversi studiosi hanno evidenziato come alcune sostanze contenute nel whisky invecchiato “possano” far bene alla salute: in particolare, l’acido ellagico, un antiossidante naturale capace di attenuare i segni dell’invecchiamento.
Consumato in modeste dosi, inoltre, sembra che il whisky abbia un effetto benefico sul cuore e sulla circolazione in genere. Sarebbe dunque efficace anche nella prevenzione delle ischemie.
- DA UNA STORIA D’AMORE È NATO IL WHISKY GIAPPONESE
Le origini del whisky giapponese sono relativamente recenti e sono legate a due uomini: Masataka Taketsuru e Shinjiro Torii, quest’ultimo fondatore della più conosciuta distilleria del Giappone, la Suntory. Taketsuru, giovane studente di chimica all’università di Glasgow, si innamorò e sposò una giovane scozzese. Con lei, nel 1921, ritornò in patria dove venne assunto da Shinjiro Torii.
Un anno più tardi i due diedero vita alla prima distilleria di whisky giapponese nella valle dei Yamazaki presso Kyoto. Poi, nel 1934, Shinjiro Torii fondò un’altra distilleria, la Nikka, sull’isola di Hokkaido, nel Nord del Giappone.
Lo stile dei distillati giapponesi è molto simile a quello dei migliori prodotti scozzesi. In genere, però, vengono considerati particolarmente fini ed eleganti, grazie alla purezza delle acque sorgive usate.
- GLI APPASSIONATI? SI DIVIDONO IN 2 CATEGORIE
Uniti nell’amore per il whisky, gli appassionati si dividono quando si tratta di scegliere tra single malt o blended whisky. I primi sono spesso più estremi e possono suscitare grandi amori o grandi delusioni.
I secondi sono più eleganti e spesso costruiti per piacere a un pubblico più ampio (non a caso i secondi rappresentano una fetta di mercato decisamente più grande). Impossibile prendere una posizione netta.
Ogni parte ha le sue ragioni. Se la distillazione è una scienza, infatti, il blending è un’arte. E il blender, ossia colui che annusa migliaia di campioni e crea le miscele giuste, è appropriatamente considerato un artista.