5 esperimenti da non rifare

Terrorizzare bimbi, vivere isolati sotto terra, mettere a confronto tre Gesù…

Ecco 5 esperimenti tra i più discutibili: per cavie e scienziati.

1. Il meeting dei Messia? Botte, urla e lacrime

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Avete mai detto a qualcuno che “si crede un dio"? Per tre pazienti dello psicologo Usa Milton Rokeach (foto accanto) la frase era, purtroppo, reale...

Riguardava infatti tre schizofrenici, Leon, Joseph e Clyde, tutti convinti di essere Gesù.

Nel 1959, Rokeach li riunì per 2 anni nell’ospedale psichiatrico di Ypsilanti, in Michigan (Usa): sperava che si sarebbero resi conto di non essere Cristo confrontandosi con altri che avevano lo stesso disturbo.

Ma non andò così. Anzi, i tre litigavano su chi fosse più santo, arrivando - senza porgere l’altra guancia - a picchiarsi.

In uno scontro, un "Cristo" urlò all’altro: «Dovresti adorarmi!» e l’altro rispose: «Non ti adorerò, sei solo una creatura, dovresti svegliarti e riconoscere i fatti!».

Ognuno si era creato spiegazioni per la presenza di altri Gesù: uno era convinto che gli altri fossero controllati da macchine, uno che volessero darsi importanza, il terzo pensava che gli altri fossero pazzi.

Rokeach cercò di manipolare le illusioni dei suoi pazienti. Leon era convinto di essere sposato a una creatura alta 2 metri che chiamava "Signora Donna Yeti".

Rokeach, allora, fingendo di essere la Yeti, scrisse a Leon varie lettere, facendolo commuovere. Ma quando in una lettera gli chiese di cambiare nome, Leon sentì minacciata la sua identità e arrivò vicino al divorzio.

Alla fine, ognuno era ancora convinto di essere il figlio di Dio. Rokeach, anni dopo, scrisse: "Non avevo diritto, anche nel nome della scienza, di giocare a essere Dio e di interferire con le loro vite quotidiane".

2. Convivenza hard con un delfino

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L’amore per gli animali è un’ottima cosa, purché non si esageri.

Come è successo nell’esperimento organizzato da John C. Lilly (foto accanto), neuroscienziato Usa: voleva verificare se i delfini potessero imparare a parlare come fanno i bimbi a contatto con le madri.

Così, per 10 settimane, nel 1965, la sua assistente Margaret Howe visse col delfino Peter in una “casa” al Communication Research Institute a Saint Thomas (Isole Vergini), piena d’acqua a un’altezza in cui Margaret poteva camminare e Peter nuotare.

Mangiavano, dormivano, giocavano mentre la ricercatrice incoraggiava i suoni più “umani" di Peter e cercava di insegnargli semplici parole.

Presto fu però chiaro che Peter non voleva una mamma, ma una fidanzata. Iniziò a corteggiare Margaret mordicchiandola sulle gambe. Non corrisposto, diventò più aggressivo, colpendola con naso e pinne.

Lei cerco di difendersi indossando stivali e respingendo le avance con una scopa, poi lo spedì in mare perché potesse incontrare qualche delfina. Al ritorno Peter ricominciò il corteggiamento, anche esibendo i genitali.

Finché Margaret cominciò... ad accarezzarlo nelle parti intime. Nonostante la svolta hard, Lilly voleva continuare lo studio per un ano con Margaret e un altro delfino, ma era troppo costoso.

Lilly - sempre più isolato dalla comunità accademica - provò anche a dare Lsd ai delfini.

3. Piangi, piangi, piccolo Albert!

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Il piccolo Albert era un bel bimbo tranquillo di 11 mesi: nei test fissava senza scomporsi maschere, animali, giornali in fiamme.

Un soggetto perfetto per lo psicologo John B. Watson (foto accanto), che voleva... fargli paura, condizionandolo a temere uno stimolo in un test condotto nel 1920 alla Johns Hopkins University (Usa).

Albert fu lasciato con un topolino bianco. Appena provava a toccarlo, Watson mollava un colpo con un martello su una sbarra di metallo, producendo un rumore che lo spaventava.

Il piccolo già dalle prime volte si agitò, ma Watson continuò in diverse sessioni a colpire la sbarra, inflessibile. Il test fu un successo (per lo scienziato, almeno): ormai il piccolo scoppiava a piangere appena vedeva il roditore, associandolo al rumore.

Non solo: al termine aveva paura di fronte a conigli, cani, pellicce, maschere di Babbo Natale.

Watson voleva anche provare a togliere il condizionamento, cancellando le paure del bimbo, ma la mamma si trasferì (non si sa che conseguenze il “piccolo Albert" abbia avuto: nel 2009 una ricerca lo ha identificato in Douglas Merritte, morto nel 1925).

Oggi il test, divenuto celebre, non sarebbe considerato etico.

4. Un assaggino di vomito?

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Stubbins Ffirth (1784-1820, foto a sinistra) non aveva dubbi: la febbre gialla non era contagiosa.

Perché altrimenti lui, medico a contatto coi malati, non si era ammalato?

E perché colpiva la sua città, Filadelfia, soprattutto in estate? All’epoca, infatti, si doveva ancora scoprire come si trasmetteva la febbre gialla: solo nel 1881 il dottor Carlos Finlay ipotizzò correttamente che ciò avvenisse attraverso le zanzare (Aedes aegypti), vettori del virus, e non per contatto diretto.

Ffirth aveva invece concluso che la malattia era causata dall'"aumentata eccitazione” e dal calore dell’estate. E volle provare la sua tesi su di sé: “Il 4 ottobre 1802 mi sono procurato un’incisione sul braccio sinistro... Ho introdotto nell’incisione un po’ di vomito nerosgorgato dalla bocca di un paziente” (il “vomito nero”, di sangue, è un sintomo tipico).

Ffirth le provò tutte. Si mise il vomito sugli occhi. Lo scaldò e ne inalò i vapori: arrivò a riempirne una stanza, restando a respirarli fino alla nausea, ma senza contagiarsi.

Poi iniziò a bere il vomito, diluito con acqua e puro: “È probabile che, se prima dei due ultimi esperimenti, non mi fossi abituato ad assaggiarlo e adannusarlo, lo avrei vomitato” scrisse.

Infine testò altri liquidi corporei, mettendo su incisioni della pelle saliva, urina, sangue. Si provocò infiammazioni ma non si contagiò. E considerò provata la sua teoria: la febbre gialla non era contagiosa.





5. Sepolto vivo per 6 mesi

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Passereste mesi in solitudine assoluta, sotto terra, al buio? Michel Siffre, geologo francese, decise di provarci... per la scienza.

Negli anni della Guerra fredda e della corsa allo spazio, ci si chiedeva infatti come gli umani avrebbero reagito all’isolamento estremo in spazi ristretti. Siffre decise di rispondere a queste domande sperimentandolo su se stesso.

Dal 16 luglio 1962, visse per due mesi in totale isolamento, senza orologi, sepolto a 130 m di profondità in un ghiacciaio sotterraneo nell’abisso Scarasson (sulle Alpi, in Piemonte), con temperature prossime allo zero e il 98% di umidità.

Soffrì di ipotermia, ma “impazzì" una sola volta, iniziando a cantare a squarciagola e a ballare il twist. Quando riemerse, il 14 settembre, era convinto che fosse il 20 agosto: aveva perso il conto dei giorni.

Verificando ciò che voleva sapere, cioè come il corpo si comporla senza l’alternanza naturale giorno/notte: il corpo si era assestato un ciclo sonno-veglia e un giorno per lui durava circa 24 ore e mezza (registrato dagli assistenti in superficie, a cui comunicava ciò che faceva).

E, nel 1972, ci riprovò: passò 205 giorni nella Midnight Cave, una grotta in Texas, in un esperimento sponsorizzato dalla Nasa. Si abituò alla scomodità degli elettrodi fissati alla testa, che dovevano monitorare i parametri fisiologici; faceva esperimenti, ascoltava dischi, leggeva Platone.

Eppure, attorno all’80° giorno cominciò a cedere: divenne depresso, soprattutto dopo che gli si ruppe il giradischi e la muffa cominciò a rovinare riviste, libri, equipaggiamento scientifico. Pensò al suicidio.

Per un po’, cercò compagnia in un topino che si aggirava tra le provviste, ma quando provò a prenderlo con una casseruola per farne il suo animale da compagnia lo schiacciò e lo uccise...

Nel suo diario, scrisse: “La desolazione mi schiaccia". Verso la fine dell’esperimento era così stordito che prese una serie di scosse attraverso gli elettrodi, senza pensare di staccare subito i fili.

Siffre comunque resta orgoglioso delle sue ricerche, sicuramente utili per preparare le esperienze nello spazio. E. nel 1999, è tornato per 69 giorni giorni in una grotta francese, per vedere come avrebbe reagito all'età di 60 anni.








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