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La verità sul pianeta: quanto ha ragione Greta?

Quanto ha ragione Greta? Totalmente, risponde la scienza, pur sottolineando che l’allarme era già stato dato ben prima della sua entrata in scena.

Secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno 7 milioni di persone muoiono per l’esposizione all’inquinamento atmosferico.

Il 90 per cento di queste morti si verifica nelle regioni a basso o medio reddito, soprattutto in Africa e in Asia, seguite dai territori del Mediterraneo orientale.

Il fenomeno però riguarda anche l’Europa e le Americhe, soprattutto gli abitanti delle aree urbane. In Italia ogni anno sono invece oltre 60mila le morti premature dovute all’inquinamento atmosferico, come si legge nel rapporto Mal’aria di città 2020 di Legambiente.

Sono più esposte all’inquinamento le fasce di persone meno abbienti e quelle più vulnerabili, cioè i bambini e gli anziani; i primi perché hanno un sistema respiratorio e cardiovascolare ancora in fase di sviluppo e i secondi perché quasi sempre sono affetti da patologie croniche.

L’inquinamento ha anche un impatto economico notevole sulla spesa sanitaria e sociale se si considerano i costi per le cure, le visite mediche, le giornate di lavoro perse.

E non si può scegliere se salvare l’ambiente dall’inquinamento o fermare il riscaldamento globale: si tratta di due facce della stessa medaglia e sono una priorità assoluta per assicurare un futuro ai nostri figli.

Possiamo ancora riuscirci, ma non c’è più tempo da perdere.

 

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1. Parlano i numeri

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Era il 20 agosto 2018 quando la quindicenne svedese Greta Thunberg decise di non andare più a scuola fino al 9 settembre, giorno delle elezioni politiche: voleva che il governo riducesse le emissioni di anidride carbonica come previsto dall’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.

Ogni giorno andava a sedersi davanti al Parlamento reggendo un cartello con la scritta Skolstrejk för klimatet, Sciopero dalla scuola per il clima.

Da allora Greta si è fatta conoscere in tutto il mondo per aver inaugurato le manifestazioni studentesche Fridays for Future, Venerdì per il futuro, che chiedono ai governi azioni più concrete per salvare il pianeta dall’emergenza climatica e ambientale.

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Ma che cosa pensa di lei e della mobilitazione di così tanti giovani la scienza ufficiale? Per quanto riguarda la mobilitazione dei giovani la scienza ritiene che sia qualcosa che ci si attendeva da anni e che è arrivato, purtroppo, tardivamente.

I ragazzi avevano la possibilità di mobilitarsi già oltre vent’anni fa, quando la dodicenne canadese Severn Suzuki pronunciò il famoso discorso alle Nazioni Unite che zittì tutti: era il 1992.

Forse, complice l’assenza di Internet, non ha avuto la risonanza che meritava. Gli elementi scientifici, però, c’erano già tutti. Già dal rapporto Charney degli scienziati americani del 1979 ci si conosce la pericolosità della situazione in atto.

Quanto a Greta, si ritiene positiva la sua figura com’è positivo il movimento dei ragazzi in Italia, ma ora inizia il vero lavoro. Questa presa di posizione non significa che il problema si stia avviando alla risoluzione.

Nonostante un anno di attivismo da parte di Greta, la conferenza sul clima di Madrid dello scorso dicembre 2019 si è chiusa con un raggiungimento minimale degli obiettivi.

In fin dei conti, gli interessi economici e le opportunità politiche in gioco sono troppo grandi, i ragazzi non sono ancora la forza d’urto sociale di cui abbiamo bisogno. Occorre che accanto a loro ci sia tutta la società.

Sono decine di migliaia gli studi scientifici che negli ultimi anni hanno fornito, con rigore, i numeri della crisi climatica e ambientale della Terra.

Il clima è cambiato anche nel passato, ma per cause naturali – le caratteristiche dell’orbita terrestre, le variazioni dell’attività solare, le eruzioni vulcaniche – e con tempi molto più lunghi, che hanno consentito all’uomo di adattarsi e di trovare un equilibrio.

Il riscaldamento attuale – con temperature medie globali aumentate velocemente di 1°C nell’ultimo secolo – è invece dovuto alle crescenti emissioni di gas serra, prima di tutto l’anidride carbonica (CO2) che deriva dall’uso di combustibili fossili e dalla deforestazione, seguita dal metano (CH4) emesso soprattutto dalle flatulenze degli animali negli allevamenti intensivi.

Il rapporto annuale del Global Carbon Project, consorzio di decine di scienziati e laboratori internazionali, indica in 36,8 miliardi di tonnellate le emissioni totali di CO2 alla fine del 2019. Mai così alte da almeno 3 milioni di anni.

«Questi dati sono basati su oltre un secolo di rigorosa ricerca scientifica che inizia nel 1896 con il Nobel per la chimica svedese Svante Arrhenius e si consolida dopo il 1988 con la costituzione dell’IPCC, il Comitato Intergovernativo delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, la più autorevole fonte di conoscenza condivisa sul clima globale», scrive Luca Mercalli nel suo ultimo libro Il clima che cambia.

2. Gli effetti pragmatici

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- Morire di caldo
I modelli climatici prevedono che, se non riduciamo subito le emissioni, entro la fine di questo secolo le temperature medie globali aumenteranno di oltre 4 °C e di 10 °C e più nell’Artico.
Il risultato: ondate di caldo mortali, diffusione di malattie tropicali, tempeste e nubifragi più violenti (perché con il caldo l’acqua evapora più rapidamente dagli oceani e l’aria può contenere più vapore acqueo), alternati a lunghe siccità, penalizzeranno le produzioni agricole e metteranno a rischio il sostentamento di molte popolazioni.
I ghiacciai fonderanno (la superficie di quelli alpini si è già dimezzata in 150 anni) e i mari si alzeranno di almeno un metro (già gli oceani crescono di 3,5 millimetri all’anno) sommergendo città costiere e pianure: Venezia, New York, Giacarta, Mumbai.
Tutto questo scatenerà anche migrazioni di massa e tensioni geopolitiche, oltre che guerre per l’accesso alle risorse sempre più limitate, prime fra tutte l’acqua potabile e quella per irrigare le terre coltivabili, che saranno sempre di meno.
Ai timori per i cambiamenti climatici si aggiungono quelli per il peggioramento della qualità dell’aria, dell’acqua e del suolo, con l’abnorme accumulo di sostanze inquinanti.

 

- Oceani pattumiera
Non va meglio nei mari, dove si trovano idrocarburi rilasciati da navi e piattaforme petrolifere, sostanze tossiche da impianti industriali, pesticidi, fino alle plastiche, oggi “osservate speciali”.
Nel 2017 l’ONU ha dichiarato che ci sono 51mila miliardi di microplastiche nei mari. Sono minuscoli frammenti di materiale plastico, di solito inferiori ai 5 millimetri (la maggior parte misura poche decine di micron), che provengono soprattutto dalla degradazione di oggetti più grandi gettati nel mare (bottiglie, sacchetti, reti da pesca), ma anche dal lavaggio dei capi sintetici, dall’abrasione degli pneumatici durante la guida, dai cosmetici, dai prodotti per la pulizia, dalle vernici e dai prodotti petroliferi.
Le microplastiche mettono a rischio gli ecosistemi marini: entro il 2050, se continuiamo così, il peso delle plastiche presenti nei mari sarà superiore a quello dei pesci. Ma possono anche finire nel nostro cibo, attraverso la catena alimentare.
Tra i prodotti più contaminati, secondo le ultime ricerche, ci sono i molluschi. Microplastiche sono state trovate anche nell’acqua di rubinetto, nella birra, nel miele.
Non si conoscono ancora gli effetti di questi materiali sulla salute, ma si ipotizza che potrebbero interferire con il sistema endocrino, oltre che veicolare sulla loro superficie altre sostanze tossiche o batteri.

 

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- Suoli erosi e avvelenati
Sempre peggio anche sotto i nostri piedi. L’industrializzazione, l’intensificazione dell’agricoltura, l’estrazione mineraria, lo smaltimento nel terreno di volumi sempre maggiori di rifiuti urbani e le guerre hanno lasciato in tutto il pianeta un’eredità pesante nel suolo, sempre più contaminato ed eroso.
Gli inquinanti finiscono nelle falde acquifere, si accumulano sui prodotti coltivati e negli animali allevati, quindi arrivano nei nostri piatti.
Un nuovo rapporto della FAO, L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, stima che ogni mezz’ora vengano persi 500 ettari per erosione, inquinamento o cementificazione. Mentre per formare 1 centimetro di suolo fertile occorrono dai 100 ai 1.000 anni.

 

- Aria irrespirabile
Il 92 per cento della popolazione mondiale, infatti, respira aria inquinata, secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Tra gas e particolato, cioè le particelle sospese come aerosol nell’atmosfera (in inglese particulate matter, da cui la sigla PM), l’elenco delle sostanze che respiriamo ogni giorno è lungo e sono numerose le sorgenti che le emettono (vedi tabella sotto).
Il contributo delle fonti naturali di inquinamento – come eruzioni vulcaniche, incendi, erosione delle rocce, diffusione di pollini e spore – è molto inferiore a quello delle fonti antropiche che derivano dalle attività umane, con in testa il traffico veicolare e gli impianti di riscaldamento.
Secondo l’OMS le polveri sottili più pericolose, quelle con diametro inferiore ai 2.5 micron (millesimi di millimetro), eccedono i livelli di sicurezza standard. L’Italia ha un primato negativo segnalato dall’Agenzia europea dell’ambiente: la Pianura Padana è l’area più inquinata d’Europa.
Colpa anche della sua conformazione, che favorisce il ristagno dell’aria.

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3. Relazione causa-effetto e attacco a cuore e polmoni

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Oggi non vi sono più dubbi sul fatto che l’inquinamento atmosferico rappresenti un rischio per la salute umana.

Numerosi studi hanno infatti dimostrato che esiste una relazione causa-effetto tra l’inquinamento e una serie di patologie che ci possono colpire a breve e a lungo termine.

Non è però sempre facile distinguere tra gli effetti nocivi delle sostanze inquinanti e il fatto che le medesime malattie possano avere cause diverse dall’inquinamento.

Si è visto, soprattutto grazie a studi statunitensi su campioni molto ampi di popolazione seguiti per lungo tempo, che la diminuzione dell’inquinamento atmosferico nelle città è associata alla diminuzione della mortalità: questo è un rapporto causa-effetto indiscutibile.

L’apparato respiratorio e quello cardiovascolare sono i principali bersagli dell’inquinamento atmosferico. Ci sono dati biologici accertati che ci portano a concludere come polveri e gas inquinanti determinino uno stato di infiammazione che conduce a gravi patologie, anche mortali: le malattie respiratorie, quelle cardiovascolari (infarto, morte improvvisa, arresto cardiaco) e i tumori.

Il nostro apparato respiratorio è particolarmente sensibile agli inquinanti perché è rivestito di mucosa che, da un lato, serve a lubrificare gli organi, ma dall’altro favorisce l’ingresso delle sostanze tossiche nelle vie aree anche profonde, innescando reazioni infiammatorie responsabili di broncopatie, asma, ridotta funzionalità polmonare.

Inoltre, molti inquinanti velocizzano l’accumulo di placche nelle arterie e hanno effetti infiammatori sul cuore. Non a caso, l’American Heart Association fa notare che nelle aree metropolitane più inquinate aumentano le ospedalizzazioni e le morti legate a problemi cardiaci.

L’inquinamento atmosferico nel suo complesso è classificato nel Gruppo 1 delle sostanze sicuramente cancerogene secondo la IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro.

 

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Curiosità: Lo sapevate che i luoghi chiusi sono più inquinati dell’esterno?
Negli ambienti chiusi l’inquinamento può superare anche di 10 volte quello esterno. Agli inquinanti esterni, che al chiuso restano intrappolati e si accumulano, si aggiungono quelli prodotti dai materiali (mobili, colle, tessuti, candele), dalle attività umane (cottura dei cibi, riscaldamento con stufe e caminetti, pulizia con detergenti e disinfettanti volatili, uso di profumatori) e dalla presenza di persone e animali con il loro carico biologico di virus, batteri, funghi e acari che proliferano soprattutto con l’umidità eccessiva. 
Il consiglio degli esperti è di cambiare aria almeno due volte al giorno e, se si abita in una città inquinata, di farlo al mattino presto e alla sera, quando fuori il traffico è meno intenso e lo smog diminuisce.

 

 

4. Polveri insidiose, metabolismo in tilt

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- Polveri insidiose
Un gruppo di esperti riuniti nel 2017 dalla prestigiosa rivista medica inglese The Lancet per studiare gli effetti dell’inquinamento sulla salute ha pubblicato la sintesi più aggiornata degli studi disponibili oggi.
Le associazioni causali più forti sono state osservate tra l’inquinamento da particolato PM2.5 e le malattie cardiovascolari e polmonari: infarto del miocardio, ipertensione, insufficienza cardiaca, aritmie e mortalità cardiovascolare, malattia polmonare ostruttiva cronica e cancro del polmone.
Il PM2.5 è formato da particelle di sostanze inquinanti – che assorbono e trasportano anche metalli pesanti – con diametro inferiore a 2,5 micron (meno di un venticinquesimo del diametro di un capello), sospese nell’aria, che penetrano negli alveoli polmonari, cioè nelle “cellette” del tessuto polmonare responsabili degli scambi tra ossigeno respirato e sangue.
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- Metabolismo in tilt
Uno studio dell’Università di Shanghai (Cina) su un campione di 55 studenti universitari cinesi ha evidenziato come i giovani che vivevano in aree urbane più inquinate, soprattutto da fonti industriali, avevano nel sangue livelli più elevati di ormoni (cortisolo, cortisone, epinefrina, norepinefrina) che portavano ad alterazioni del metabolismo, ma anche maggiori concentrazioni di zuccheri e grassi.
Una ricerca più vasta condotta da scienziati statunitensi della Washington University di St. Louis, Missouri (USA), ha mostrato una forte correlazione tra alte concentrazioni di PM2.5 nell’aria e l’insorgenza di diabete tipo 2, insulino-resistente. Secondo gli autori l’inquinamento atmosferico contribuirebbe al 14 per cento di tutti i casi di diabete nel mondo.


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- E il cervello?
Dati ancora preliminari, ma abbastanza solidi dal punto di vista epidemiologico, stanno evidenziando che l’inquinamento determina anche danni neurologici, facendo registrare un aumento dei casi di Alzheimer e altre demenze, di Parkinson e sclerosi multipla.
Per esempio, nanoparticelle di magnetite, un ossido di ferro tipico delle zone ad alto tasso di inquinamento che crea danni alle cellule nervose, sono state trovate in quantità elevate nel cervello di persone decedute, di età compresa fra 3 e 85 anni, provenienti da Città del Messico e Manchester: i dati sono di uno studio dell’Università di Lancaster.
Un lavoro di statistica pubblicato da ricercatori delle Università di Pechino e di Washington che hanno studiato un campione di oltre 25mila persone residenti in 162 province cinesi, ha mostrato che l’esposizione prolungata a gas inquinanti, come anidride solforosa e biossido di azoto, e al PM10 riduce le prestazioni cognitive nella risoluzione di problemi matematici e le capacità verbali, soprattutto con l’avanzare dell’età.
Ma nel mirino degli scienziati ci sono anche autismo e iperattività: sembra, da alcune osservazioni preliminari, che l’inquinamento possa favorirli.


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5. 9 azioni che fanno bene alla terra

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Due sono gli obiettivi: dobbiamo mitigare il rischio climatico riducendo le emissioni di gas a effetto serra e, poiché una parte del riscaldamento è inevitabile, dobbiamo prepararci ad affrontare nuove condizioni ambientali senza collassare.

I cittadini pensano che la soluzione del problema sia delegata ai politici e ai tecnici. La politica agisce se è sostenuta dalla popolazione e la riduzione delle emissioni dipende in larga misura dalle azioni individuali.

Ecco 9 azioni individuate dalla Università di Lund (Svezia) per diminuire le emissioni annuali pro capite di CO2 equivalente, un’unità di misura che pesa insieme emissioni di gas serra diversi con differenti effetti alteranti sul clima (climalteranti).

Per esempio, gli effetti di 1 tonnellata di metano equivalgono a quelli di 21 tonnellate di CO2. La prima, legata alla natalità, è stata molto discussa.

1. Avere un figlio in meno: comporta svariate decine di tonnellate di emissioni in meno.
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2. Ricavare elettricità da fonti rinnovabili o installare pannelli fotovoltaici sul proprio tetto: assicura un rendimento attorno al 20 per cento e costi in diminuzione.
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3. Evitare i lunghi voli aerei intercontinentali, spesso usati per viaggi di piacere in luoghi esotici o per convegni di lavoro che si potrebbero svolgere in teleconferenza.
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4. Vivere senz’auto, noleggiandola solo per spostamenti in zone non servite dai trasporti pubblici.
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5. Scegliere un'auto più efficiente (per esempio un’ibrida ma di potenza moderata) o elettrica, evitando i SUV: nel loro ciclo di vita, incluso la produzione delle batterie, oggi i veicoli elettrici emettono il 17-30 per cento di gas serra in meno rispetto a quelli a benzina o gasolio.
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6. Fare il bucato in acqua più fredda e asciugarlo all’aperto anziché con un’asciugatrice elettrica.
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7. Separare i rifiuti e conferirli agli appositi contenitori.
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8. Adottare una dieta in prevalenza vegetale, riducendo al minimo soprattutto la carne bovina: ha un forte impatto a causa dell’emissione di metano dagli allevamenti e della deforestazione per fare posto a pascoli o a coltivazioni per mangimi.
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9. Sostituire le vecchie lampadine a incandescenza con altre nuove a risparmio energetico (per esempio a fluorescenza oppure a led).
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Curiosità: Chi inquina di più?
Inquinano di più USA, Canada e Australia, se consideriamo la CO2 pro capite emessa all’anno. Gli USA (330 milioni di persone) emettono 6,6 miliardi di CO2 annue, 20 pro capite.
La Cina (1,5 miliardi di persone) emette 8,4 t di CO2 annue pro capite.
E IN ITALIA? Le fonti rinnovabili coprono un terzo dei consumi elettrici. Siamo il quinto Paese al mondo per potenza fotovoltaica installata, le emissioni serra sono diminuite del 17,4% tra 1990 e 2017. Ma ancora consumiamo troppo.

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