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5 meravigliosi miti greci senza tempo che non smettono di affascinare

Quando, nel 1863, venne ritrovata la magnifica Nike di Samotracia, qualcuno disse che era priva di testa e braccia non per caso.

Dalla civiltà che l’aveva creata noi avevamo già ereditato sia il pensiero, sia la capacità di realizzare opere artistiche secondo il suo modello.

Almeno idealmente, quella testa e quelle braccia le custodivamo già da tempo immemorabile, non avendo mai smesso di ragionare secondo le lezioni di Aristotele e di Platone, o di plasmare l’arte seguendo i dettami di Fidia e di Prassitele.

Se l’Occidente ha creato una civiltà diversa da ogni altra è per merito della cultura greca, del suo mito, della sua storia. Ogni volta che dobbiamo inventare una parola nuova per descrivere un concetto scientifico, è alla lingua greca che attingiamo.

Eppure, di questo popolo straordinario, che tanto di prezioso ci ha lasciato in eredità, spesso non ricordiamo che poche nozioni di scuola.

Oggi abbiamo voluto raccontare 5 meravigliosi miti greci senza tempo che non smettono di affascinare. Buona lettura.

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1. TESEO E IL MINOTAURO

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Teseo, Arianna e il Minotauro intrecciano le loro avventure in un dedalo fatto di tradimenti, appetiti bestiali e sacrifici umani. Uno dei miti più dibattuti e indagati di ogni tempo.

Mai far adirare un dio, soprattutto se potente come Poseidone: questa la lezione che Minosse imparò nella maniera più crudele e terribile quando si rifiutò di sacrificare il toro promesso al signore del mare in cambio dell’aiuto ricevuto per diventare re di Creta.

Secondo le versioni più colorite del mito, fu proprio per vendicarsi dell’affronto che Poseidone instillò nella moglie del sovrano, Pasifae, la bruciante passione per un toro giunto sull’isola dal mare.

Per soddisfare il suo desiderio bestiale, Pasifae si fece costruire una giovenca di legno da Dedalo e Icaro, i due grandi architetti del regno. Quella folle unione generò un figlio, che aveva sembianze umane nella metà inferiore del corpo, mentre in quella superiore era in tutto e per tutto simile a un toro.

Al re bastò un’occhiata per capire: la sua ira si rivolse ai complici della moglie, Dedalo e Icaro, che divennero suoi schiavi, mentre Pasifae e la creatura furono risparmiati.

La donna si prese cura del figlio, che chiamò Asterion, e lo allevò fin quando non crebbe abbastanza da iniziare a mostrare la sua spaventosa forza e, soprattutto, il suo appetito di carne umana.

Non osando ucciderlo per non inimicarsi ulteriormente Poseidone, Minosse stabilì che il Minotauro (così veniva chiamata la creatura) fosse rinchiuso in un luogo da cui fosse impossibile uscire. Così, ordinò a Dedalo e Icaro di costruire un intricato labirinto.

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Nel frattempo, un’altra tragedia colpì Minosse, quando il figlio Androgeo venne ucciso. Il re incolpò gli Ateniesi dell’accaduto, costringendoli a pagare un risarcimento per la perdita subita: ogni anno (ogni nove, secondo altre fonti), la città avrebbe inviato a Creta sette giovinetti e sette giovinette da sacrificare agli appetiti del Minotauro.

Per due volte Atene pagò il tributo imposto da Minosse, ma alla vigilia della terza una voce si levò a corte: era quella di Teseo, figlio del re Egeo, che si offriva volontario per essere inviato a Creta. Il suo piano era quello di affrontare e uccidere il Minotauro, ponendo fine a quella disumana tradizione.

Così, partì alla volta della città nemica, dove giunse insieme ai fanciulli destinati al sacrificio. Teseo era un giovane di straordinaria bellezza e le figlie di Minosse, Arianna e Fedra, si innamorarono di lui non appena lo videro.

La prima, in particolare, non sopportando l’idea che il suo mostruoso fratellastro lo divorasse, si recò da Dedalo, pregandolo di svelarle il modo per uscire dal labirinto e rivelandolo subito dopo a Teseo.

Entrato nel dedalo, l’eroe legò allo stipite della porta l’estremità di un gomitolo di lana e cominciò ad avanzare svolgendo il filo, in modo da ritrovare facilmente l’uscita.

Una volta giunto al cospetto del Minotauro, Teseo lo affrontò: la lotta che ne seguì fu aspra e violenta, ma alla fine fu lui ad avere la meglio, uccidendo il mostro ed emergendo vincitore dal labirinto.

Nonostante la vittoria dell’eroe, il finale del mito di Teseo e il Minotauro riserva una nota dolorosa. Si narra, infatti, che dopo un lungo viaggio di ritorno, finalmente in vista di Atene, Teseo fosse a tal punto sopraffatto dalla gioia di rivedere l’amato padre Egeo e ansioso di presentargli la moglie Fedra (Arianna si era fermata a Naxos, andando in sposa a Dioniso), da dimenticarsi che l’anziano genitore, prima di partire, gli aveva chiesto di far issare le vele bianche, come segno del successo dell’impresa.

Perciò, quando vide la nave entrare in porto con le vele nere, pensando che il figlio fosse morto, Egeo, preso dalla disperazione, si gettò da una rupe, annegando nel mare che da quel giorno prese il suo nome: mar Egeo.

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2. GIASONE E GLI ARGONAUTI

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Un trono usurpato, una compagnia di uomini indomiti, mostri spaventosi, una maga disposta a tutto pur di aiutare l’eroe di cui si è innamorata: gli ingredienti di un’avventura senza tempo, che non smette di affascinare.

Pelia regnava su Iolco, città della Tessaglia, ma il suo era un potere illegittimo: il trono su cui sedeva spettava in realtà al fratellastro Esone.

Figlio di Poseidone, Pelia era stato abbandonato insieme al suo gemello su una montagna dalla madre Tiro, che era scappata per sfuggire all’odio della sua matrigna Sidero, e allevato da un pastore.

Cresciuto, si vendicò dei torti subiti e divenne re di Iolco ai danni di Esone, suo fratellastro. Costui aveva un figlio, Giasone, e poiché all’usurpatore era stato profetizzato che sarebbe morto per mano di un discendente di Eolo (e Giasone lo era), il piccolo venne portato lontano da corte, sul monte Pelio, dove fu allevato ed educato da Chirone.

Costui non era un uomo, bensì un saggio centauro, maestro di arte, scienza e medicina.

Una volta cresciuto e fattosi uomo, Giasone fece ritorno a Iolco per prendersi il trono che gli spettava. Intanto, l’usurpatore Pelia era stato reso inquieto da una profezia, che lo metteva in guardia da un uomo che portava un solo calzare.

Quando Giasone si presentò al suo cospetto, aveva un piede scalzo, avendo perduto uno dei sandali mentre aiutava una vecchia ad attraversare un torrente. L’anziana, però, altri non era che la dea Era, che da quel momento divenne amica e alleata del giovane.

Sapendosi in pericolo, Pelia decise di liberarsi del contendente, sfidandolo a compiere una missione impossibile: recuperare il mitico Vello d’Oro. Giasone aveva dalla sua non solo il favore di Era, ma anche quello di Atena. Con due alleate del genere, nessuna impresa gli era preclusa.

Con il loro aiuto costruì Argo, una grande nave dotata di cinquanta remi. Adesso, però, occorreva radunare un equipaggio all’altezza del compito da affrontare: cinquanta eroi capaci di affrontare e superare pericoli ignoti ma certamente mortali.

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Molti grandi protagonisti del mito greco risposero alla chiamata: Orfeo, un poeta capace di canti più dolci e ammaliatori di quelli delle sirene; i gemelli Castore e Polluce, fratelli di Elena di Troia; e addirittura il potente semidio Ercole.

Secondo alcuni, della spedizione fece parte anche una donna, la velocissima guerriera Atalanta; secondo altri, invece, Giasone non la volle a bordo, per paura che la sua presenza creasse tensione tra i compagni.

Giasone e i suoi uomini salparono per il Mar Nero, dove si diceva che si trovasse il Vello d’Oro. Fra le molte avventure e peripezie, gli eroi sostarono a lungo a Lemno, le cui donne, che avevano ucciso i loro mariti, li trattennero.

Poi, per errore, si scontrarono con i Dolioni, che li avevano accolti ospitalmente, e dovettero fare a meno di Ercole, che partì alla ricerca del suo servo Ila, rapito dalle Ninfe. Incapparono nell’indovino Fineo, che liberarono delle Arpie, ricevendone in cambio ottimi consigli su come agire in futuro.

Gli Argonauti (così si chiamava l’equipaggio) riuscirono anche a passare indenni lo stretto delle Simplegadi, scogli che cozzavano uno contro l’altro, e sfuggirono agli uccelli dell’isola di Ares, che scagliavano le loro penne come dardi.

Gli Argonauti approdarono infine nella Colchide e raggiunsero il regno di re Eeta, il quale sottopose Giasone a una serie di prove apparentemente impossibili: avrebbe dovuto imbrigliare alcuni tori dagli zoccoli di bronzo che sputavano fuoco, quindi usarli per arare un campo.

Successivamente, avrebbe dovuto seminare il campo arato con denti di drago, dai quali si sarebbero generati guerrieri completamente armati. Per quanto forte e valoroso, Giasone non aveva alcuna possibilità di riuscita, se non grazie all’aiuto di qualche magia. E qui entrò in scena Medea.

La donna non era solo la figlia di re Eeta, ma anche una maga dotata di grandi poteri. Innamoratasi perdutamente di Giasone, non esitò a mettere a sua disposizione le sue arti magiche per aiutarlo a superare le terribili prove.

Infine, usando una delle sue pozioni magiche, addormentò il drago posto di guardia al Vello, permettendo all’amato di impadronirsene.

Non solo: quando si trattò di riprendere il mare e fuggire all’ira di Eeta, non esitò a uccidere suo fratello Apsirto e a smembrarne il corpo, così che suo padre fosse obbligato a interrompere l’inseguimento per raccogliere i resti del figlio.

Grazie a questo terribile ma efficace stratagemma, Giasone e gli Argonauti fuggirono con il Vello d’Oro per donarlo a Iolco, portando finalmente a termine la loro missione.

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3. PERSEO E MEDUSA

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L’immagine di Perseo che solleva la testa recisa di Medusa, ben scolpita nel nostro immaginario grazie alle opere di artisti di tutte le epoche, proviene da un mito ricco e complesso.

Noto fin dai tempi di Omero ed Esiodo, il mito di Perseo ci è stato tramandato nella sua forma più conosciuta dai poeti Pindaro e Apollodoro.

Si tratta di un racconto molto avventuroso, pieno di colpi di scena, che nel corso dei secoli si è arricchito di versioni alternative e nuovi particolari. Che Perseo fosse destinato a grandi imprese, appare chiaro fin dalle sue origini.

Era figlio nientemeno che di Zeus, che aveva fecondato Danae visitandola sotto forma di pioggia dorata nella camera di bronzo dove il padre, Acrisio, l’aveva rinchiusa, proprio per impedirle di generare figli: secondo una profezia, costui, che era re di Argo, sarebbe stato assassinato dal proprio nipote.

Dopo il parto, tuttavia, il re non osò uccidere la figlia e il nipote per non incorrere nell’ira di Zeus; decise, invece, di liberarsene abbandonandoli in balia delle onde, rinchiusi in un baule di legno.

La cassa venne trascinata dalle correnti fino all’isola di Serifo, governata da re Polidette. Costui s’innamorò di Danae, ma con gli anni percepì la gelosia e l’ostilità crescente di Perseo.

Per allontanare il ragazzo, l’astuto sovrano annunciò le sue nozze con un’altra donna, Ippodamia, e chiese a tutti gli invitati di portare un destriero come dono di nozze.

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Perseo non possedeva cavalli, ma desiderava così tanto che Polidette si sposasse e lasciasse finalmente in pace sua madre da promettere al re che gli avrebbe portato qualunque altra cosa desiderasse.

Era l’occasione che Polidette aspettava: la sua richiesta fu la testa di Medusa, l’unica mortale delle terribili Gorgoni. Figlie di due divinità marine, Forco e Ceto, le Gorgoni erano in grado di pietrificare chiunque incrociasse il loro sguardo.

Venivano raffigurate come creature mostruose, zannute e, in alcuni casi, addirittura barbute (anche se, successivamente, poeti e artisti le trasfigurarono in bellissime ammaliatrici).

La dea Atena scortò Perseo fino alla dimora delle Graie, tre donne nate già vecchie che, tra tutte, possedevano un solo occhio e un solo dente. Egli rubò loro i due tesori per costringerle, sotto ricatto, a rivelare dove si trovasse la dimora delle ninfe Stigie.

Da costoro, poi, ricevette doni preziosi: i sandali alati che gli avrebbero permesso di muoversi velocemente; la kibisis, una sacca magica con la quale trasportare senza pericolo la testa recisa di Medusa; il kunè, un elmo che rendeva invisibili.

Fu infine il dio Ermes a donargli il falcetto adamantino con il quale Perseo avrebbe spiccato la testa di Medusa. Il viaggio verso l’antro di Medusa condusse Perseo nella terra degli Iperborei, all’estremo Nord.

Osservando il paesaggio squallido, dominato dalla desolazione e punteggiato dalle sagome di esseri umani pietrificati, egli seppe di essere ormai prossimo alla meta.

Guardando nello scudo lucido come uno specchio, donatogli da Atena, Perseo avanzò camminando all’indietro, fino a raggiungere Medusa che giaceva addormentata. Ricorrendo ancora allo scudo per non dovere incontrare direttamente il suo sguardo, la uccise, tagliandole la testa.

Dal sangue fuoriuscito dal corpo mozzato emersero Crisaore, futuro giustiziere armato di una magica lancia d’oro, e Pegaso, il cavallo alato. 

Secondo la versione più popolare del mito, una volta fatto ritorno ad Argo Perseo si sarebbe vendicato di Polidette estraendo la testa di Medusa dalla kibisis e trasformando il sovrano in una statua di pietra, insieme a tutta la sua corte (la medesima sorte era già toccata al titano Atlante, mutato nell’omonima catena montuosa dell’Africa nordoccidentale).

Alla fine, Perseo cedette il macabro trofeo ad Atena, la quale se ne servì per adornare il proprio scudo.

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4. ORFEO ED EURIDICE

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La vicenda di questi due sposi è, forse, la più intensa e straziante di tutto il mito greco. Per questa ragione ispirò, nei secoli, una schiera infinita di artisti e musicisti.

Anche i Greci avevano le loro storie d’amore, e una delle più struggenti è quella di Orfeo, ripetuta e rielaborata molte volte in tutta le letteratura antica, anche dai massimi autori latini; come Virgilio, che ne tratta nelle Georgiche, e Ovidio, nelle Metamorfosi.

La fama di Orfeo era quella di un vero virtuoso della musica, che con il suono della sua cetra riusciva ad ammansire gli animali della foresta. Viveva beatamente con la sua sposa Euridice, con cui formava una coppia innamorata e felice.

Il suo virtuosismo musicale derivava dal fatto che Orfeo era il figlio che la musa Calliope (il nome significa “dalla bella voce” ed era preposta alla poesia epica) aveva avuto dal re tracio Eagro. Anche Euridice aveva sangue divino, perché si trattava di una bellissima ninfa amadriade, divinità connessa al culto degli alberi.

La vita degli sposi trascorse serena fino al giorno in cui il giovane Aristeo, uno dei figli del dio Apollo, non s’invaghì di Euridice. Il suo amore non era ricambiato affatto dalla ninfa, che anzi trovava spiacevoli le attenzioni del semidio.

Cercando di sfuggire alle lusinghe di Aristeo, un giorno Euridice inciampò in un serpente, che la morse e la uccise con il suo veleno. La disperazione di Orfeo fu tale che egli decise di scendere agli inferi pur di riportare in vita la bella sposa.

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Sapeva, naturalmente, che si sarebbe trattato di un viaggio pieno di pericoli e spaventi, ma l’amore che nutriva per Euridice era tale da fargli superare ogni paura: doveva a tutti costi recarsi davanti alle massime divinità infernali, Ade e la moglie Persefone, perché costoro erano gli unici che avrebbero potuto riportare in vita la sua compagna.

La prima prova da superare fu quella di Caronte, colui che traghettava le anime oltre i fiumi infernali, portandoli dal mondo dei viventi a quello dei morti. Fu grazie al suono dolcissimo della propria cetra che Orfeo riuscì ad ammansirlo.

La stessa tecnica usò quando si ritrovò di fronte a Cerbero, il cane con tre teste posto a guardia dei cancelli dell’Erebo. Gli ostacoli e le prove si susseguirono, ma alla fine Orfeo riuscì nel suo intento di giungere al cospetto delle divinità infernali.

La tenacia e l’amore di Orfeo intenerirono il cuore di Persefone, la quale acconsentì alla sua richiesta, ma ponendo una condizione: lo sposo avrebbe dovuto accompagnare Euridice fuori dall’inferno, ma senza mai voltarsi a guardarla.

Così, Orfeo prese per mano la moglie e la precedette nel cammino a ritroso verso il mondo dei viventi, accompagnato nel viaggio dal dio Ermes. Finalmente, quando Orfeo fu certo di aver messo piede fuori dall’Erebo, si girò a rimirare la sposa.

Ma poiché costei non aveva ancora superato la linea di separazione fra i due mondi scomparve per sempre, nuovamente inghiottita dalla voragine infernale.

Dopo aver fallito la sua missione, Orfeo cadde in un indicibile stato di prostrazione, piangendo per sette lunghi mesi, durante i quali accompagnava le lacrime e il dolore con la sua cetra. Ovidio afferma che, al termine, venne fatto a pezzi dalle Menadi, le sacerdotesse di Dioniso, perché alla fine aveva sviluppato una passione per i maschi.

Virgilio, invece, afferma che a fare strazio delle carni di Orfeo furono le donne del popolo dei Ciconi (incontrati anche da Ulisse nel suo ritorno a Itaca) perché non riuscivano a tentarlo e a distrarlo dal ricordo della sua Euridice.

In ogni caso, la tradizione afferma che, anche quando venne staccata dal corpo e gettata nel fiume Ebro, la testa di Orfeo non smise di cantare soavemente. Sempre Virgilio scrive una fine dolce per la storia straziante di questo amore, affermando che l’anima del cantore innamorato venne accolta dagli dei nei paradisiaci Campi Elisi.

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5. NARCISO ED ECO

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Quando la bellezza assoluta diventa maledizione: una storia cupa, di cui la psicanalisi si è servita per spiegare alcuni lati oscuri dell’animo umano!

Il mito di Narciso era talmente diffuso nella cultura ellenica che ne esistono versioni molto differenti, la più nota delle quali viene riportata dal poeta latino Ovidio nelle sue Metamorfosi.

Narciso era figlio di un dio fluviale, Cefiso, e della ninfa Liriope. Costei, pur essendo bella come tutte quelle della sua stirpe, si stupì dell’avvenenza del figliolo, che sembrava tanto meraviglioso da suscitare sospetto.

Si recò così dall’indovino Tiresia per avere un consiglio, e costui le consigliò di far sì che Narciso non potesse mai vedere se stesso: niente specchi, dunque, né stagni in cui specchiarsi, o per lui sarebbe stata una sciagura.

Il ragazzino crebbe bellissimo e dotato di uno spirito altero. Pur avendo numerosissimi spasimanti, non si concedeva a nessuno, trattando tutti con pari superbia. A un giovane di nome Aminia, che non si dava per vinto, Narciso regalò una spada, invitandolo a uccidersi con quella e a lasciarlo in pace.

Aminia fece proprio come Orfeo gli aveva suggerito, ma mentre si toglieva la vita lo maledisse, chiedendo agli dei una giusta vendetta. Secondo la versione latina, quando il giovane aveva compiuto i sedici anni e si trovava nel bosco a caccia di cervi, la ninfa Eco l’avrebbe corteggiato.

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Eco, però, non poteva dichiarare il suo amore e si nascondeva. Era infatti stata punita dalla dea Giunone, dopo che la ninfa l’aveva distratta con alcuni racconti per dar tempo di nascondersi ad altre ninfe che si erano trastullate con Zeus, marito di Era.

La punizione che la signora dell’Olimpo aveva escogitato per lei era particolarmente perfida: Eco avrebbe potuto solo ripetere le parole di chi le parlava, senza avere la possibilità di proferirne di sua iniziativa.

Benché la ninfa osservasse il bel Narciso di nascosto, egli si sentì osservato e gridò: «Chi è là?». Al che, tutto ciò che Eco poté fare fu ripetere: «Chi è là?». La cosa andò avanti per un po’, finché la ninfa innamorata ruppe gli indugi e corse verso Narciso per gettargli le braccia al collo.

Ma poiché lui la rifiutò sgarbatamente, Eco venne colta da tale vergogna che scappò nelle valli vicine, dove vagò fino a consumarsi d’amore, diventando null’altro che una voce. L’episodio non passò inosservato: la dea Nemesi, personificazione della vendetta, decise di non lasciare impunito quello sgarbo.

Indusse, pertanto, Narciso a chinarsi su uno specchio d’acqua (che Pausania situa a Tespie, in Beozia) per bere, cosicché potesse per la prima volta specchiarsi e contemplare la propria bellezza.

Narciso fu sbigottito da quanto vide (il suo nome significa proprio “stupore”) e s’innamorò perdutamente del meraviglioso fanciullo che poteva osservare riflesso dello stagno. In breve, però, capì che si trattava di lui stesso e che pertanto il suo amore non avrebbe mai potuto essere ricambiato.

Secondo Ovidio, Narciso morì consumato dalla passione nutrita per le proprie fattezze; allorché le ninfe accorsero per dare sepoltura a quel corpo stupendo, però, lo trovarono mutato in fiori bianchi e gialli, quelli che oggi chiamiamo, appunto, narcisi. La triste profezia di Tiresia si era compiuta.

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