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Cannibalismo (antropofagia): i tanti aspetti controversi che lo caratterizzano

Per quanto riguarda la parola cannibalismo, essa ha l’etimo in comune con Caraibi.

Caribe, secondo quanto scritto da Cristoforo Colombo (1452-1506) era un termine in uso tra le popolazioni con cui era venuto a contatto per indicare in particolare gli indiani Arawak, descritti come dediti all’antropofagia.

Dall’alterazione di caribe è derivato lo spagnolo canìbales, poi entrato nelle altre lingue europee. Le ricerche moderne sull’antropofagia in alcune società attuali, confermano solo parzialmente, se non addirittura smentiscono, l’esistenza di tale pratica documentata dagli studi del passato.

Al contrario, nelle aree in cui un tempo si praticava il cannibalismo, soprattutto in Africa, vi sono ancora oggi tracce del reiterarsi dell’orrenda pratica, soprattutto nei territori interessati da conflitti interetnici e religiosi, in cui violenze, stupri e massacri sono spesso molto frequenti.

Per esempio si ha notizia di pratiche cannibaliche effettuate come atto iniziatico tra i bambini soldato.

Gli studi di Ewald Volhard («Il cannibalismo», Torino 1949) che, pur risultando datati, costituiscono un’importante documentazione non priva di rilevanti osservazioni antropologiche, riportano una quantità elevatissima di casi di antropofagia tra le popolazioni di Africa, Oceania, Asia e America.

A Volhard si contrappone la posizione di William Arens («Il mito del cannibale. Antropologia e antropofagia», Torino 1980), per il quale invece l’antropofagia sarebbe un mito costruito dagli occidentali; inoltre i riscontri diretti sarebbero limitati e eccessivamente enfatizzati dai commentatori.

In realtà il cannibalismo non appartiene solo ai «selvaggi», ma è documentato anche nel Vecchio Mondo: a determinarlo non furono esclusivamente le carestie, ma anche eventi bellici come gli assedi, che spesso costringevano le popolazioni asserragliate a ricorrere alle più orrende forme di approvvigionamento per mettere fine ai morsi della fame.

Si aggiunga che a essere accusate di antropofagia furono anche alcune categorie marginali in seno alla società: dagli ebrei agli eretici e le streghe, ma anche i cristiani, al tempo delle grandi persecuzioni, vennero indicati come cannibali.

Dalla Preistoria all’Africa Nera, dagli indigeni incontrati da Colombo ai naufraghi dell’Ottocento; dall’URSS degli anni Venti e Trenta alle Ande del 1972… la storia degli uomini che mangiano altri uomini è lunga ma non lineare. Infatti buchi neri e leggende si alternano a notizie certe e riscontri archeologici e antropologici. Scopriamole insieme.

1. Guerre e carestie

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L’odio nutrito nei confronti del nemico ed espresso con l’atto cannibalico non fu solo una manifestazione dei cosiddetti «tempi bui», poiché in tutte le guerre non mancarono casi del genere, anche nel Novecento.

«Al processo di Tokyo contro i criminali di guerra giapponesi [1946-1948], dalla testimonianza di un prigioniero indiano (Havildar Ciandgi Ram) risultò che alcuni soldati, impadronitisi di un pilota americano costretto a un atterraggio di forzato, lo uccisero, ne tagliarono la carne delle cosce, delle natiche e delle braccia per poi friggerla.
Le deposizioni di questo genere furono numerose: una accusò il generale Tachibana di aver fatto mangiare ai suoi soldati la carne di un nemico dichiarando che del resto i nemici non sono che bestie» (G. De Luna, «Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea», Torino 2006).

Ritorniamo a guardare in direzione delle carestie che, nel corso della storia, hanno determinato condizioni tali da indurre addirittura gli uomini a uccidere i propri simili per cibarsene.

Rodolfo il Glabro (985-1047), cronista medievale che descrisse con una certa tendenza escatologica alcune fasi della storia coeva, travolta dalle ansie e della paure della fine del millennio, osservò che la «carestia vendicativa» abbattutasi tra il 1032 e il 1033 andava considerata una punizione divina, i cui effetti condussero la gente «a nutrirsi di ogni genere di animali morti, ma anche di altre cose immonde».

La tragedia della fame insaziata portò in breve al cannibalismo: «perfino i cadaveri furono dissepolti e usati per calmare la fame».

L’impellente bisogno di cibo fu all’origine di azioni sconvolgenti, anche se non così rare nei periodi di carestia: «Come se ormai diventasse un’abitudine mangiare carne umana, un uomo portò di quella carne cotta al mercato di Tournus, quasi si trattasse di carne di animale. Arrestato per quel crimine, non negò le sue colpe e fu bruciato sul rogo. La carne venne seppellita: ma un altro uomo la dissotterrò e la mangiò; anch’egli fu arso sul rogo».

Nella foto sotto, una carta antropologica tedesca del 1893. In verde le aree in cui in passato era praticato il cannibalismo, in rosa quelle in cui l’antropofagia era ancora documentata alla fine del XIX secolo.

 

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2. Le Crociate

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La fame rendeva gli uomini come folli, ormai incapaci di frenare ogni impulso: non vi era più rispetto neppure per i legami affettivi.

«La violenza prodotta dalla carestia determinò addirittura che i figli mangiassero le loro madri; le stesse, dimenticando l’amore materno, facevano la stessa cosa con i corpi dei loro bambini» (Rodolfo il Glabro, op. cit., II, 9).

Da Maria di Eleazaro che mangiò il proprio figlio in occasione dell’assedio di Gerusalemme al conte Ugolino, gli esempi in tal senso non mancano. In occasione delle Crociate vi furono numerosi episodi cruenti e ogni genere di massacri, tra questi non mancarono neanche atti di cannibalismo.

Durante la Prima crociata, dopo la conquista di Antiochia (1098), un gruppo di combattenti cristiani si diresse verso Tarābulus (Libano) alla ricerca di località da liberare dagli infedeli; tra i liberatori della Terra Santa vi erano pero molti avventurieri mossi dall’auri sacra fames.

Infatti, l’approfondimento storiografico ha posto in evidenza che la Prima crociata fu caratterizzata dalla presenza di gruppi totalmente privi di coordinamento, operanti al motto coniato dal promotore della missione, Pierre d’Amiens (1050-1115): «Dio lo vuole».

In questi gruppi vi erano uomini e donne, ecclesiastici e soldati, ma anche gente certo non raccomandabile, mossa da interessi che di spirituale avevano ben poco. I crociati, allontanatisi da Antiochia, giunsero nei pressi della cittadina siriana di Ma'arrat al-Nu'man e decisero di conquistarla.

Al loro comando vi erano Boemondo d’Altavilla (1058?-1111) e Raimondo di Saint-Gilles (1045-1105): dopo diciotto giorni di assedio, il primo si rivolse agli abitanti più abbienti del luogo offrendogli la salvezza in cambio di oro e tutte le altre ricchezze che fossero stati in grado di raccogliere.

Però, quando i crociati entrarono in possesso di quei beni, i comandanti lasciarono ai loro uomini la totale di libertà di saccheggiare Ma'arrat al-Nu'man.

Senza alcun freno e urlando «Dio lo vuole», i cristiani si diedero a violenze, stupri e razzie, massacrando ventimila abitanti. Il tutto assunse tonalità ancora più parossistiche se consideriamo che i protagonisti furono uomini mossi, quantomeno in apparenza, dal desiderio di restituire alla Terra Santa il suo profondo legame con il Cristianesimo.

I crociati si nutrirono dei nemici, senza distinguere tra adulti e bambini, uomini e donne: «tagliavano le loro carni a brandelli e le cuocevano per mangiarle» («Gesta Francorum et aliorum Hierosolymitanorum», XXXIII).

Papa Urbano II provò a giustificare quegli eventi, correlandoli alla mancanza di cibo di cui furono vittima i soldati che si erano spinti in quelle lande desolate del territorio siriano: «Una terribile carestia ha colpito l'esercito a Ma'arrat al-Nu'man e lo ha costretto alla crudele necessità di alimentarsi coi cadaveri dei saraceni»...

 

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3. Nella Russia comunista

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Per molti è un luogo comune scaturito dalla demonizzazione del Comunismo, ma in effetti il detto «i comunisti mangiano i bambini», non è solo un modo di dire, poiché dietro queste parole c’è qualcosa di vero.

Casi di antropofagia si registrarono infatti in occasione della carestia che tra il 1921 e il 1923 colpì la Russia – determinando la morte di circa cinque milioni di persone – e poi l’Ucraina tra il 1932 e il 1933 (A. Graziosi, «Lettere da Kharkov, la carestia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani, 1932-33» Torino, 1991).

In un intersecarsi tra cronaca e fake news, che spesso si sovrappongono, recuperiamo notizie relative all’uccisione di bambini per venderne le carni al mercato nero, naturalmente senza indicazione dell’origine.

Non è neanche chiaro se gli acquirenti fossero consapevoli dell’effettiva provenienza di quella carne, mezzo estremo di sopravvivenza. Ad ogni modo, sull’antropofagia ai tempi della carestia in Russia ci informa anche il volume: «La Ceka. Il terrore bolscevico», edito negli stessi drammatici anni: «I cadaveri umani già vengono usati come alimento...

I parenti dei morti di fame sono costretti a mettere per il primo tempo dei piantoni presso le tombe... I fanciulli morti vengono fatti a pezzi e messi nella pentola» (AA.VV., «La Ceka. Il terrore bolscevico», Milano 1923).

Queste le parole di Antonoff Ovsenko, collaboratore del famoso giurista Nikolaj Vasil'evič Krylenko, nella sua relazione ufficiale al Congresso dei Soviet. E ciò fu via via riportato dalla stampa ufficiale e da allora non cessarono di esser pubblicati elenchi dei casi di antropofagia provocata dalla fame e registrati ufficialmente.

Nei novecento giorni dell’assedio di Leningrado (8 settembre 1941 – 27 gennaio 1944), soprattutto fino a quando i sovietici riuscirono a introdurre rifornimenti nella città assediata), gli atti di cannibalismo furono frequenti.

Il numero di persone perseguite dalla giustizia per tale crimine fu elevatissimo, ma ciò non servì a fermare l’orrenda pratica, insufficiente comunque per garantire la sopravvivenza della popolazione.

Il numero delle vittime di quell’assedio è ancora oggetto di discussione tra gli storici, ma si stima che, tra civili e militari, i morti e dispersi furono circa un milione e 250 mila.

Si pone sulla scia dei casi qui indicati, pur con un’altra angolazione, la cosiddetta «Isola dei cannibali», cioè l'isola siberiana di Nazino sul fiume Ob, dove Stalin fece deportare, all'inizio del 1933, circa seimila individui considerati «elementi declassati e socialmente nocivi».

A ognuno era fornita solo una libbra di farina al giorno e così, nel giro di alcuni mesi, il numero dei prigionieri si ridusse a un terzo: per sopravvivere molti furono costretti ad abbandonarsi al cannibalismo.

Solo con l'apertura degli archivi incoraggiata da metà degli anni Ottanta dalla Perestroika, questo drammatico «esperimento» staliniano degli anni Trenta è entrato ufficialmente a far parte della storia dell’Unione Sovietica (N. Werth, «L'isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all'interno dell'arcipelago gulag», Milano, 2007).

Nella foto piccola in alto a sinistra, Russia, 1921. Durante la carestia causata dalla guerra civile furono innumerevoli i casi di cannibalismo, che in molti casi avevano come vittime i più deboli. Da questi episodi deriva il macabro detto popolare secondo cui «i comunisti mangiano i bambini»

 

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4. Alcuni casi particolarmente significativi

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Se facciamo un salto nel tempo ma restando sempre nell’orbita dei regimi comunisti troviamo tracce di cannibalismo anche in Cambogia durante il regime dei Khmer rossi nella seconda metà degli anni Settanta, sia con funzioni alimentari che per fini magici.

Infatti, alcune parti del corpo umano fanno parte della farmacopea eretica della medicina orientale (P. Maguire, «Facing death in Cambodia», New York 2005).

Si tratta di notizie che è difficile verificare poiché visto il periodo in cui avvennero i fatti, le fonti non sono mai di prima mano e quasi sempre provenienti da informatori condizionati dalle loro posizioni ideologiche.

Abbiamo anche tracce significative di cannibalismo alimentare di sussistenza non legate ad avvenimenti bellici e rivoluzionari, ma a tragici avvenimenti che costrinsero gli uomini a scendere al livello più basso della scala evolutiva per cercare di non morire.

Ricordiamo alcuni casi particolarmente significativi. Il 17 giugno 1816, dal porto francese di Aix la fregata Méduse salpò con altre navi in direzione dell’Africa. Il comando venne a dato a Hugues de Chaumareys.

Il 2 luglio la nave si incagliò nelle secche del banco Arguin, a una decina di miglia dalla costa africana. Non avendo sufficiente spazio sulle scialuppe di salvataggio, venne costruita una grande zattera con gli alberi della nave e con delle botti che fu rimorchiata da sei lance.

Nel corso della notte però accadde qualcosa di terribile, il cavo di traino fu tranciato e sulla zattera si ritrovarono 151 uomini e una donna con pochi viveri. Del comandante e degli ufficiali che avevano preso posto sulle barche, non vi era traccia.

Dopo cinque giorni di deriva, sulla zattera vi erano solo 30 persone: molti si suicidarono. I 15 sopravvissuti vissero su quella zattera per tredici giorni prima di essere tratti in salvo dal battello Argus.

Nel periodo trascorso alla deriva, sul fragile legno i naufraghi si abbandonarono al cannibalismo, praticato anche con la sopraffazione dei più deboli e in un clima di violenza.

Il pittore Théodore Géricault (1791-1824) ha trasferito questo tragico evento in una grande tela, diventata una sorta di icona della disperazione e intitolata la «Zattera della Medusa».

L’opera, conservata al Museo del Louvre, descrive il momento più drammatico della vicenda: l’avvistamento, da parte dei naufraghi, della terra ferma; però dalla costa nessuno si accorge di loro, mentre il vento li allontana verso il mare aperto.

Un evento tragico descritto con grande forza evocativa da Géricault, che ha trasformato quel fatto terribile in una pietra miliare della storia dell’arte del XIX secolo. Quattro anni dopo il dramma della Méduse, un altro tragico avvenimento sul mare, fu all’origine di fenomeni di cannibalismo.

Tutto ebbe inizio con il naufragio della baleniera Essex, partita dal porto di Nantucket e affondata il 20 novembre 1820 a seguito dell’attacco di un capodoglio: tra l’altro questa
vicenda ispirò Herman Melville, foto in alto a sinistra, (1819-1891) per la stesura del suo romanzo «Moby Dick o La balena» (1851).

I naufraghi, disposti su tre scialuppe (di cui una dispersa con l’equipaggio), furono salvati nel mese di febbraio 1821: solo otto dei venti membri dell’equipaggio sopravvissero.

Per non morire prima mangiarono alcuni dei compagni morti e in seguito tirarono a sorte per stabilire chi uccidere per essere trasformato in cibo per i compagni.

Nella foto sotto, «La zattera della Medusa» di Théodore Géricault (1818) rappresenta con crudezza l’atroce sorte dei naufraghi della fregata francese Méduse.

 

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5. La "spedizione Donner" e l'incidente aereo della squadra di rugby

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Nell’inverno tra il 1846 e il 1847 un’ottantina di pionieri in viaggio verso la California (l’impresa è nota come Spedizione Donner), a seguito di una variazione di percorso intrapresa senza la necessaria conoscenza del territorio, si ritrovò bloccata nella Sierra Nevada, con provviste e mezzi ridotti.

In genere il viaggio avrebbe dovuto richiedere al massimo sei mesi.

Però con la prospettiva di abbreviare l’itinerario, il gruppo decise di attraversare i Monti Wasatch e il deserto del Gran Lago Salato, ma il terreno accidentato e le difficoltà incontrate costeggiando il fiume Humboldt, resero il viaggio alquanto difficoltoso e irto di ostacoli: morino molti capi di bestiame e si persero dei carri.

Bloccati dalla neve della Sierra Nevada, i pionieri, animati dalla prospettiva di una nuova vita nell’Ovest, non si persero d’animo, lasciarono i carri e si mossero a piedi alla ricerca di soccorso: giunsero a Sacramento però solo quattro mesi dopo.

La metà di loro era morta per gli stenti e la fatica. I sopravvissuti dichiararono di essersi nutriti dei cadaveri dei compagni morti. L’episodio fece molto scalpore e fu soprattutto l’antropofagia a creare un acceso dibattito e a demonizzare i sopravvissuti, giudicati dall’opinione pubblica quasi come criminali.

L’ultimo episodio noto in ordine di tempo, con una notevole eco mediatica, ha avuto come cornice la Cordigliera delle Ande.

Sulle sue gelide alture, il 13 ottobre 1972, si schiantò l’aereo sul quale viaggiava la squadra di rugby del collegio universitario «Stella Maris» di Montevideo (Uruguay), con gli atleti vi erano: allenatore, tecnici, amici, parenti e una sola passeggera estranea al gruppo.

In totale 45 persone: solo 16 sopravvissero. Gli altri 29 morirono nel corso dell’incidente (risucchiati fuori dall’aereo, o nello schianto), a seguito delle ferite riportate, o travolti nei giorni successivi da una valanga.

Dopo aver appreso da una radio salvatasi dal disastro, che le ricerche erano state interrotte e rimasti senza cibo, decisero di nutrirsi dei cadaveri degli altri passeggeri.

Vennero tratti in salvo solo il 23 dicembre, grazie al coraggio di due dei sopravvissuti che, tra immani fatiche, riuscirono a scendere fino a un centro abitato e dare l’allarme.

 

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Note

Le categorie dell’antropofagia

Decenni di studi e di ricerche da parte della moderna antropologia, hanno consentito di individuare quattro categorie di cannibalismo: profano, giuridico, magico e rituale, che a loro volta possono essere ascritte all’endocannibalismo (le vittime sono membri della comunità antropofaga) o all’esocannibalismo (le vittime non appartengono alla comunità antropofaga).

  1. Nel cannibalismo profano la carne umana è considerata alla stregua di qualunque altro genere alimentare; quindi non vi sarebbero, a monte, intenzioni di carattere simbolico o rituale.
  2. Nel cannibalismo giuridico rientrano le persone che originariamente erano membri del gruppo da cui sono state allontanate a seguito di un loro crimine, per cui risultavano estranee, nemiche e di conseguenza potevano essere mangiate poiché private dell’identità garantita dall’appartenenza alla tribù.
  3. Con la definizione di cannibalismo magico si identificano tutte quelle forme di antropofagia basate sulle credenze che l’assunzione della carne di un individuo consenta di assumere le qualità e le caratteristiche del soggetto mangiato.
    Alcune forme selettive di cannibalismo prevedevano il divoramento di organi ritenuti il centro di quelle energie che si intendevano acquisire (cuore e fegato in particolare). Rientrano in questa categoria gli usi di alcune parti del corpo umano per la realizzazione di filtri e altri prodotti da destinare alle pratiche magiche e terapeutiche.
  4. Infine il cannibalismo rituale, categoria in rientrano molteplici forme di antropofagia, con significati diversi che vanno dalle cerimonie celebrative ai riti iniziatici, dalle pratiche funerarie ai banchetti per festeggiare le vittorie.
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