Così l’uomo inventò la parola

Per intendersi non occorre parlare: pantomime e gesti in molte situazioni potrebbero essere sufficienti.

Eppure, la nostra è l’unica specie ad aver inventato la lingua e non esiste gruppo umano che non ne abbia una. Gli scienziati si chiedono da tempo il perché.

In effetti, esistono varie teorie su quando sia emerso il linguaggio, su quali mutamenti ambientali e anatomici siano stati necessari prima di cominciare a parlare, se l’invenzione della parola sia dovuta a un meccanismo cognitivo specifico o preso in prestito da altre abilità.

Insomma, gli interrogativi sono tanti, ma la ricerca sta ormai ricostruendo le tappe di quello che è probabilmente il passaggio più importante della nostra storia evolutiva.

1. COME È SUCCESSO

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Una cosa è certa: perché una lingua si sviluppi sono necessari due presupposti: quello biologico (deve essere possibile parlare) e quello sociale (deve essere utile farlo): uno scimpanzé non impara a parlare nemmeno se viene cresciuto dagli umani, ma neanche un bambino impara se nei primi anni di vita non viene a contatto con una lingua.

L’evoluzione biologica e quella sociale della specie umana sono dunque entrambe fondamentali per il linguaggio e ciò significa che, anche in passato, devono per forza essere andate di pari passo.

Il problema è come ciò sia avvenuto. Oggi si ritiene che questa trasformazione abbia avuto origine dai gesti, che insieme ai vocalizzi hanno reso possibile la creazione delle prime pantomime che si sono infine evolute in una lingua.

Di sicuro i gesti sono strettamente interconnessi alle parole, visto che li usano istintivamente perfino le persone cieche dalla nascita, parlando con altri ciechi e quindi ben sapendo che non possono vederli.

Un altro indizio: nei mancini le aree linguistiche si trovano nell’emisfero opposto (destro anziché sinistro).

Ciò ha portato molti studiosi a ritenere che la crescita dell’abilità manuale abbia condotto anche alla specializzazione delle aree linguistiche del cervello: man mano che l’uomo imparava a usare bene la mano dominante, cominciava anche a elaborare una lingua nell’emisfero che comanda quella mano (l’emisfero sinistro infatti invia gli impulsi motori alla metà destra del corpo).

Potrebbe allora essere andata così: all’inizio i nostri antenati comunicavano con le espressioni facciali e con vocalizzazioni rafforzate dai gesti, mentre le mani cominciavano a diventare abili anche nella scheggiatura della pietra.

E poiché, associando uno stesso suono a un gesto diverso, si ottengono significati differenti, il primo rudimentale vocabolario potrebbe essere nato così. Poi col tempo e l’affinarsi della parola, i gesti avrebbero perso importanza.

2. QUANDO ABBIAMO COMINCIATO

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Lo studioso Marcus Perlman, dell’Università di Birmingham (Regno Unito), ha voluto verificare se davvero le vocalizzazioni da sole possano evolvere in modo da esprimere concetti e comunicarli agli altri.

Ha ideato una sorta di “gioco dei mimi” vocale nel quale i concorrenti dovevano inventare suoni capaci di comunicare oggetti (per es. “coltello”), azioni ma anche concetti come “uno” o “tanti”.

Be’, la cosa sorprendente è che alcuni ci riuscivano: i vocalizzi venivano fatti ascoltare a gruppi di individui presi a caso, e spesso erano compresi anche da persone di culture diverse e che parlavano altre lingue.

E se gli individui che inventavano suoni venivano fatti interagire tra loro, in breve tempo i vocalizzi si affinavano fino a creare delle rudimentali parole. La cosa più probabile, dunque, è che il linguaggio sia emerso da entrambi i metodi comunicativi: gesti e suoni (per esempio il gesto di tagliare abbinato al sibilo che fa il coltello).

Risultati confermati anche dalle simulazioni al computer ideate dallo studioso belga Bart de Boer: hanno dimostrato che basta avere un gruppo di persone in grado di emettere suoni e che desiderino comunicare tra loro perché in tempi non lunghissimi (qualche generazione) i membri del gruppo imparino a usare in modo non ambiguo prima le vocali e poi le consonanti insieme alle vocali, fino alla nascita di parole vere e proprie.

«Se i primissimi uomini hanno cominciato a spiegarsi a gesti, per esempio per insegnare a qualcuno a scalfire una pietra per farla diventare tagliente o per cuocere un cibo, il cervello potrebbe essere diventato man mano più specializzato poiché gli individui più capaci di fare i mimi avevano più possibilità di riprodursi. Solo più tardi, la parola avrebbe preso il sopravvento. Tutto questo processo potrebbe essere cominciato intorno ai due milioni di anni fa ed essersi concluso poco prima che i nostri antenati diretti uscissero dall’Africa, ovvero intorno a 300.000 anni fa», sostiene Morten Christiansen, psicolinguista alla Cornell University (Usa) e autore del saggio Il gioco del linguaggio.

Gli studiosi ritengono infatti che quando la nostra specie si è frammentata in tutti i gruppi etnici esistenti oggi, già parlasse in maniera molto simile alla nostra, altrimenti le lingue attuali non avrebbero nella loro struttura così tanti tratti in comune (per i linguisti, infatti, anche se gli idiomi parlati nel mondo sono molto diversi, l’architettura delle varie lingue non è poi così differente).

3. PERCHÉ PARLIAMO

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Poi, con il tempo, le parole più usate si sono standardizzate e semplificate in modo che per tutti fosse facile utilizzarle.

All’inizio ovviamente non esisteva una vera e propria grammatica e stava a chi parlava organizzare le poche parole esistenti in modo da farsi capire (del resto anche gli scimpanzé sono in grado di combinare i simboli che vengono loro insegnati).

Secondo le teorie più recenti, una protolingua fatta di suoni e semplici pantomime era probabilmente già parlata un milione di anni fa, mentre la costruzione di una grammatica che permettesse di capire e far capire chi ha fatto cosa e quando, con chi e in che ordine, si stima si sia sviluppata molto più tardi, circa mezzo milione di anni fa.

E la sequenza soggetto-verbo-complemento (diffusa in quasi tutte le lingue) potrebbe essere nata spontaneamente dal modo di costruire pantomime per spiegare qualcosa.

Infine, i linguisti ritengono che le prime parole non legate a oggetti a essere comparse potrebbero essere state termini di uso comune come ieri, laggiù, non, forse.

Ma torniamo alle origini: per arrivare a questo punto sono stati necessari alcuni prerequisiti, che i nostri parenti più prossimi (le grandi scimmie) non hanno, o hanno solo in parte, e che è il vero motivo per cui soltanto l’uomo ha sviluppato un linguaggio così complesso.

Per esempio istinti sociali come la cosiddetta joint attention, ovvero la capacità, durante una interazione con un altro individuo, di guardare entrambi nella stessa direzione e capirsi: una facoltà che serve a collaborare.

Se qualcuno deve sollevare un grosso scatolone e un’altra persona è presente e vede lo scatolone probabilmente aiuterà a sollevarlo, senza che sia stata scambiata una sola parola.

La joint attention è fondamentale per collaborare ma anche per inventare storie da comunicare. Ancora più importanti sono altre tre abilità che nel cervello umano sono molto sviluppate e che dovevano già esserlo nei nostri antenati: le capacità di viaggiare mentalmente nel tempo e nello spazio, insieme a quella di “leggere” quali pensieri passano nella mente altrui.

Queste facoltà permettono di comprendere che cosa si sta dicendo e soprattutto il perché lo si dice. Non solo: permettono di costruire un discorso e mantenerne il filo. Quando parliamo, infatti, non comunichiamo solo il contenuto letterale.

In realtà trasmettiamo indizi su cosa vogliamo davvero dire aiutandoci con il tono, la postura, il contesto in cui poniamo una frase. Ogni volta che parliamo corriamo su e giù nel tempo: anticipiamo mentalmente quello che l’altro sta per dire e contemporaneamente controlliamo che sia coerente con ciò che è appena stato detto.

4. IL FINE ULTIMO

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Sul vero scopo del linguaggio umano restano comunque aperti molti interrogativi. Come mai chi parla (e dà quindi informazioni) spesso non riceve nulla in cambio? Allora perché lo fa?

Lo scienziato francese Jean-Louis Dessalles pensa che la lingua si sia evoluta soprattutto per raccontare storie: chi era più abile conquistava più compagni o compagne e si riproduceva di più.

La pensa così anche lo psicologo evoluzionista statunitense Geoffrey Miller: ritiene che siamo diventati così abili nel linguaggio per dare sfoggio della nostra intelligenza in modo da trovare un partner. Parliamo per poter corteggiare, quindi.

Anche il celebre antropologo Robbins Burling faceva notare che in fondo per cacciare e per vivere in generale potevano bastare lingue molto più rudimentali di quelle che abbiamo: se il nostro modo di comunicare è così complicato, sosteneva Burling, è perché gli oratori migliori ottengono uno status sociale più alto (accade ancora oggi in alcune società tribali come quella degli Yanomami).

Insomma, come dice Miller: «il linguaggio ha messo le menti in piazza, e qui la scelta sessuale ha potuto analizzarle con chiarezza per la prima volta nella storia dell’evoluzione».

Con una sfumatura in più: «In realtà, buona parte della comunità scientifica ipotizza che il fine ultimo della comunicazione umana sia la persuasione: non si comunica per trasmettere informazioni ma perché gli altri pensino qualcosa. E proprio per il fatto che l’altro non è incline a farsi convincere, abbiamo inventato le storie, uno strumento che funziona benissimo, soprattutto nel corteggiamento».

La lingua serve dunque a indurre pensieri nell’ascoltatore. Ovvero a manipolarne la mente, in un certo senso. Una capacità che alcuni scienziati fanno risalire proprio intorno a un milione di anni fa.





5. PERCHÉ NOI PARLIAMO E LE SCIMMIE NO?

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- DIFFERENZE NELLA TESTA
Tra le grandi scimmie, solo l’uomo articola bene i suoni e può quindi parlare. Questa capacità dipende dal suo cervello molto più che dalla conformazione della gola.
Gli scimpanzé e i bonobo non possono parlare non tanto a causa della loro anatomia, che è differente dalla nostra ma non abbastanza: il vero divario è nel cervello.
Quasi tutte le strutture cerebrali in cui viene elaborato il linguaggio (sia la produzione, sia la comprensione) si trovano nell’emisfero sinistro: è lì che ci sono sia l’area di Broca (che ci permette di articolare i suoni) sia l’area di Wernicke (che ce li fa decifrare).
Secondo gli ultimi studi, anche le grandi scimmie e molti altri primati hanno aree corticali corrispondenti a quelle dedicate al linguaggio nel cervello umano. E queste aree sono lateralizzate (vale a dire presenti in un solo emisfero), proprio come quelle umane.
Ma c’è una zona del cervello dell’uomo che è assolutamente unica: è il cosiddetto “planum temporale” che è una parte dell’area di Wernicke, la zona del cervello in cui viene compreso il linguaggio, sia scritto sia orale.
Quest’area è presente anche nelle scimmie, ma nell’uomo ha una struttura morfologica unica a livello microscopico, con dendriti (le ramificazioni dei neuroni) più grandi della norma e meno numerosi rispetto ad altre zone.

- E NELLA GOLA
Ovviamente esistono anche differenze anatomiche nella gola. Come noi, i nostri parenti più prossimi emettono suoni spingendo l’aria dei polmoni nella laringe e da lì nella faringe e nel cavo orale. Le scimmie però hanno il cavo orale molto più lungo della laringe, mentre noi li abbiamo più o meno delle stesse dimensioni.
A lungo si è pensato che ciò fosse determinante per la parola, ma non è così: i bimbi di sei mesi lallano nonostante a quella età il rapporto tra grandezza del cavo orale e faringe sia più o meno lo stesso degli scimpanzé.
Del resto le scimmie sono capaci di produrre le vocali, anche se con le consonanti fanno fatica, poiché richiedono un buon controllo della respirazione e tempismo nei movimenti di lingua, labbra e mandibola.
Controllo dato dal fascio di neuroni che connette il cervello agli organi della fonazione e che nella nostra specie è più grande.
Inoltre, un recente studio condotto da alcuni ricercatori giapponesi ha dimostrato che l’uomo è l’unico primate privo delle pliche muscolari che si trovano proprio sopra le corde vocali.








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