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Il cibo, le emozioni e la nostra vita

Alcuni sfogano le frustrazioni mangiando, ad altri si chiude lo stomaco., il difficile equilibrio tra il cibo e la psiche.

Il collegamento tra cibo ed emo­zioni è diventato talmente iconografico che, sempre più spesso, lo vediamo rappresenta­to nei film o possiamo coglierlo nei dialoghi quotidiani tra le persone.

Ciascuno di noi ha sperimen­tato nel corso della propria vita la relazione esistente tra cer­ti stati d’animo e il senso di fame e di sazietà che li accompagna. L’innamoramento, per esempio, “chiude lo stomaco” e mangiare non diventa più una priorità!

Altre emozioni, come la rabbia, l’angoscia o la tristez­za, possono chiudere lo stomaco, ma anche indurci una falsa sensazione di fame che ci porta a mangiare per subli­mare il disagio.

Non a caso, uno degli elementi principali da valutare, per fare una diagnosi di depressione, è l’aumen­to o la diminuzione dell’appetito.

Purtroppo, questa relazione non vie­ne quasi mai trattata in modo corretto, forse perché è più semplice ipotizzare che sforzarsi di comprendere o perché si ignorano le radici profonde che por­tano a una relazione nevrotica con il cibo.

Proviamo allora a entrare in que­sto dedalo per giungere alla fonte.

 

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1. Il legame complesso con il cibo

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Torniamo alle origini, il legame complesso con il cibo nasce con noi. La prima relazione di cura che sperimentiamo è con chi ci nutre.

Il bambino, all’inizio della sua esistenza, prova due sensazioni/emozioni inde­finite: Agio e Disagio.

Nel rapporto con chi si prende cura di lui impara a definire le proprie sensazioni fisiche e le proprie emozioni. E' una danza tra due individui, giocata su equilibri sot­tili e basata su continue sintonizzazioni dell’uno sull’altro.

Anche il riconosci­mento delle proprie sensazioni di fame e sazietà passa attraverso questa relazione duale. Per il bambino è importante che quando avverte la sensazione di disa­gio, qualcuno si prenda cura di lui; il disagio viene superato immediatamen­te, lasciando spazio a una sensazione di agio e appagamento indefinito.

Se la cura però non è quella “ giusta” , allora la sensazione di agio dura molto poco, a volte solo un attimo, e l’intera­zione riprende.

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Una serie di tentativi ed errori non rappresentano un proble­ma; anche se il bimbo piange a lungo per segnalare alla mamma un disagio che lei fatica ad afferrare, la capaci­tà di discriminare i propri stati emotivi si svilupperà perfettamente.

Se, però, chi fornisce le cure offre sempre la stes­sa risposta, per esempio sempre latte o sempre coccole, questo processo di sco­perta di sé nell’interazione con l’altro, non avverrà mai o sarà alterato già dai primi vagiti.

Se, per esempio, il bam­bino impara a utilizzare il cibo come risposta indiscriminata a ogni emozio­ne difficile da sopportare, rischierà di utilizzare lo stesso metodo di modulazione emotiva anche nella vita adulta. E importante, quindi, imparare ad affron­tare e gestire le emozioni fin dalla primissima infanzia.

Impareremo che ci sono stati emoti­vi che possiamo cambiare modificando il nostro punto di vista sulle cose o su noi stessi e altri che dobbiamo sem­plicemente imparare ad affrontare. Quest’apprendimento comincia da neo­nati e prosegue per tutta la vita.

 

2. Cibo, la panacea di tutti i mali

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Il cibo assolve molto bene la funzione di modulatore emozionale: quando man­giamo siamo “impegnati” a compiere quell’azione e la testa si libera dai pen­sieri che ci assediano.

Mangiare è piacevole, quin­di questa sensazione ben si presta a coprire uno stato d’animo negativo.

Anche la scelta dei cibi, morbidi o croc­canti, dolci o salati, caldi o freddi, in alcuni momenti può rivelare come stia­mo realmente e/o che tipo di emozione stiamo cercando di superare.

Questo atteggiamento può sfociare, con il tem­po e in presenza di altri fattori di rischio interni ed esterni, in un vero e proprio disturbo alimentare. Durante gli anni dell’infanzia, inoltre, si possono strutturare delle abitudi­ni nelle interazioni con gli adulti (e i coetanei) che diventano una specie di imprinting.

E molto consueto che gli adulti di riferimento propongano cibo per consolare, per gratificare o per pre­miare il bambino: il cibo, quindi, viene ad assumere una serie di significati che non gli appartengono.

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Facciamo alcuni esempi: «Sono stato bravo a scuola, mi premieranno con una bella merenda!», «Devo andare dal dentista e se faccio il bravo poi la mamma mi comprerà il gelato!».

Seguendo questi schemi com­portamentali si strutturano delle risposte incondizionate che, da adulti, reiterano il processo: «Ho avuto l’aumento e sta­sera mi gratifico con un dolce!», «Ho avuto una riunione difficile con il capo, mi merito un bell’aperitivo con tanti stuzzichini».

In alcune culture, soprattutto quelle occidentali, l’amore passa attraverso la preparazione del cibo: dal bibe­ron, al pranzo di Natale. Maggiore è l’amore che provo, maggiore sarà la quantità/qualità del cibo che ti pro­porrò.

Ovviamente, un atteggiamento di questo tipo presupporrà, da parte di chi riceve le attenzioni, una reazione proporzionale e adeguata: maggiore è l’amore che provi per me, maggiore sarà la dimostrazione di apprezza­mento per il cibo che ti ho preparato.

In questa dinamica contorta, si crea una relazione falsata e pericolosa tra appe­tito e amore. Un momento di semplice inappetenza può essere vissuto come freddezza emotiva e mancato riconosci­mento dei gesti d’amore che sono stati compiuti.

La banale fretta quotidiana, anche in cucina, può essere vissuta come un piccolo abbandono emotivo.

 

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3. Cibo, socialità, diete

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Un’altra funzione basilare del cibo è l’ag­gregazione. La convivialità fa parte integrante del nostro DNA.

Dall’uomo primitivo ai giorni nostri, sedersi attor­no a un tavolo e condividere lo stesso pasto è tanto naturale quanto appa­gante. Il cibo è presente ogni qual volta le persone si incontrano per fare festa e divertirsi.

Un tempo queste erano anche le uniche occasioni in cui era possibile mangiare a sazietà. Oggi, fortunata­mente, almeno nella società occidentale, non è più così. E rimasto, però, un costume condiviso per cui se ci si aggre­ga allora “si deve” o “si può” mangiare a volontà.

Molto di ciò che abbiamo detto fino a questo punto è vero da sem­pre: l’interazione madre-bambino e i significati della nutrizione all’interno della crescita emotiva delle persone, l’imprinting, la socializzazione.

Anche nelle varie religioni il cibo ha e ha sempre avuto un ruolo sim­bolico di primaria importanza. Il cibo, dunque, rappresenta un nutri­mento per corpo e anima.

Esiste, però, un fenomeno, legato agli stereotipi del­ la società moderna, che sta esasperando questa relazione: la lotta ai chili di trop­po (veri o presunti) e la dieta. Tutti, in un qualche momento della nostra vita, ne abbiamo fatta una o, per lo meno, abbiamo pensato di farla.

Alla luce di quanto abbiamo detto fino ad ora, atte­nersi a un regime alimentare differente a quello a cui ci siamo abituati, non è così semplice e banale, perché porta inevitabilmente a cambiare un equili­brio profondissimo e ancestrale.

 

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4. La negazione del piacere

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Quando ci mettiamo a dieta, per esempio dopo le feste, dobbiamo pensare che cambiare stile di ali­mentazione non è come cambiare colore di capelli.

Significa cambia­re aree della nostra vita non facili da gestire: modulazione delle emozioni, abitudini consolidate, rapporti con gli altri, ecc.

Dovremmo allora chiederci se è fatti­bile per noi attuare questo cambiamento e fino a che punto, ma, soprattutto, se è proprio necessario. Per aiutarci a deci­dere, può essere utile provare a capire quali sono le ragioni che ci spingono a mangiare.

Se ci accorgiamo che man­giamo in risposta a un bisogno di gratificazione o cura, proviamo a pensare che l’anima ha bisogno di più nutrimento del corpo. Partendo da questo presupposto, quindi, invece di metterci a dieta, potremmo pensa­re a cosa offre nutrimento all’anima senza appesantire il corpo.

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Lavorando sul nutrimento per lo spirito, ci accor­geremo che merende e spuntini extra, o gratificazioni culinarie post-pasto, spariranno autonomamente, senza biso­gno di nessun provvedimento restrittivo diretto. I problemi insorgono quando non si hanno alternative al cibo e l’uni­ca cosa che possiamo fare è continuare a mangiare.

Spesso la sola idea di avere un corpo che non risponda ai nostri canoni este­tici e agli standard di bellezza a cui ci ispiriamo (o che la società ci impone) può scatenare un disequilibrio nei con­fronti del cibo.

In questi casi, possiamo affrontare periodi di severa restrizione alimenta­re seguiti, inevitabilmente, da periodi di sregolatezza e iperalimentazione. In entrambi i casi ci saranno delle conse­guenze.

Se intraprendiamo la strada della dieta, contestualmente dobbiamo limitare il consumo di un certo tipo di alimenti; imposizioni di questo tipo non aiutano il nostro lato emotivo perché causano una serie di reazioni a catena.

È oramai risaputo che più ci neghia­mo un piacere, più aumenta il bisogno di soddisfarlo; catalogare i cibi in “giusti” o “ sbagliati”, dietetici o ingrassanti, non fa altro che ingigantire i sensi di colpa quando trasgrediamo, e se esiste un atteggiamento dannoso per la salute psicofisica, è proprio il senso di colpa!

 

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5. Conclusione

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L’unico modo per evitare di demoniz­zare alcuni alimenti è quello di usare un po’ di criterio e buon senso, senza abu­sarne, senza privarcene completamente e inserendo il “peccato di gola” all’in­terno di un’alimentazione bilanciata.

La regola d’oro resta sempre la stessa: anzi­ché cercare traguardi irraggiungibili, sarebbe meglio fare pace con noi stessi e con la nostra fisicità.

Se, però, siamo convinti che dimagrire, o snellire qual­che parte del corpo, sia fondamentale, allora, più che a una dieta, dovremmo pensare a incrementare la nostra attivi­tà fisica, introducendo nella nostra vita delle lunghe camminate quotidiane, se possibile, immersi nella natura.

L’alimentazione, i suoi possibili significati, le interazioni che crea con il nostro modo di vivere, compongono un quadro che va affron­tato congiuntamente cercando di avere una visione d’insieme.

Avevate mai pensato alla ricchezza d’informazioni che ci trasmette il solo gesto di alimentarci? O al rapporto imprescindibile che si crea con il cibo?

Avreste mai creduto che, per avere una migliore comprensione di noi stes­si, fosse sufficiente analizzare le nostre abitudini alimentari?

Il cibo parla di noi, di come e dove abbiamo vissuto e, quando si interfaccia con le nostre emozioni, ci svela segreti inconfessati relativi alle nostre relazioni affettive più significative.

Per sviscera­re tutte le implicazioni è fondamentale imparare a osservarsi, ponendosi le giu­ste domande e affrontando le risposte sincere che scaturiranno da questi inti­mi confronti.

Un rapporto sano con il cibo è l’an­ticamera di un rapporto sano con noi stessi.

 

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