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Italo Balbo, un eroe scomodo

Molti gerarchi fascisti erano avventurieri in cerca di facile gloria, e agli inizi Italo Balbo parve essere uno di costoro, privo di scrupoli.

Ma con il passare del tempo, Balbo manifestò la tempra del capitano di ventura rinascimentale, imponendosi come condottiero: fu proprio questa la causa della sua fortuna e della sua rovina.

Audace, sfrontato e apertamente ribelle, il “gerarca aviatore” del fascismo divenne così popolare da fare ombra allo stesso Duce.

E’ la figura più presentabile del fascismo, il gerarca che si e’ battuto più di ogni altro contro il razzismo, contro la guerra, contro il deragliamento dell’Italia verso la dittatura filo nazista.

Ma una morte prematura (e ancora misteriosa) lo spazzò via dalla scena. Ecco chi era Italo Balbo, “l’eroe scomodo”.

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1. Squadristi conto Mussolini

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Nato nel 1896 a Ferrara, Italo Balbo uscì dalla Prima guerra mondiale con il grado di capitano, due Medaglie d’Argento e una di Bronzo.

Era imbevuto di ideali mazziniani. Nel 1920 si laureò in Scienze sociali, a Firenze, proprio con una tesi sul fondatore della Giovine Italia.

Contrario alla violenza squadrista, almeno agli inizi, aderì al fascismo e poi, quando l'Associazione agraria lo richiamò nella sua Ferrara per affidargli il comando delle squadre locali, nel 1921 divenne segretario del fascio, mutando radicalmente atteggiamento.

Con lui, il fascio ferrarese divenne il più efficiente d’Italia, mentre le squadre iniziavano a godere un po’ dovunque dell’appoggio delle forze armate. Tra il 24 e il 25 marzo di quell’anno, deciso a vendicare la morte di uno squadrista, Balbo invase la cittadina di Portomaggiore con 4.000 armati, sotto la protezione della polizia.

Fino all’estate percorse con le sue squadre le province emiliane, piegando con ogni mezzo le ultime resistenze delle leghe contadine controllate dal Partito Socialista.

Nell’agosto di quel 1921, però, Mussolini si fece promotore di un patto di pacificazione con i socialisti, nel tentativo di arginare le violenze che scuotevano il Paese; ma il vero obiettivo era la smilitarizzazione delle squadre per garantire al fascismo l’ingresso in Parlamento.

Furono soprattutto i capi squadristi della Bassa padana a opporsi: Roberto Farinacci per Cremona, Dino Grandi per Bologna e Balbo per Ferrara.

Grandi e Balbo, anzi, ebbero un abboccamento al Vittoriale con Gabriele D’Annunzio, divenuto un importante punto di riferimento dopo la conquista di Fiume, effettuata con i suoi legionari contro il volere del mondo e perfino del Governo italiano.

Proposero al poeta-soldato di esautorare il Duce, assumendo lui la guida del movimento fascista. Il Vate li ascoltò con attenzione e si riservò di decidere dopo aver meditato per una notte; ma il giorno successivo, saggiamente, li congedò senza aver preso posizione.

Saltato il patto, Mussolini decise di non tener conto di quel Patto gravissimo d’insubordinazione da parte di Balbo: come avrebbe raccontato più tardi al suo biografo Yvon de Begnac, «avevamo bisogno di un carattere entusiasta come il suo. Ci rendemmo conto del seguito di cui godeva tra i giovani. Italo fu, in qualche modo, il nostro proconsole presso la base dello squadrismo. Il suo carattere violento tenne paradossalmente a bada i molti violenti di cui si nutriva il fascismo mobilitato per Roma».

 

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2. La marcia su Roma

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La Marcia su Roma fu una manifestazione di carattere eversivo, organizzata dal Partito Nazionale Fascista (PNF) il 28 ottobre 1922 allo scopo di esercitare una pressione paramilitare che favorisse l'ascesa al potere di Benito Mussolini.

La Marcia su Roma rappresentò, inoltre, il momento culminante della profonda crisi che scuoteva lo Stato liberale dalla fine della Prima Guerra Mondiale.

Nell’ottobre del 1922, Balbo fu tra quelli che forzarono la mano a Mussolini, portando le sue squadre al raduno delle Camicie Nere a Napoli e guidando, insieme a Cesare De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi, la Marcia su Roma che avrebbe spianato al Duce la strada del potere.

Era la prima occasione in cui il suo apporto sarebbe stato determinante per la costruzione del regime fascista, come avrebbe ricordato più tardi Dino Grandi: la Marcia «senza Balbo non vi sarebbe stata».

Nel gennaio del 1923, Balbo entrò a far parte del Gran Consiglio del Fascismo.

L'anno seguente, il suo nome fu legato a uno degli episodi più tragici del regime, l’assassinio del sacerdote don Giovanni Minzoni, in seguito al quale Balbo fu costretto a dimettersi dalla carica di console della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.

Nel 1924, l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti aprì la prima crisi di governo per Mussolini, e per la seconda volta fu Balbo a imprimere la svolta decisiva, come ispiratore e forse coordinatore del “pronunciamento dei consoli”: il 31 dicembre di quell’anno, un gruppo di consoli della Milizia si recò a Palazzo Chigi dal Duce esigendo da lui una decisa presa di posizione in senso autoritario, pena la rivolta dei fascisti, spingendolo a instaurare la dittatura.

 

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3. Eroe dell’aria

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Nel 1925 la carriera di Balbo riprese, più rapida e luminosa di prima.

Nominato sottosegretario all’Economia, nel 1927 ottenne il brevetto di pilota e nel 1929 Mussolini lo promosse ministro dell’Aeronautica. Il giovane ferrarese aveva soltanto 33 anni, e avrebbe portato nel nuovo incarico tutta la sua esuberante determinazione.

Creò una squadra aerea, la “Centuria alata”, al comando della quale compì una serie di fortunate imprese aviatorie che gli regalarono fama internazionale.

Tra il dicembre 1930 e il gennaio 1931 guidò una celebre trasvolata intercontinentale con dodici idrovolanti Savoia Marchetti, un’eccellenza dell’industria aeronautica italiana; due anni dopo ripetè l’exploit con ventiquattro idrovolanti, ammarando negli Stati Uniti a Chicago, dove i piloti vennero portati in trionfo dalla folla e osannati come autentici eroi.

Ma se gli valsero ammirazione incondizionata sia in Italia che all’estero, queste imprese audaci segnarono anche il declino della sua stella politica.

Tornato in patria dopo la "Crociera aerea del decennale" della Rivoluzione fascista, del 1933, Italo Balbo venne salutato con i massimi onori: a imitazione degli antichi trionfi di età romana, sfilò insieme alla sua squadra sotto l’Arco di Costantino, tra ali di folla in delirio.

Nell'aprile 1925, Balbo fondò il quotidiano "Corriere padano" che diresse per alcuni mesi prima di affidarlo a Nello Quilici (padre del documentarista televisivo Folco), che avrebbe trovato la morte con lui nel 1940.

Fu Quilici a trasformare il "Corriere" da foglio politico e notiziario locale a strumento d'informazione culturale, raccogliendo sulle sue pagine contributi di grande spessore intellettuale, senza pregiudizi di carattere ideologico.

Sul quotidiano scrissero, tra gli altri, intellettuali del calibro di Giorgio Bassani (autore, nel 1962, del Giardino dei Finzi-Contini), Mario Soldati, Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni.

Vi trovarono spazio anche i migliori poeti italiani, come Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti e Umberto Saba. Il giornale uscì pressoché ininterrottamente fino all'aprile 1945, quando Ferrara venne invasa dalle truppe alleate.

La testata fu definitivamente chiusa per volontà del Psychological Warfare Branch, la "divisione per la guerra psicologica" del governo militare angloamericano, incaricata di controllare i mezzi di comunicazione di massa italiani durante l'occupazione.

 

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4. Dalla parte degli ebrei e mai con la Germania

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Nemmeno il Duce aveva mai riscosso tanto favore, e forse fu per questo che poco dopo, nel gennaio 1934, Balbo fu spedito a governare la Libia.

Con ottimi risultati: venne realizzata la strada costiera, detta Balbia, che collegava la Tunisia all’Egitto, e furono piantumati milioni di mandorli e agrumi per incentivare l’immigrazione da parte dei cittadini italiani.

Lo straordinario successo delle trasvolate e il conseguente prestigio avevano fatto si che Balbo accentuasse il suo atteggiamento di fronda, se non di sfida, nei confronti del regime, e in particolare di Mussolini.

A detta di molti, anzi, l’aviatore cominciava davvero a fare ombra al Duce, che pure lo considerava un eccellente ambasciatore dello “stile fascista” all’estero. Ma Mussolini si rifiutò di accogliere il suggerimento di D’Annunzio, che indicava proprio in Balbo l’unico probabile vero erede del fascismo.

L’episodio più clamoroso si verificò nel 1938, due mesi dopo la visita di Hitler a Roma che aveva sancito il definitivo avvicinamento dell’Italia alla Germania.

Il 14 luglio, il quotidiano “Il Giornale d’Italia” pubblicò, in forma anonima, lo scritto Il Fascismo e i problemi della razza (poi divenuto il Manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato sul primo numero della rivista «La difesa della razza», il successivo 5 agosto).

Lo stesso giorno, Italo Balbo invitò a pranzo, in uno dei ristoranti più in vista di Ferrara, il podestà Renzo Ravenna, che era ebreo.

Nei suoi diari, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, così annotava: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del “Giornale d’Italia” di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida del Ministero della Cultura popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui».

Dunque, il gesto plateale di Balbo evidenziava ben altro che una semplice coincidenza, e furono in parecchi a notarlo. Nel marzo del 1939, nella seduta del Gran Consiglio propedeutica alla preparazione del Patto d’acciaio con Hitler, Balbo e De Bono si opposero decisamente all’iniziativa.

Il ferrarese si rivolse al Duce, che raccomandava una politica di assoluta fedeltà all’Asse, con inaudita brutalità: «Voi lustrate le scarpe alla Germania», e più tardi Mussolini lo definì, parlando con il genero, un “porco democratico e massone”.

Eppure, in quel momento Balbo era infinitamente più lucido di quanti approvavano le scelte del Duce: l’ultima volta che tornò a Ferrara per salutare gli amici, profetizzò che «se scoppierà una guerra saranno gli Stati Uniti a dire l’ultima parola».

 

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5. Uno strano incidente

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Nel settembre del 1939, con l’invasione della Polonia da parte della Germania e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, Balbo non ebbe più freni.

Anche pubblicamente, esprimeva la totale avversione per i tedeschi e dichiarava, senza mezzi termini, che l’alleanza con Hitler avrebbe portato l’Italia alla rovina, e che per evitare tale tragedia sarebbe stato necessario liquidare Mussolini prima che fosse troppo tardi.

Parole durissime, che testimoniano la fondamentale integrità del personaggio: a differenza di molti altri gerarchi e gerarchetti, non Balbo avrebbe aspettato che la nave affondasse per abbandonarla.

L’Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940, e già il 28 giugno Balbo, di ritorno da un volo a Tobruk, cadde abbattuto dalla contraerea della nave italiana San Marco.

Tragico caso di fuoco amico o precisa disposizione dall’alto? Non lo si seppe e non lo si saprà mai, ma i dubbi permangono, più che legittimi.

Qualche anno dopo, mentre la sua parabola stava per chiudersi definitivamente, Mussolini ricordava così Balbo, parlando con uno dei suoi ultimi seguaci: «Un bell’alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi».

 

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