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La mafia nacque in Sicilia quando nacque l’Italia

Prima del 1861 la parola “mafia” non si era mai sentita.

Fu allora che tutto iniziò nelle campagne palermitane, da dove i baroni proprietari erano fuggiti, lasciandole in custodia a violenti malviventi.

Ma questi misero subito le mani sulla produzione di agrumi, ricattando sia i nobili sia i contadini.

Ma quando e dove nacque la mafia? Scopriamolo insieme!

 

 

1. L’inizio in un lontano passato

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"Nta na notti di un tempo che fu/
Tri cavalieri ddà Spagna se partiru/»: così una canzone della mafia ne immagina l’inizio in un lontano passato.

I tre cavalieri erano fratelli e si chiamavano Osso, Mastrosso e Carcagnosso: nel 1412, dopo aver vendicato l’onore di una sorella, scapparono dalla Spagna e, attraversando il Mediterraneo, giunsero a Favignana (Isole Egadi, Sicilia).

Qui rimasero nascosti 29 anni, 11 mesi e 29 giorni, preparando un codice di condotta ricalcato su quello della Garduna, una società segreta cui appartenevano nel loro Paese.

Poi si separarono: Osso rimase in Sicilia e fondò la mafia, Mastrosso andò in Calabria e fondò la ‘ndrangheta, Carcagnosso andò a Napoli e fondò la camorra.

Naturalmente è solo una leggenda, ma la parola mafia è praticamente sconosciuta prima del 1860: di mafiosi si parla, forse per la prima volta, nel 1862 nella commedia popolare di Gaspare Mosca intitolata I mafiusi di la Vicaria (una delle carceri della Palermo ottocentesca).

Il procuratore capo di Palermo, Filippo Antonio Gualtiero, in un suo rapporto del 1865 cita la mafia, senza però distinguerla dalla criminalità comune e addirittura collegandola con i repubblicani garibaldini rimasti in Sicilia e con i nostalgici dei Borboni.

È il segno della sostanziale incapacità degli intellettuali e dei politici dell’Italia di allora di comprendere non solo il fenomeno della mafia (Gualtiero era nato a Orvieto), ma la Sicilia tutta, in cui la mafia diventava il simbolo di un paese arretrato e chiuso, economicamente immobile, dove l’unico obiettivo era il puro possesso della terra e in cui i latifondisti, eredi dei nobili borbonici, disponevano di eserciti privati di “picciotti” per piegare chi si opponeva alla loro volontà.

Nella foto sotto, l’attore Al Pacino (a destra) con l’italiano Franco Citti in una scena de Il Padrino, film di Francis Ford Coppola del 1972 e prima pellicola della trilogia. Il film è ambientato a New York e in Sicilia tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta del XX secolo.

 

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2. Abolito il sistema feudale

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Probabilmente il momento chiave nella storia della Sicilia coincide con l’abolizione del sistema feudale nel 1812 in seguito alla costituzione concessa dal reggente dell’isola Francesco di Borbone per frenare l’ostilità della popolazione contro di lui.

I baroni si ritirarono nelle città, lasciando i feudi di campagna in affitto a funzionari (gabellotti), i quali per fare la guardia ai terreni assoldarono malviventi (campieri) liberi di esercitare ogni violenza sui contadini.

Verso metà Ottocento, a Palermo nacque una rete malavitosa, al cui centro c’era un certo Antonino Giammona.

Nato verso il 1819 nella borgata di Passo di Rigano, alle falde del monte Cuccio, e rimasto poverissimo fino al 1848, si era dato da fare con la “rivoluzione”, ossia col passaggio dai borbonici allo stato italiano, diventando un ricco proprietario di terre e giardini e il titolare di un’azienda pastorizia.

Nel 1860, durante la spedizione garibaldina, e poi ancora nel 1866 quando Palermo insorse contro il neonato stato italiano, Giammona si mise alla guida di una sorta di lega per garantire l’ordine nella zona.

Gli furono utili gli agganci che aveva con il barone Nicolò Turrisi Colonna (nella foto in alto a sinistra), un grande proprietario di idee liberali e patriota, che però si circondava di gabellotti e campieri per controllare le sue proprietà.

Giammona e Turrisi Colonna sono i casi più noti di un fenomeno che doveva essere più esteso e che può essere considerato “ma oso” in quanto rappresenta un potere sul territorio che si oppone a quello dello Stato.

Questa prima ma a si basava sulla “guardianìa”, ossia sul controllo su tutti i proprietari terrieri della zona attorno a Palermo, la Conca d’Oro, dove la maggiore risorsa era la produzione di agrumi, che venivano venduti, tramite intermediari, sui mercati europei.

I gruppi mafiosi stringevano accordi con gli intermediari per garantire loro prezzi molto convenienti, e tramite i contadini che dipendevano da loro manovravano la produzione per mantenere fede agli impegni presi.

Se i proprietari si ribellavano, subivano intimidazioni e furti fino a quando non cedevano.

 

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3. Stupagghieri contro giardinieri

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Nei primissimi anni dopo l’Unità, lo Stato reagì alla mafia in modo repressivo, riducendo drasticamente le libertà dello Statuto albertino con leggi speciali che irrigidirono tutta la società siciliana, restìa a identificarsi con la neonata Italia.

La polizia arrivò ad arruolare i malavitosi per combattere i malviventi.

La situazione migliorò solo dopo il 1876 e la salita al potere della Sinistra storica, quando venne inviato a Palermo il prefetto Antonio Malusardi (foto accanto), che agì con energia contro le forme di malavita organizzata.

Nel 1878 infatti si svolse a Palermo il processo agli Stuppagghieri (stuppagghiu significa tappo, turacciolo), un’associazione nata qualche anno prima (forse nel 1872) a Monreale per opera di Giuseppe Palmeri, fratello del commissario di polizia della cittadina.

Questa setta segreta, con tanto di rituali di affiliazione che sarebbero poi diventati tipici della mafia (la puntura di un dito per far scorrere il sangue su un’immagine sacra che viene poi bruciata mentre l’affiliato pronuncia il giuramento) mirava a combattere la mafia dei “giardinieri” di Giammona, ma ne aveva copiato i metodi fino a diventare essa stessa un’associazione a delinquere, forte di 300 membri: ne era nata la prima “guerra di mafia” a noi nota, con morti e violenze da una parte e dall’altra.

Il “pentito” Salvatore D’Amico, sulle cui dichiarazioni doveva basarsi il processo, venne assassinato poco prima: un’altra prassi che avrebbe avuto un tragico seguito.

Il procedimento giudiziario si concluse con la condanna per 12 imputati, ma la sentenza venne annullata per un vizio nella composizione della giuria e il secondo processo, a Catanzaro, finì con l’assoluzione.

Nella foto sotto, Gangi. Una roccaforte della mafia negli anni Venti del Novecento. Questa era Gangi, antico paese situato sulle pendici del monte Marone, tra le vallate dei fiumi Gangi e Rainò. Le case, addossate le une alle altre, ricoprono del tutto la montagna, conferendo al centro abitato un aspetto caratteristico. Oggi Gangi è inserito tra i borghi più belli d’Italia.

 

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4. Divisi in “decine”

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Ai primi del Novecento le famiglie della Conca d’Oro erano divise per sezioni, una per quartiere, agli ordini di un sottocapo.

I sottocapi formavano un consiglio direttivo, guidato dal vero capo. I mafiosi erano divisi in gruppi di dieci (decina) guidati da un capodecina.

Il termine rimase a lungo nel lessico mafioso, tanto che secondo il famoso pentito Tommaso Buscetta (foto accanto) sarebbe stato in uso ancora negli anni Ottanta del Novecento.

Gli affiliati, molto ammirati dalla gente comune, erano tenuti al segreto assoluto e alla omertà totale. Chi tradiva veniva punito in modo crudele: per esempio, poteva essere murato vivo. In cambio le “famiglie” offrivano protezione e relativa tranquillità.

Fuori da Palermo, invece, si diffuse una società segreta, diretta spesso da un grande proprietario terriero che attraverso i suoi campieri imponeva la propria volontà su ampi territori.

Vi aderivano spesso i più poveri tra i contadini per una sorta di riscatto sociale. Il fatto che essi vivessero raccolti quasi esclusivamente nei villaggi e non dispersi nelle campagne permetteva di tenerli meglio sotto controllo.

I processi che si tennero contro presunti mafiosi negli ultimi decenni dell’Ottocento vennero gravemente viziati dalle intimidazioni che i testimoni subivano, dalla scarsa fiducia riposta in quelli che oggi chiameremmo “pentiti”, da una legislazione confusa (il reato di associazione mafiosa fu introdotto solo nel 1982): tutti o quasi finivano con l’assoluzione degli imputati.

La situazione peggiorò quando fu ampliata la base elettorale perché un certo numero di personaggi collusi con la mafia o mafiosi essi stessi poterono farsi eleggere, sottraendosi al controllo degli ultimi vecchi baroni.

 

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5. Arriva il “prefetto di ferro”

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Il fascismo tentò di sradicare un fenomeno che metteva seriamente in dubbio l’autorità dello stato:
«Non deve più oltre essere tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra», esclamò Mussolini in un comizio ad Agrigento il 9 maggio 1925.

Il 23 ottobre seguente nominò Cesare Mori prefetto di Palermo. Mori (foto accanto) non era un fascista, ma si avvalse dei poteri amplissimi che Mussolini gli aveva concesso.

Dopo mesi di perlustrazioni assediò Gangi, un paesino delle Madonie a 80 chilometri da Palermo, sede di almeno tre bande mafiose. Circa 800 tra carabinieri, miliziani, poliziotti circondarono il paese tra il 3 e il 4 gennaio 1926, tagliando l’acqua e il telegrafo, e intimando ai capi mafiosi di costituirsi.

Le case vennero setacciate, ma i banditi trovarono rifugio nelle grotte nel monte sottostante. Mori aveva ordinato di non sparare per non concedere ai mafiosi l’onore di uno scontro armato.

Dopo dieci giorni il capo mafia Gaetano Ferrarello si arrese «per risparmiare le sofferenze alla popolazione». Dopo la resa, non ci furono interrogatori o violenze dirette, ma i soldati dormirono nei letti dei mafiosi e macellarono in piazza i loro animali, vendendo la carne a prezzi bassissimi.

Gli ultimi irriducibili della banda di Giovanni e Carmelo Dina furono catturati perché un traditore rivelò la grotta dove si nascondevano: fu riempita di gas soporifero e i banditi catturati senza sforzo.

I successi di Mori erano così sfolgoranti da oscurare addirittura in certi momenti la fama di Mussolini. Il “prefetto di ferro” incriminò Cucco, il capo del partito fascista a Palermo, e ottenne condanne durissime per tutti i mafiosi che riuscì a catturare.

Ma quando le indagini portarono all’ex ministro della guerra Antonino Di Giorgio, le fortune di Mori volsero al tramonto. Nel 1928 fu nominato senatore e l’anno successivo messo a riposo, ufficialmente per anzianità di servizio, in realtà per metterlo da parte. La mafia, duramente colpita dal fascismo, ne divenne nemica.

Nella Seconda guerra mondiale si creò una torbida situazione mai chiarita del tutto: gli Alleati stavano lavorando allo sbarco in Sicilia e si accorsero che per preparare l’attacco del 10 luglio 1943 (che avrebbe posto fine al fascismo) potevano sfruttare i legami ancora solidi tra i mafiosi siciliani e quelli emigrati negli Stati Uniti.

Anche se non sono mai state fornite prove definitive, sono in molti a pensare che in cambio dovettero concedere ai loro nuovi sostenitori una serie di importanti posizioni nella Sicilia appena liberata, dalle quali la mafia poté riconquistare la sua potenza. 

Nella foto sotto, in attesa di giudizio, imputati mafiosi siedono dietro le sbarre al tribunale di Palermo il 23 febbraio 1928.

 

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