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Perché ci piace tanto dire le parolacce?

La civiltà è nata con la prima parolaccia.

Lo ha sostenuto Sigmund Freud: «La civiltà ha avuto inizio quando la prima persona in preda alla rabbia ha lanciato un’ingiuria anziché una pietra».

Ma perché ci piace tanto dire le parolacce?

Perché sono utili: sostituiscono le aggressioni fisiche e alleviano la rabbia e le emozioni.

Lo dicono sociologi e antropologi, secondo i quali servono anche ad aumentare l’eccitazione sessuale!

Scopriamo insieme, allora, cosa sono le parolacce, la loro utilità, l’origine, il potere e … tanto altro ancora! Buona lettura!

1. Invece delle pietre...

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Invece di scagliarsi pietre o frecce, a un certo punto della preistoria gli uomini hanno cominciato ad aggredirsi a parolacce, a insultarsi e a gridarsi le più indecenti volgarità.

«Le parolacce», ha scritto l’antropologo inglese Ashley Montagu, «sono parole sparate, parole cariche di esplosivi, parole violente, scurrili, rudi, squali canti, sporche. Sono proiettili verbali».

Possono dunque ferire o far molto male, ciò nondimeno la loro invenzione ha segnato un innegabile progresso per l’umanità. Le parolacce, infatti, hanno ritualizzato l’aggressività e dato agli uomini la possibilità di “distruggersi” senza spargimenti di sangue. 

«Il combattimento fisico è brutale», scrive ancora Montagu, «ed è orribile in tutte le sue forme». Grazie alle parolacce, invece, il mondo è diventato meno sanguinario, e «sarebbe ancora migliore se al posto di tutte le guerre, i popoli si assalissero a male parole».

Il turpiloquio, dunque, cioè l’uso di un linguaggio osceno, triviale e intessuto di parolacce, è un fenomeno antichissimo, utile all’umanità e oggetto di intensi studi da parte di antropologia, psicologia, biologia evolutiva, sociologia, storia delle credenze religiose, neuroscienze.

Lo sapevate che la prima parolaccia in italiano è scritta in una chiesa? È scritta a lettere cubitali nella Basilica di San Clemente al Laterano, a Roma.

La chiesa, costruita fra il 1084 e il 1100, ospita nella parte sotterranea, che è la più antica, un ciclo di affreschi dedicati alla vita di papa Clemente, quarto pontefice della storia.

Uno di questi affreschi, databile intorno alla fine del secolo XI, narra la leggenda del prefetto Sisinnio e di Clemente sotto forma di un curioso dialogo a fumetti, scritto in volgare italiano; dalla bocca di Sisinnio esce la seguente esclamazione: Fili de le pute, traite (Figli di puttana, tirate!).

Anche nell’antica Roma volavano gli insulti... Come tutti gli abitanti del pianeta anche quelli di Roma antica dicevano parolacce e si lanciavano o scrivevano insulti osceni e irripetibili. I nostri insegnanti li hanno purgati per noi e per le orecchie di generazioni di adolescenti.

I più comuni, come Es stultior asino (Sei più scemo di un asino) e Irrumator! (Bastardo!), erano insulti da educande in confronto a Es mundus excrementi (Sei un grosso pezzo di m...a), Faciem durum cacantis habes (Hai la faccia di uno str...o c....o a fatica) e Stercorem pro cerebro habes (Hai la m...a al posto del cervello).

Futue te ipsum! (Va’ a farti f.....e!), invece, era il “vaffa” antico, mentre Potes meos suaviari clunes (Baciami il c..o!) un’esortazione ben poco gradevole.

2. Le parolacce alleviano il dolore

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Affettando un salame, il coltello vi sfugge di mano e vi tagliate l’indice. Oppure: martellando, colpite il vostro pollice.

Ancora: trascinando una cassetta di gerani, all’improvviso vi si blocca la schiena. In tutti i casi, reagite imprecando.

Ecco, questa è la prima funzione delle parolacce: sono imprecazioni, cioè modi in cui esprimiamo, quasi senza pensarci, un dolore o un’emozione soverchiante (paura, sorpresa, frustrazione ecc.).

Frank McDermott, socio della McDermott Associates Inc, un’azienda americana che produce diverse componenti degli aerei civili, ha scritto:
«Le ultime parole più frequentemente registrate dalle scatole nere recuperate dopo un disastro aereo sono “Oh shit!” (Oh merda!). Non esprimono panico e non sono nemmeno urlate a squarciagola; esprimono piuttosto un’emozione indicibile a parole, la costernazione rassegnata di chi ha tentato tutto e non sa più che fare».

Qualche anno fa, Richard Stephens, psicologo inglese presso la Keele University, ha condotto un singolare esperimento con i propri studenti: ha chiesto a tutti di tenere una mano nel ghiaccio il più a lungo possibile, ma solo a metà di loro ha consentito di cercar sollievo imprecando.

Ebbene, chi ha potuto sfogarsi con le parolacce è riuscito a sopportare il gelo meglio e più a lungo. Imprecare, ha concluso lo studioso, è un linguaggio emozionale che non solo dà sollievo, ma aiuta anche ad affrontare il dolore o a ridurre l’intensità dello stress (gli studiosi chiamano questo fenomeno lalochezia).

3. Le parolacce hanno il potere d’influenzare la realtà

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Per l’antropologo Ashley Montagu le imprecazioni sono verosimilmente le prime parolacce della storia.

Solo in seguito, quando l’umanità ha iniziato a sviluppare una concezione magico-religiosa delle forze della natura, si sono sviluppate anche le parolacce-maledizioni.

Quelle primitive oggi rivivono negli “auguri” che ci scappano quando siamo imbufaliti: Ma va’ a morì ammazzato, Te possino cecatte, Accidenti a te!, Va all’inferno! e tutta la famiglia dei “vaffa”.

Scrive Vito Tartamella nel suo celebre volumetto sulle parolacce: «Queste parolacce sono formule derivate dai riti magici delle popolazioni primitive in cui si attribuiva alla parola il potere di influenzare la realtà. In effetti, anche le “maledizioni” d’oggi si fondano sulla fede che l’augurio espresso a parole si possa realizzare nei fatti».

Poi, quando nell’antichità la credenza negli effetti magici delle maledizioni è scemata, si sono sviluppati gli insulti; come le maledizioni, anch’essi servono a offendere, emarginare, svilire, ferire, aggredire psicologicamente, ma sono del tutto privi di un alone magico.

Uno degli insulti più frequenti sin dall’antichità è “bastardo” e si capisce facilmente perché: ingloba in un’unica parola sia un’ingiuria alla persona (Tu sei un figlio illegittimo, sei un paria, un disonorato), sia un’offesa a entrambi i genitori (Tuo papà era cornuto e tua mamma si è divertita con qualcun altro).

Una buona fetta di insulti sono comuni a tantissime lingue (pu...na e faccia di m...a, per esempio, sono pressoché universali), mentre altri sono culturalmente determinati: se in Italia diciamo faccia di c..o, in Giappone funziona meglio testa di peto e in Costa d’Avorio diarrea di facocero.

Se ci limitiamo a considerare solo il nostro Paese, possiamo notare differenze sia generazionali sia socio-culturali: quello che tra gli adulti è una testa di c...o tra gli adolescenti è un bimbominkia. In tutti i casi, lo scopo resta sempre lo stesso: far del male senza spargere sangue.

4. Come coltellini svizzeri le parolacce sono usate universalmente

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Le parolacce hanno anche altre funzioni sociali.

Sono il “sale” della comicità sin dai tempi antichi, basti pensare a scrittori latini come Catullo, Marziale, Plauto o Giovenale, decisamente sboccati anche per i nostri tempi, al poeta cinquecentesco Antonfrancesco Grazzini, che scrisse il sonetto In lode dei Coglion, al letterato seicentesco Tommaso Stigliani, autore di una Merdeide, per arrivare ai poeti dialettali dell’Ottocento, come il milanese Carlo Porta e il romano Gioachino Belli, e in fine a Dario Fo.

Le parolacce creano complicità e servono a marcare l’appartenenza a un gruppo sociale, accorciano le distanze (Ciao, vecchio coglione! Come stai?) e creano un clima di allegro cameratismo soprattutto tra maschi.

Il linguista francese Dominique Lagorgette, riferendosi a questa loro funzione, le ha battezzate “insulti di solidarietà”, mentre gli studiosi di lingua anglosassone parlano del social swearing come di un bonding factor, cioè reputano la tendenza a dire parolacce in un contesto amicale alla stregua di un efficace strumento per rafforzare i legami interni.

Le parolacce, in fine, eccitano. Lo aveva già notato Sigmund Freud: il turpiloquio veicola anche la pulsione sessuale e può essere sapientemente usato per aumentare il piacere.

Il turpiloquio è antico come il mondo e vien da chiedersi se sia una caratteristica di certe particolari società o piuttosto una tendenza innata, universale e comune a tutte le culture umane.

L’antropologo inglese Ashley Montagu ha sostenuto che i nativi americani, i malesi, gli indonesiani e i cinesi non conoscono parolacce, ma il linguista statunitense Reinhold Aman lo ha sconfessato: a suo giudizio, non c’è cultura che non abbia parolacce e non conosca volgarità.

Non tutte, però, condividono le medesime parolacce, che sono parole “proibite” perché legate ai tabù vigenti, variabili da società a società. Le parole che si riferiscono agli escrementi e ad altre secrezioni giudicate disgustose (come il vomito) sono molto diffuse perché molte culture condividono i tabù relativi.

Le parole che si riferiscono al sesso sono parolacce pressoché universali perché tutte le culture, stando a quel che sappiamo, condividono il tabù del sesso. A conti fatti, chi ha l’impressione che nessuna società sia mai stata volgare come la nostra deve ricredersi. E consolarsi.



5. Le parolacce sono archiviate nell’emisfero destro e se il nome di un paese suona come una parolaccia... si cambia nome

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  • Le parolacce sono archiviate nell’emisfero destro 
    Già alla fine dell’Ottocento, i medici avevano notato un fenomeno strano: le persone che in seguito a traumi o interventi chirurgici riportavano lesioni cerebrali così gravi da far loro perdere la capacità di parlare, non perdevano, però, quella di imprecare.
    Nel Novecento i ricercatori hanno scoperto che il lobo frontale sinistro (un’area della corteccia cerebrale) ha, tra le altre funzioni, anche quella di inibire il turpiloquio, cioè di vagliare se è il caso di pronunciare una parolaccia.
    Le persone che riportano lesioni al lobo frontale sinistro perdono questa forma di controllo razionale e tendono quindi a imprecare più spesso.
    Qualche decennio fa, si è scoperto che l’uso emotivo delle parolacce coinvolge alcune vie cerebrali molto profonde, deputate all’espressione delle emozioni (come sistema limbico e gangli basali) e che le parolacce sono “archiviate” nell’emisfero destro.
    Chi ha riportato danni in alcune zone di questo emisfero non impreca più.
  • Se il nome di un paese suona come una parolaccia... si cambia nome
    Città e paesi possono cambiare nome se suona volgare. Per esempio, il borgo di Cazzone (Varese) diventa Cantello nel 1895, mentre Castelletto Scazzoso (Alessandria) si trasforma in un sobrio Castelletto Monferrato nel 1937.
    Più complicata la storia di Borgo San Giovanni (Lodi): in origine si chiamava Cazzimani (da Ca’ de Zimani), ma nel 1929, in piena epoca fascista, diventa Borgo Littorio.
    Nel dopoguerra l’allusione al fascio littorio diventa più censurabile d’una parolaccia e il paese sceglie di chiamarsi come il santo patrono.
    All’estero, Fucking (Fottuto) è il nome di un paesino austriaco nella municipalità di Tarsdorf; i turisti non si limitano a ridere, ma rubano tutte le indicazioni stradali per portarsele a casa come souvenirs.
    Identico problema nel villaggio di Shitterton (Merdaio) nel Dorset inglese; qui gli abitanti hanno deciso di comprare un blocco di pietra calcarea del peso di una tonnellata e mezza e di farci incidere il nome del paese nella speranza che nessuno se lo trascini via.
    Lo stesso principio vale anche per i cognomi (Culino, Porco, Cazzarola); si può avviare una pratica per cambiarli, secondo un decreto del Ministero dell’Interno (Dpr 396/2000).








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