Quando il clima diventa alleato decisivo per cambiare la storia1-800x400

Quando il clima diventa protagonista nel cambiare la storia

Le condizioni meteorologiche, si sa, influenzano molti aspetti della vita quotidiana, e in passato hanno avuto un ruolo decisivo anche in diversi episodi storici.

In particolare, gli agenti atmosferici hanno spesso indirizzato l’esito di battaglie fondamentali per i destini di intere Nazioni.

Da Salamina a Teutoburgo, da Azincourt al Giappone e all’America, nubifragi, tempeste di mare, grandinate e nebbie hanno spesso influenzato l’esito di battaglie decisive per il corso della storia.

Ecco 5 celebri esempi dove il clima diventò protagonista nel cambiare la storia.

1. Il vento di Salamina

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La sopravvivenza della civiltà greca, e quindi le basi della civiltà occidentale, furono infatti messe più volte a serio rischio durante le due Guerre greco-persiane, e in particolare nel 480 a.C., quando i Greci dovettero respingere le mire espansioniste di Serse I.

L’imperatore achemenide aveva difatti radunato un esercito imponente e, forte di oltre mille navi e circa 250.000 soldati, aveva invaso l’Attica, piegando una dopo l’altra le principali città, tra cui Atene.

Il grosso della flotta della Lega panellenica era però ancora pressoché integro, al riparo nelle acque attorno alla grande isola di Salamina, distante appena due chilometri dalle coste attiche dove si affaccia il Pireo.

Il politico e militare ateniese Temistocle, consapevole che le circa 380 navi greche ai suoi comandi non avrebbero avuto scampo in mare aperto contro l’assai più numerosa flotta persiana, giocò d’astuzia, e facendo credere ai nemici di volersi ritirare, li attirò nelle insidiose acque attorno all’isola.

La flotta persiana, già la sera del 22 settembre (ma le date esatte della battaglia sono controverse), si dispose all’imbocco del Canale di Megara, sul lato occidentale dell’isola, da dove l’imperatore Serse I si aspettava che sarebbero sbucate le navi greche in fuga.

Quando però, poco prima dell’alba, i Greci salparono, anziché ritirarsi e guadagnare la via del mare aperto attraverso il Canale di Megara, si diressero nella direzione opposta e si ammassarono all’imbocco dello stretto di Salamina, il braccio di mare che separa quest’isola dall’Attica.

Temistocle difatti sapeva bene che, subito dopo l’alba, in quella stagione solitamente cominciano a soffiare venti meridionali i quali, a poco a poco, rendono agitate le acque dello stretto.

In effetti, a mano a mano che le potenti ma ingombranti navi persiane si muovevano in mare aperto lungo le coste meridionali dell’isola per andare a intercettare la flotta greca, il vento si fece via via più intenso e il moto ondoso sempre più sostenuto.

Tuttavia Serse non colse i segnali dell’imminente pericolo. Temistocle, nel frattempo, dispose le più piccole e agili navi greche sul lato settentrionale dello stretto di Salamina, riparate dal vento dietro il promontorio di Cinosura, laddove il sottile braccio di mare è ampio appena 1370 metri.

Così, quando a mezzogiorno il comandante ateniese diede l’ordine di attaccare e la flotta greca abbandonò la sua posizione riparata, la superficie dello stretto era oramai solcata da alte onde e spazzata da venti vorticosi, mentre un migliaio di navi persiane, imbottigliate nel poco spazio disponibile, con margini di manovra ridottissimi e resi ancor più difficoltosi dal vento che soffiava alle loro spalle, erano già allo sbando e cominciavano a scontrarsi fra di loro.

Più manovrabili, più rapide, e con il vento contrario che dava loro una maggior stabilità, le navi greche speronarono e abbordarono una dopo l’altra le navi persiane senza più controllo, infliggendo al nemico una durissima sconfitta.

Serse I perse circa un terzo del suo esercito, e soprattutto il controllo delle truppe e la possibilità di sottomettere la Grecia.

2. Il temporale di Teutoburgo

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Quasi cinque secoli dopo, invece, proprio un inatteso e intenso fenomeno meteorologico arrestò irrimediabilmente l’avanzata romana in Nord Europa.

È difatti questa la principale conseguenza della Clades Variana, la “disfatta di Varo”, durante la quale un esercito che riuniva diverse tribù germaniche agli ordini di Arminio, principe dei Cherusci, massacrò le tre legioni romane condotte dal generale Publio Quintilio Varo, mettendo per sempre fine all’espansione dell’Urbe al di là del Reno.

Più dell’abilità di Arminio, però, in quel giorno infausto per l’Urbe furono decisive l’inettitudine di Varo e la violenza degli eventi atmosferici.

Il tribuno romano, difatti, trascurando di verificare gli avvertimenti di alcuni informatori, fu attirato in una letale imboscata all’interno del Dörenschlucht, una stretta gola nella Foresta di Teutoburgo, nel nord della Germania.

Tuttavia, nonostante il loro eccezionale impeto e il fenomenale coraggio, difficilmente i guerrieri teutonici avrebbero avuto la meglio sulle ordinate legioni romane se, all’improvviso, non fosse arrivato in loro soccorso un violentissimo temporale.

In quell’inizio di settembre del 9 d.C., durante un’afosa e assolata giornata di fine estate, mentre Varo e le sue legioni marciavano all’interno della gola, il cielo si fece rapidamente scuro e minaccioso e un brusco peggioramento del tempo scatenò nella foresta di Teutoburgo una forte tempesta.

Sui legionari romani si scaricò un vero e proprio nubifragio, accompagnato da chicchi di grandine di notevoli dimensioni e una serie impressionante di tuoni e fulmini.

Con gli scudi di cuoio zuppi di pioggia, gli arcieri impossibilitati a usare gli archi infradiciati e i cavalli incapaci di districarsi in spazi stretti, e su un terreno improvvisamente inondato di acqua e fango, le truppe romane si fecero cogliere impreparate dall’attacco dei guerrieri germanici.

Per questi ultimi, invece, il violento temporale assunse il valore di un segno divino che incitava a combattere con maggior veemenza: era Thor, signore nordico dei fulmini e del tuono, che chiamava i suoi guerrieri a guadagnarsi con il sangue il Valhalla, il paradiso degli eroi morti in battaglia.

E così, grazie anche a un temporale, le legioni di Roma furono annientate e lo stesso Varo preferì uccidersi piuttosto che cadere nelle mani del nemico.

Dopo la disfatta di Teutoburgo, i Romani abbandonarono i disegni di conquista della Germania e rinunciarono a espandersi a est del Reno, una frontiera che avrebbe separato per secoli, politicamente e culturalmente, le due metà dell’Europa centrale.

3. La nebbia delle Due Rose

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Nella seconda metà del XV secolo, quando per trent’anni le famiglie York e Lancaster si contesero il trono d’Inghilterra dando vita a una lunga e sanguinosa guerra civile passata alla storia come Guerra delle due Rose, accade che fu la nebbia a decidere addirittura chi dovesse essere incoronato re d’Inghilterra.

Nell’aprile del 1471, infatti, le truppe di re Edoardo IV, della casata York, e l’esercito della famiglia Lancaster, si fronteggiarono nei pressi della città di Barnet, in una regione paludosa a poca distanza da Londra.

La sera del 13 aprile tutta la zona era avvolta da una fitta nebbia e, ignari delle reciproche posizioni, gli opposti eserciti si accamparono ad appena 200 metri di distanza l’uno dall’altro.

Una circostanza che permise agli York di scampare fortunosamente al cannoneggiamento notturno del nemico: nella convinzione che le truppe degli York fossero più distanti, i cannoni dei Lancaster, infatti, mirarono molto più lontano del necessario.

La nebbia fu protagonista anche il giorno successivo, sempre a favore degli York. Con le prime luci dell’alba, infatti, i due eserciti cominciarono ad avanzare, senza avere la minima idea di dove si trovasse il nemico: la nebbia era così fitta da permettere a malapena ai soldati di vedere davanti a sé il terreno.

Così, all’improvviso, i rispettivi fianchi sinistri vennero in contatto costringendo i due schieramenti a ruotare, avvitandosi fra loro fino a rendere il campo di battaglia un’enorme bolgia in cui a regnare era la confusione.

Inizialmente, agevolate da un terreno più facile, le truppe Lancaster si mossero più velocemente e il fianco sinistro dell’esercito di Edoardo di York fu preso alle spalle e messo in fuga.

Tuttavia, avvolto nella nebbia, il resto dell’esercito di re Edoardo non si accorse della disfatta della propria ala sinistra e dell’inferiorità numerica in cui si era venuto a trovare: le truppe quindi si scagliarono contro il nemico con impeto e fiducia inalterati.

Nel frattempo il conte di Oxford, al comando della potente cavalleria dei Lancaster, decise di buttarsi nel centro della battaglia ma, a causa della fittissima nebbia, sbagliò totalmente direzione e si lanciò al galoppo contro le truppe amiche comandate dal marchese di Montagu che, sciaguratamente, confuse l’emblema del conte di Oxford, fatto di stelle e raggi, con il sole splendente degli York.

Le conseguenze di quel malinteso per i Lancaster furono disastrose: Montagu ordinò agli arcieri di scaricare una pioggia di frecce contro gli assalitori, mentre i cavalieri del Conte di Oxford, pensando a un improvviso tradimento, attaccavano le truppe di Montagu dando inizio a un massacro fratricida.

Così la battaglia di Barnet si rivelò per i Lancaster una vera e propria disfatta, che parve escluderli definitivamente dalla lotta per la corona inglese, poi in realtà riconquistata nel 1485 da Enrico VII Tudor.

4. Il Giappone salvato dai tifoni

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Per invadere l’arcipelago giapponese, Kublai Khan fece costruire ai sudditi cinesi, abili navigatori, una grande flotta con cui trasportare i temibili guerrieri mongoli al di là del mare.

Così, dopo anni di preparativi, nel 1274 l’imperatore mongolo lanciò un primo assalto alla terra dei samurai: circa 900 navi trasportarono un esercito di più di 30.000 soldati, fra veterani mongoli e truppe reclutate in Corea, fin sulle coste di Kyushu, la più meridionale delle quattro isole principali del Giappone.

Durante la prima settimana i Mongoli, guidati dallo spietato Lin Fok Heng, incontrarono una debole resistenza e fecero strage fra la popolazione; ma il 24 novembre, nei pressi di Hakosaki, dovettero affrontare la furia dei samurai guidati dallo shogun Tokimune

Le perdite furono pesantissime da ambo le parti, e temendo che nell’oscurità l’abilità dei Giapponesi nel corpo a corpo avesse la meglio, Lin Fok Heng ordinò che le sue truppe passassero la notte a bordo delle navi, per poi riprendere lo scontro il giorno successivo.

Gran parte dei suoi uomini, però, non vide mai l’alba: i venti devastanti di un tifone, difatti, quella notte stessa investirono l’isola di Kyushu, affondando numerose navi e uccidendo più di un terzo delle truppe mongole.

Con l’esercito malconcio e decimato, Lin Fok Heng fu costretto a rinunciare all’invasione e riportò le truppe mongole in Cina. Ciò però non bastò per far desistere Kublai Khan dal suo ambizioso progetto.

Negli anni che seguirono preparò una flotta ancora più grande e nel giugno del 1281 si lanciò nuovamente all’assalto del Giappone, con un esercito di circa 4000 navi e di 130.000 uomini.

I Giapponesi, in numero assai minore, opposero una strenua resistenza e i combattimenti durarono per l’intera estate.

Tuttavia la soverchiante superiorità numerica di settimana in settimana rese il compito dei difensori sempre più arduo e infine a metà agosto i Mongoli radunarono la loro grande flotta per sferrare l’attacco decisivo e annientare le ultime resistenze sull’isola di Kyushu.

Ancora una volta, però, in soccorso dei Giapponesi giunsero le forze della natura: con gran parte dell’esercito mongolo ancora stipato nelle navi, un violentissimo tifone investì nuovamente quei mari, spazzando via la flotta d’invasione con venti che soffiavano a oltre 200 chilometri orari e onde alte diversi metri.

Per i Mongoli fu un vero e proprio disastro e per Kublai Khan la fine dei sogni di conquista, mentre quel vento furioso e provvidenziale venne ribattezzato dai Giapponesi con il nome di kamikaze, ovvero “vento divino”.



5. La nebbia d’indipendenza

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La nebbia giocò un ruolo decisivo nella Guerra d’Indipendenza americana, impedendo agli Inglesi di cogliere pienamente i frutti della grande vittoria ottenuta nell’estate del 1776 a Long Island, la principale delle isole della costa orientale degli USA, oggi parte integrante della metropoli di New York.

Lì, fra il 22 e il 27 agosto del 1776, si era combattuta la prima grande battaglia della Guerra d’Indipendenza, passata alla storia, appunto, come Battaglia di Long Island.

Lo scontro si risolse in una schiacciante vittoria delle truppe britanniche guidate dall’ammiraglio Richard Howe e costrinse gli insorti a una precipitosa ritirata, che però li lasciò intrappolati sull’isola, esposti seriamente al rischio di venire annientati dalle armate nemiche.

La flotta britannica, forte di ben 88 fregate, si dispose in modo da bloccare ai ribelli americani la via della ritirata attraverso l’East River, lo stretto braccio d’acqua che separa Long Island tanto dall’isola di Manhattan quanto dalla terraferma, all’altezza dell’odierno quartiere del Bronx.

Ma nel corso della notte successiva alla battaglia, fra il 27 e il 28 agosto, una densa coltre di nebbia avvolse tutta quell’ampia area costiera, nascondendo alla vista delle sentinelle di Sua Maestà i movimenti dei reparti americani.

Le armate dei ribelli, guidate dal futuro presidente americano George Washington, colsero al volo l’occasione, e approfittando dell’insperato aiuto meteorologico riuscirono a organizzare una temeraria fuga attraverso l’East River, passando a poca distanza dalle navi britanniche senza essere scoperti.

Insomma, se nonostante la schiacciante vittoria gli Inglesi non riuscirono a soffocare sul nascere le richieste di indipendenza dei coloni americani, parte del merito va, probabilmente, proprio a quel provvidenziale nebbione.

Del resto, già nel 1862 Charles Creighton Hazewell, noto giornalista ed editore americano, scrisse sulla rivista Atlantic Monthly che “gli Americani dovrebbero sempre salutare l’arrivo della nebbia con una certa reverenza, considerando che proprio una nebbia salvò la loro Nazione nel lontano 1776”.






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