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Souvenir, i trofei di viaggio

Gli ultimi sono stati i “Crown Jewels”, i gioielli della Corona: nonostante il nome altisonante e la confezione raffinata (che quando si apre suona l’inno britannico God save the Queen), è una confezione di 4 preservativi.

È stata lanciata lo scorso maggio per le nozze fra il principe Harry e Meghan Markle.

Non era l’unico souvenir prodotto in occasione del matrimonio reale: si aggiunge alle salsicce “Majestic”, alla birra “Windsor knot” e al bavaglio per cani griffato Harry e Meghan.

Anche se fanno sorridere, questi gadget sono un business maledettamente serio: solo per questo evento, nel Regno Unito hanno alimentato un mercato di 80 milioni di euro.

Un affare che non lascia indifferenti neppure le istituzioni: a giugno il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto registrare il marchio dell’Eliseo, da riprodurre su tazze, portachiavi e magneti. Gli introiti serviranno a finanziare il restauro del palazzo presidenziale.

I ricordini, infatti, sono un potente motore dell’economia: solo in Italia alimentano un mercato da oltre 700 milioni di euro, che salgono a 14,4 miliardi negli Stati Uniti.

I souvenir sono tarocchi, retorici, kitsch. Eppure esistono fin dalla Preistoria. Come si spiega l’attrazione planetaria per oggetti così pacchiani, che spesso, dopo le vacanze, finiscono in soffitta? Scopriamolo insieme.

 

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1. Saccheggi primitivi

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Come si spiega l’attrazione planetaria per oggetti così pacchiani, che spesso, dopo le vacanze, finiscono in soffitta?

Comprare i souvenir è un rito tranquillizzante:
«Quando si è lontani da casa, fare shopping è un’attività ordinaria in un ambiente straordinario. E il turista si concentra su oggetti e monumenti perché capire le persone è molto più lungo e impegnativo», osserva l’antropologo Duccio Canestrini nel libro Trofei di viaggio (Bollati Boringhieri). 

Per i giapponesi il regalo di viaggio (omiyage) è addirittura un obbligo, per scusarsi della propria assenza dai doveri domestici.

Tanto che all’aeroporto di Tokyo c’è un negozio di souvenir internazionali (profumi francesi, cioccolato svizzero, whisky scozzese) per i turisti che non sono riusciti a comprarli durante il viaggio.

Ma attenzione a liquidare il fenomeno solo come una degenerazione del turismo di massa. Le raccolte di souvenir, infatti, hanno fatto nascere i templi della cultura, i musei. E la loro storia è antica quanto l’uomo: nelle grotte di Arcy-sur-Cure, in Francia, hanno trovato insoliti fossili di conchiglie.

Da lì il mare dista 400 km: dunque, 30mila anni fa gli uomini primitivi «raccolsero quei fossili e li portarono nelle grotte, per conservarli e mostrarli agli altri. Uno dei primi saccheggi turistici della Storia», ricorda Canestrini. I gadget infatti soddisfano un’esigenza importante: ricordarci chi siamo attraverso i viaggi che abbiamo fatto.

Souvenir deriva dal latino subvenire, accorrere in aiuto, venire alla memoria: «Sono concepiti per essere guardati a casa, ruminando le emozioni del viaggio. Certificano che abbiamo sperimentato uno spaesamento che ci ha fatti crescere», racconta Canestrini.

Oggi i ricordini si sono trasformati: sono diventati piccoli e low cost, al servizio di un turismo frettoloso che non può imbarcare grandi ingombri in aereo. Si possono comprare sul Web anche senza muoverci da casa.

E sempre più spesso consistono in cibi e bevande locali: secondo Coldiretti, il boom per la cucina assorbe ormai 1⁄3 delle spese di viaggio. I gadget moderni sono legati non solo ai viaggi, ma anche agli eventi (gare sportive, concerti o cerimonie come il matrimonio dei principi britannici).

Rispondono all’esigenza di testimoniare – in un’epoca invasa dal “virtuale” – che abbiamo partecipato in carne e ossa a un’esperienza importante.

 

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2. Reliquie e musei

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Ma come siamo arrivati fin qui? La storia dei souvenir è poco nota ma tutt’altro che banale.

E molto lunga: già nel II secolo d.C. lo scrittore Luciano di Samosata sbeffeggiava le statuine senza valore vendute ai turisti che si recavano a Cnido per ammirare la statua di Afrodite scolpita da Prassitele.

Col cristianesimo, dal IV secolo iniziarono i viaggi religiosi. I pellegrini di ritorno da Gerusalemme volevano un oggetto che ricordasse loro la Città santa: all’inizio così raccoglievano la terra della chiesa dell’Ascensione, dove Gesù poggiò i piedi per l’ultima volta prima di salire al cielo.

Presto si scatenò una caccia alle reliquie sacre, considerate miracolose. Ed esplose il loro mercato, anche delle più improbabili: nel Medioevo ben 18 chiese asserivano di possedere i resti del prepuzio di Gesù, asportato con la circoncisione.

Solo alla fine del 1500, con la scoperta del Nuovo mondo, si tornò a viaggiare più per curiosità intellettuale che per devozione. E molti nobili, in giro per il mondo, collezionavano meraviglie naturali, storiche e scientifiche: pelli di animali esotici, piante e minerali insoliti.

Erano le “stanze delle meraviglie”: un modo per promuovere la propria immagine pubblica, dato che solo ricchi e nobili potevano permettersi i viaggi in Paesi lontani.

Da queste stravaganti collezioni sono nati i musei moderni: il British Museum di Londra è sorto dalla collezione di reperti di viaggio che nel 1759 il naturalista Hans Sloane donò al re Giorgio II.

Nel 1800, con l’invenzione del battello a vapore e della ferrovia, iniziò l’era del turismo di massa. Ed esplose la mania dei ricordini, con effetti spesso dannosi: frotte di turisti andavano a vedere la roccia di Plymouth (foto, sotto), il luogo dove erano sbarcati i Padri Pellegrini, che iniziarono così la colonizzazione e la storia degli Usa.

Ogni visitatore, con un martelletto, ne staccava un pezzo: nel 1880 si era ridotta a un terzo delle sue dimensioni originarie. Così i custodi dovettero proteggerla con un cancello.

L’abitudine di portare a casa un pezzo di natura è un istinto difficile da controllare, anche oggi: dopo le scorribande dei turisti, nel 2017 la Regione Sardegna ha vietato il prelievo di sabbia, conchiglie e pietre dalle sue spiagge, punendo i trasgressori con multe di 1.000 €.

Con il turismo di massa è iniziata la produzione in serie di souvenir. All’Expo di Parigi del 1889 esordirono due “classici”: le palle di vetro coi paesaggi e le cartoline illustrate. Un ricordo economico, facile da trasportare e da collezionare.

E con un timbro che certificava che il viaggio era realmente avvenuto. Nulla in confronto all’esplosione di gadget avvenuta nel 1900: tazze, T-shirt, portachiavi, magneti... Un campionario che spesso diffonde stereotipi, luoghi comuni: la matrioska per la Russia, il sombrero per il Messico, il carretto per la Sicilia.

“Questi oggetti oggi non si usano più, ma per i turisti rappresentano il vero spirito di quei luoghi: così i negozi puntano su di loro”, scrive il saggista Rolf Potts in Souvenir (Bloomsbury).

“È un’autenticità scenografica: un modo di convincere noi stessi e gli altri che siamo andati in un posto e ne abbiamo colto l’essenza autentica”.

 

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3. Iperoggetti e Ground Zero

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  • Iperoggetti
    Il ricordino, infatti, è un oggetto denso di messaggi: ci sono magneti con la scritta “Italia” che, in pochi cm2 hanno le miniature del Colosseo, del Duomo di Milano, della torre di Pisa e del ponte di Rialto.
    “I souvenir sono iperoggetti, nei quali l’artificiosa concentrazione di senso riflette la concentrazione di esperienze vissute in vacanza.
    E questa sintesi avviene con simboli riconoscibili da tutti”. E piccoli, visto che devono stare in valigia. È un mercato drogato verso il basso.
    Ormai i turisti vogliono spendere al massimo 5-10 € per un ricordino, e per quella somma c’è solo la chincaglieria.
    Se vogliamo valorizzare il nostro artigianato (pizzi di Burano, vetri di Murano) dobbiamo puntare su un turismo più selezionato, meno mordi e fuggi. Magari col numero chiuso.

 

  • Ground zero
    La retorica non è l’unico neo dei ricordini. Che spesso scivolano nel kitsch o nel cattivo gusto: dai memorabilia di Mussolini (il Comune di Bologna ne ha vietata la vendita) fino ai soprammobili ricavati dallo scroto di canguri, come racconta il saggista Doug Lansky nel libro Crap souvenirs, souvenir di merda (Perigree).
    Esistono perfino souvenir dell’attentato dell’11 settembre: gadget con i loghi della polizia e dei pompieri, venduti dal Memoriale di Ground Zero a New York per finanziarsi (foto, sotto).
    L’idea non è piaciuta ai parenti delle vittime: «Aprire un’impresa commerciale nel luogo in cui è morto mio figlio Matthew è scioccante e ripugnante», ha protestato Diane Horning sul New York Post.
    In quanto oggetti industriali globalizzati, sono uguali ovunque perché prodotti in serie. È la airport art, uguale a ogni latitudine e soggetta al plagio: «Noi li progettiamo, poi li facciamo produrre in Cina», racconta Sergio Zammarchi della Maxim di Bolzano.
    «I souvenir seguono le mode: un tempo andavano le statuine barometriche (mutavano colore col cambio di umidità), gli oggetti di alabastro o il grattaschiena-calzascarpe. Oggi vanno articoli più piccoli: tutto ciò che è immediato, spiritoso e a basso costo. Se un articolo funziona, dura 2-3 anni, poi passa di moda. Ma nel frattempo lo copiano tutti».

 

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4. Amazon e falsi

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E oggi, con Amazon, i souvenir di tutto il mondo si possono avere anche senza muoversi da casa: il trionfo del virtuale.

Ma non è una novità: «Nel 1761 Carlo Goldoni, nelle Smanie per la villeggiatura, metteva in ridicolo gli sforzi della borghesia di apparire ricca ostentando una vacanza fuori città: da sempre, viaggiare è segno di prestigio», ricorda Canestrini.

Oggi tanti fattori mettono in crisi l’autenticità dei ricordini. Un turista cinese che visita Venezia, tornerà a casa con una gondoletta... made in China.

Senza contare i souvenir palesemente tarocchi, come le bottiglie d’acqua del Canal Grande (imbottigliata a Firenze) o le scatole d’aria di Napoli.

Ma è davvero importante l’autenticità dei souvenir? “No, perché sono attaccapanni narrativi: servono solo a conservare i ricordi”, scrive Orvar Löfgren in Storia delle vacanze (Mondadori).

“Il loro significato sta nella magica capacità di riportare alla mente persone e luoghi. Ci possono essere milioni di magneti con la Torre Eiffel, ma nemmeno due veicolano lo stesso significato”.

Insomma, il valore dei souvenir è nella nostra testa: «Mesi fa, a casa di mia zia Lynda, morta a 83 anni, abbiamo trovato scatoloni pieni di cartoline, statuine in alabastro, figurine in ottone... Per lei erano importanti, ma i suoi parenti più stretti li hanno buttati via», conclude Potts.

«I souvenir sono la stessa cosa: li raccogliamo perché per noi hanno senso. Ma senza la nostra memoria diventano ciarpame».

Dunque, se qualcuno vi mostra i profilattici griffati Harry & Meghan, non prendetelo in giro: potrebbero rappresentare un ricordo prezioso.

 

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5. Classificazione dei souvenir, il copyright del Vaticano e tante altre curiosità

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  • Classificazione dei souvenir
    Secondo Beverly Gordon, docente di cultura materiale all’Università del Wisconsin (Usa), i souvenir si possono classificare in 5 grandi tipi:
    1) frammenti fisici: oggetti prelevati dai luoghi visitati (rocce, conchiglie, fiori, ma anche biglietti del treno o dei musei);
    2) prodotti locali: cibi (panettone di Milano), bevande (limoncello di Napoli), prodotti artigianali (vetro di Murano);
    3) immagini pittoriche: cartoline, poster, libri con foto dei luoghi;
    4) marcatori: scritte (I ♥ NY) o disegni delle attrazioni (gondola di Venezia) su T-shirt, spille, tazze;
    5) abbreviazioni simboliche: miniature di monumenti/attrazioni (Colosseo, torre Eiffel, Duomo di Milano).

 

  • Il Vaticano e il business delle foto papali protetto da copyright
    Le foto del papa su calendari e gadget? Sono protette da copyright: per usarle, bisogna prima chiedere il permesso al Vaticano. E pagare i relativi diritti.
    Nel 2011, una legge emanata sotto papa Benedetto XVI (la “disciplina CXXXII”) ha stabilito che l’immagine del papa è protetta da diritto d’autore: quindi per usarla a scopo commerciale occorre l’autorizzazione del Vaticano.
    E bisogna pagare i relativi diritti di immagine, di solito intorno al 10% degli introiti stimati.
    La norma è un modo per prevenire l’uso improprio dell’immagine del papa. E, di fatto, una fonte di introiti per lo Stato pontificio.
    Difficile sapere quanti siano: gli unici dati – rivelati dalla Divisione produzione fotografica del Vaticano – sono che nel 2017 sono state presentate oltre 700 richieste (soprattutto da Italia, Francia e Germania), e che, nell’ultimo decennio, la punta più alta è stata nel 2013, con l’elezione di papa Francesco.

 

  • I più odiati dagli Italiani
    Il sito subito.it ha censito i souvenir più riciclati sui siti di compravendita:
    1) miniature di monumenti e statue;
    2) cd con canzoni tradizionali;
    3) sfere con neve che cade;
    4) conchiglie e oggetti fatti di conchiglie;
    5) prodotti gastronomici comprati al duty free.

 

  • Gli articoli gastronomici più comprati:
    16%: parmigiano
    14%: pane di Altamura
    13%: mozzarella di bufala
    10%: pasta pugliese
    10%: olio toscano
    10%: Brunello di Montalcino

 

  • Spesa media giornaliera di un turista in souvenir:
    Torino: 11,55 €
    Milano: 9,15 €
    Venezia: 8,25 €
    Firenze: 8,48€
    Roma: 18,74€

 

  • I record:
    - 621:
    i piatti ricordo della famiglia Kundin a Mosca (Russia): vengono da 120 Paesi. La loro collezione è finita sul Guinness dei primati.
    - 10.000:
    pezzi fra poster, tazze, libri: i memorabilia reali raccolti dalla collezionista Margaret Tyler, 74 anni, inglese.
    - 5.000:
    le miniature di monumenti di tutto il mondo collezionate dagli architetti David Weingarten e Lucia Howard (Usa).

 

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