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Sparta, la mitica rivale di Atene: ascesa e declino di una leggenda intramontabile

Dici Sparta e la prima cosa che viene in mente sono le Termopili, con i suoi 300 valorosi guerrieri pronti al sacrificio e quel molòn labé, “vieni a prenderle”, sussurrato in tono di sfida dal re Leonida, in risposta al sovrano persiano Serse che gli chiedeva di consegnare le armi.

Sobri, spicci, laconici di nome e di fatto, gli Spartani.

Proprio come la loro città, “simile a un accampamento militare” secondo il retore ateniese Isocrate: una città epica, tutta frugalità, addestramento militare e vita in comune, priva di templi preziosi e costruzioni imponenti.

Una “polis senza mura”, perché a difenderla bastavano gli indomiti abitanti e la sua invidiabile posizione geografica, nella fertile piana del fiume Eurota, delimitata e protetta da due catene montuose: quella del Taigeto a occidente e del Parnone a oriente.

Così le fonti antiche descrissero questa città dall’aura leggendaria, sorta in Laconia, una regione storica del Peloponneso Meridionale, in un momento imprecisato tra l’XI e il IX secolo a.C.

Ma, oltre ogni idealizzazione, quanto sappiamo realmente della superpotenza che per secoli ricoprì un ruolo di primissimo piano nel mondo ellenico? Scopriamolo insieme.

 

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1. LEGGENDARIA E CON I PIEDI PER TERRA

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Secondo la tradizione, la sua nascita risaliva all’arrivo nel Peloponneso dei Dori.

Al fianco di queste genti, che avevano occupato la Laconia cacciandone la popolazione achea, ci sarebbero stati gli Eraclidi, i discendenti del semidio Eracle, tornati a riconquistare il territorio da cui li aveva espulsi Euristeo, il re di Micene e Tirinto.

Oggi molti storici ritengono che gli Spartani discendessero dall’unione di quelle nuove genti che si erano insediate nella regione con la scarsa popolazione indigena.

Eppure definirsi di stirpe dorica e dire di aver preso possesso di quella terra con la forza delle armi era un punto d’onore per gli abitanti di Sparta, che legittimavano la loro conquista autodefinendosi Eraclidi.

Per questo motivo, pur sottolineando la forte discontinuità tra la Sparta degli antichi Achei e la loro città dorica, gli Spartani tenevano in gran considerazione il proprio passato leggendario.

Nel prequel acheo, il fondatore della città sarebbe stato il re della Laconia, Lacedemone, uno dei numerosi figli nati dalle voglie di una notte di Zeus. In origine il sovrano aveva dato il proprio nome alla città, che solo in seguito avrebbe preso quello di sua moglie: Sparta.

Sul trono, intorno al XIII-XII secolo a.C. si sarebbe seduto tra gli altri anche Menelao, il marito della famosa Elena che, fuggita a Troia con l’aitante principe Paride, avrebbe causato la guerra narrata da Omero nell’Iliade.

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E i Dori? Sarebbero arrivati durante il regno del nipote di Menelao, Tisameno, spodestato dai gemelli Euristene e Procle, fondatori della Sparta dorica e capostipiti delle famiglie degli Agiadi e degli Europontidi che, da allora e fin quasi alla fine del III secolo a.C., avrebbero fornito a Sparta due re, incaricati di governare in coppia.

Nella realtà, invece, come andarono le cose? Da un punto di vista storico, furono due i momenti cruciali della storia costitutiva di Sparta. Il primo fu l’unione dei quattro villaggi della piana dell’Eurota: Limna, Pitane, Mesoa e Cinosura, a cui in un secondo momento fu accorpata anche la più distante Amicle.

Il secondo, l’opera del leggendario legislatore Licurgo (foto sotto, in un quadro ottocentesco). È a lui che venne attribuita la Grande rhetra, il corpus di norme ricevuto dall’oracolo di Delfi che regolava le istituzioni politiche e la vita sociale di Sparta.

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Pare fosse all’incirca il VII secolo a.C.: la città, le cui leggi, secondo Erodoto, erano “le peggiori della Grecia”, era agitata da disordini interni, ma la costituzione di Licurgo la salvò.

“Un giorno riflettevo su come Sparta, una delle città meno popolose, sia divenuta una delle più potenti e celebri città della Grecia e mi stupivo di come ciò potesse essere avvenuto. Poi pensai alle istituzioni degli spartiati e finii di stupirmi”, scrisse intorno al 380 a.C. lo storico ateniese Senofonte.

E come lui la pensavano molti dei suoi contemporanei, che provavano ammirazione per il particolare ordinamento di Sparta, in cui monarchia, oligarchia e democrazia tendevano in parte a mescolarsi.

All’epoca, la grande stagione spartana, cominciata intorno al 550 a.C., stava ormai per concludersi. Ma per arrivare fin lì, i guerrieri spartani avevano dovuto calcare molti campi di battaglia.

Qua sotto, Sparta immaginata in un quadro dell’800.

 

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2. GLORIOSA

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All’inizio, come sempre accade, avevano attaccato briga coi vicini, ma il passo decisivo nella costruzione della propria egemonia si rivelò quello che li condusse oltre il confine occidentale della Laconia, in Messenia.

Le due guerre messeniche (VIII-VII secolo a.C.) furono lunghe e impegnative, tanto da mettere in pericolo l’esistenza stessa di Sparta. Poco sappiamo sulle cause del conflitto, ma è certo che l’annessione della regione al territorio della Laconia fu molto vantaggiosa.

Quella conquista, infatti, accrebbe la fama, la ricchezza e l’autorità spartana: nessun’altra polis continentale controllò mai un territorio altrettanto grande e questo influenzò anche la politica espansionistica della giovane potenza.

Perché sprecarsi a colonizzare territori d’Oltremare come le altre città greche, quando bastava sfruttare quell’enorme serbatoio di orzo, frumento e olive grazie alle braccia degli iloti (in greco, “i conquistati”), gli schiavi pubblici della città? Forte della nuova stabilità socioeconomica, Sparta si assunse onori e oneri della propria posizione.

A partire dal VI secolo a.C., la città si impegnò in una politica estera non solo di aggressione, ma anche di consolidamento diplomatico della propria leadership nel Peloponneso.

Questa politica la condusse alla costituzione della Lega peloponnesiaca, che garantì agli Spartani, grazie a una serie di trattati bilaterali, l’appoggio militare delle altre poleis. Non immaginiamoci una lega vera e propria, paragonabile, per intenderci, a una moderna Nato.

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“I Lacedemoni e i loro alleati”, la definizione che ne davano i Greci all’epoca, assomigliava più a una rock- band, costruita esclusivamente intorno alle esigenze del suo leader: le città che ne facevano parte erano alleate di Sparta ma non fra di loro, mentre Sparta, dal canto suo, pensava più a se stessa che al bene collettivo dei federati.

Ma allo scoppio della Seconda guerra persiana, la Lady Gaga dei Greci non poté sottrarsi ai propri doveri: nel 480 a.C., quando la Grecia fu invasa dalle armate persiane, tutti furono d’accordo nell’attribuirle il comando dell’alleanza ellenica. Ironia della sorte, a legittimare la sua gloria fu una sconfitta: quella, famosissima, di Leonida alle Termopili.

La débâcle del re, a cui seguì comunque la vittoria greca sui Persiani, ottenuta al comando degli Spartani sulla terraferma e degli Ateniesi sul mare, venne rivenduta dalla propaganda come il successo degli eroici valori di Sparta e della legge che ordinava di “non sottrarsi alla battaglia [...], ma di vincere o morire rimanendo al proprio posto”.

Ad Atene, però, non era sfuggita la ritrosia spartana a inviare i propri uomini a combattere per la salvezza di tutta la Grecia. Lo scontro ideologico fra le due potenze si trasformò presto in aperto conflitto: la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) fu inevitabile e si concluse con la sconfitta della città del Partenone.

Per Sparta cominciò una nuova fase storica, che la vide primeggiare, militarmente e politicamente, sulle altre poleis della Grecia continentale. Eppure, proprio all’acme della sua potenza, la città andò incontro a un rapido declino.

Qua sotto, Leonidas in corrispondenza delle Termopili, 1813 da Jacques-Louis David (1748-1825).

 

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3. A SCUOLA DI GUERRA

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Il bebè veniva festeggiato con ghirlande di olivo (per i maschi) e di lana (per le femmine), frizionato con vino per indurirgli la pelle e consegnato alla nutrice per crescerlo e svezzarlo.

Di avvolgerlo in fasce non se ne parlava proprio, ma nemmeno di buttarlo dalla rupe se aveva qualche difetto, come affermava Plutarco.

Secondo Senofonte, tre erano i momenti che segnavano la formazione dei giovani: a sette anni i bambini appartenevano alla paides (l’infanzia) e, a spese della polis, venivano accolti nel circuito dell’agoghé.

Prelevati dalle loro case erano consegnati al paidonómos (“mandriano di ragazzi”), il magistrato che supervisionava l’educazione degli spartiati, eletto dai cittadini e in carica per un anno.

A 14 anni entravano fra i paidískoi (gli adolescenti). Le materie insegnate? L’obbedienza e la resistenza, la lealtà verso lo Stato, ma anche le lettere e l’aritmetica (giusto lo stretto necessario, secondo Plutarco). Apprendevano a marciare in formazione di battaglia cantando le elegie di Tirteo.

Giravano scalzi con i capelli rasati e vestiti di poco, un solo mantello buono per tutte le stagioni, per abituarsi ai cali di temperatura. Potevano lavarsi poche volte l’anno ed erano perennemente sottoalimentati, tanto da dover rubare il cibo ai compagni.

Senofonte accenna ai giovani che si disputavano pezzi di formaggio, davanti all’altare della dea Artemide Orthia, come se fosse una cerimonia collaudata: alcuni afferravano il cibo, altri li fustigavano a sangue. Faceva tutto parte dell’addestramento estremo: tanto la capacità di cavarsela in ogni situazione, di rubare se necessario, quanto resistere con coraggio a qualsiasi punizione.

Qua sotto, ragazzi tirano con l’arco (tela di C. W. Eckersberg, 1812). Platone racconta che restavano fuori a lungo, in un esercizio di resistenza al dolore e alla fatica (krypteía).

A partire dai 20 anni, per una decade diventavano hébôntes (“giovani uomini”). I ragazzi vivevano in gruppi detti “mandrie” e fino ai 25 anni, anche da sposati, non potevano nemmeno mangiare con la propria moglie. Rientrava nel ciclo delle prove da affrontare anche il sesso, favorito – già prima del matrimonio – tra fanciulle e fanciulli, e non solo.

Fonti antiche parlano, infatti, dell’omosessualità a Sparta come di un fatto noto, un rito di passaggio: una variante della “pederastia greca” finalizzata alla formazione di unità militari, usata probabilmente per rinsaldare lo spirito di corpo fra i guerrieri.

Non un esempio isolato nel mondo greco, dove il Battaglione sacro di Tebe, il corpo militare che sbaragliò gli Spartani a Leuttra (371 a.C.) mettendo fine alla loro egemonia, era composto di coppie: soldati spietati e disposti a combattere fino al sacrificio estremo proprio perché si trovavano a difendere il proprio amante.

Disciplina e rigore erano dunque la quotidianità. Le punizioni corporali facevano parte integrante dell’educazione, diventavano più pesanti a mano a mano che si cresceva, e potevano essere impartite non solo dal padre, ma da qualunque adulto le ritenesse opportune.

La disobbedienza era punita dai mastigofori, i portatori di frusta, ausiliari del paidonómos. Senofonte racconta che la fiducia di ogni spartiate nel giudizio dei suoi simili era totale, tanto che se un ragazzo andava a piangere dal padre per i colpi che gli erano stati inferti da altri, per il genitore era un’onta che doveva essere lavata con nuove punizioni da somministrare al figlio.

Divenuti, uomini, hómoioi, avrebbero preso il loro posto nella falange andando a formare le “mura di Sparta”. La città, infatti, poté fare a meno di una cinta muraria per tutto il periodo della sua supremazia sulle altre poleis. Contava sul petto dei suoi giovani per fare barriera.

Solo superando l’agoghé si diventava pienamente cittadini: Senofonte sostiene che chi non entrava in quel circuito di educazione e addestramento non poteva accedere alle magistrature elettive né ai corpi d’élite.

Non è certo che questo ciclo di istruzione potesse servire anche a emergere dalla schiavitù e che gli iloti, per esempio, potessero acquisire gli stessi diritti degli spartiati. Ma chi non superava l’agoghé di sicuro non diventava un purosangue. E a Sparta non serviva.

Nella foto di sotto, i resti del teatro di Sparta, sul versante meridionale della collina dell’acropoli. Risale all’inizio del periodo romano (II secolo a.C.), quando anche Sparta finì sotto il dominio dell’Urbe.

 

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4. IL TRAMONTO

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Proprio all’acme della sua potenza, Sparta andò incontro a un rapido declino. Che cos’era successo?

Gli Spartani non avevano più la forza necessaria per subentrare ad Atene nella gestione dell’impero ereditato dal disfacimento della Lega delio-attica.

Nel giro di poco più di 30 anni, secondo le parole del filosofo Aristotele, “Sparta non fu in grado di resistere a una sola sconfitta”: nello specifico, quella inflittale a Leuttra dai Tebani del generale Epaminonda (371 a.C.).

Fu un evento epocale: pareva incredibile che gli Spartani fossero stati umiliati in una battaglia campale. Ma è anche vero che, se bastò una sola sconfitta a mettere fine all’egemonia spartana, era perché la crisi attraversata dalla sua società aveva raggiunto un punto di non ritorno.

Aristotele in effetti precisava anche che, dopo Leuttra, Sparta andò in rovina “per mancanza di uomini”. La sua crescita demografica, che aveva raggiunto l’apice nel VI secolo a.C., si era infatti ridotta, segnata, oltre che dalle guerre, anche dal grave terremoto del 464 a.C. e dalla conseguente rivolta degli iloti.

Significa che da circa 40mila cittadini (di cui almeno un quarto erano uomini in grado di combattere) a Sparta non erano rimasti più di mille guerrieri. Impossibile, con questi numeri, far la voce grossa, persino nel solo Peloponneso.

Persa buona parte della Messenia, la terra a cui doveva la sua fortuna, incapace di adattarsi a un mondo commerciale sempre più dinamico, Sparta si isolò, uscendo di scena senza troppo clamore.

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Nel 146 a.C., neanche mezzo secolo dopo che le legioni del generale Flaminino le avevano sottratto il controllo delle città perieciche, una cintura di piccole comunità dislocate intorno al territorio spartano, la patria di Leonida entrò a far parte dei domini dell’Impero romano come una qualunque polis greca.

Ma proprio nel momento in cui la potenza spartana tramontò, il mito della città si cristallizzò: la sua immagine austera, politicamente assennata, guerriera ma non guerrafondaia, trionfò. E la rese immortale.

Nessuna città dell’antichità è stata idolatrata come Sparta. Tanto che molti, nei secoli, ne hanno fatto un modello da seguire. I gruppi oligarchici greci idealizzarono fin dal V secolo a.C. la morale spartana, imitando persino il taglio di capelli, la barba lunga e gli abiti modesti dei suoi cittadini.

I rivoluzionari francesi, che fra ’700 e ’800 inneggiavano all’abolizione della proprietà privata, portavano a esempio l’equa divisione delle terre fra gli spartiati (in realtà un’invenzione delle fonti).

Il suo glorioso passato militare e il presunto totalitarismo dello Stato fecero presa invece sui nazisti, che immaginarono una parentela tra la “razza spartana” e quella ariana. Forse senza sapere che persino la Bibbia, nel Primo libro dei Maccabei, parla di un legame fra Ebrei e Spartani, accomunati dallo stesso progenitore: Abramo.

Qua sotto, una donna spartana consegna al figlio lo scudo (in una tela di Jean-Jacques- François Le Barbier, 1805): “Torna con lo scudo o sopra di esso”, dicevano le madri ai figli, che erano educati dalla collettività secondo il sistema detto agoghé.

 

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5. GENTE DI POCHE PAROLE E IL RUOLO DI PRIMO PIANO DELLE DONNE

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Se ad Atene si praticava la retorica (l’eloquenza nel parlare e nello scrivere, segno identitario della Grecia classica), a Sparta era d’uso esprimersi in modo breve e stringato per dar voce a pochi ma solidi concetti.

La proverbiale concisione verbale degli Spartani ha dato origine al termine “laconismo” (da Laconia, la regione del Peloponneso dove si trova Sparta), che significa appunto essere conciso, di poche parole.

È famoso l’aneddoto su Dienekes, comandante spartano che combatté nella battaglia delle Termopili (480 a.C.). A un alleato che gli diceva come, contro di loro, ci fossero così tante frecce persiane in volo da oscurare il Sole, rispose: “Allora combatteremo all’ombra”.

A Sparta le donne erano un tassello fondamentale: a loro spettava partorire figli sani e forti, e per questo dovevano crescere nutrendosi bene e allenando il corpo. Partecipavano ai giochi ginnici, le Gimnopedie, e fin da piccole gareggiavano con i coetanei maschi nella lotta e nelle corse a cavallo (a sinistra, nella pagina accanto, un’atleta spartana in una statuetta dell’epoca).

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Si sposavano intorno ai 17-20 anni, più tardi rispetto alle donne delle altre città greche, Atene compresa, che andavano in spose anche a 13-14 anni. Nessuna donna greca si sceglieva il marito, ma mentre le ateniesi erano cedute dai padri ai mariti e passavano di mano dopo un accordo economico, le spartane venivano rapite dal futuro consorte e, con il capo rasato e le vesti maschili, si appartavano con lui per concepire un figlio.

Una volta sposate, la fedeltà alla polis era però più importante di quella al consorte: potevano riprodursi anche fuori dal matrimonio specie se il marito non era più nel fiore degli anni. Le spartane sapevano anche leggere e scrivere, a differenza delle donne ateniesi. E siccome gli uomini erano sempre in guerra e i ragazzi erano impegnati nell’agoghé, le case erano gestite dalla matriarca, circondata dalle figlie.

Ad Atene, invece, la donna era reclusa nel gineceo, a filare la tela e a occuparsi dei figli e dei lavori di casa, o al massimo a dare ordini alla servitù, mentre il marito si accompagnava con le concubine. Le uniche uscite pubbliche le faceva alle cerimonie religiose. La dimensione pubblica era, al contrario, ben presente nella vita delle spartane, che si esibivano in canti e balli nelle feste e nei banchetti.

Praticavano il culto della mitica Elena di Troia (che poi era la regina di Sparta, in quanto moglie di Menelao) e, da valenti cavallerizze, partecipavano anche a gare di equitazione in onore di Cinisca, figlia del re Archidamo II e sorella dello zoppo Agesilao, la prima donna ad aver vinto i Giochi olimpici.

Qui sotto, la lotta delle spartane in un quadro dell’800: le bambine erano istruite nella corsa, nella lotta e nel lancio del disco e del giavellotto.

 

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