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Spartaco il ribelle

Per alcuni Spartaco fu il primo guerrigliero marxista della Storia.

Lo stesso Marx, in una lettera al “compagno Engels”, nel 1861 lo definì “un genuino rappresentante del proletariato antico”.

Eppure quel Che Guevara in anticipo sui tempi non aveva mai sentito parlare né di socialismo, né di plusvalore, né tanto meno del barbuto filosofo tedesco, alla cui nascita mancavano ben 19 secoli.

E se qualcuno gli avesse nominato la lotta di classe, lui avrebbe pensato a una battaglia navale, perché in latino classis vuol dire anche flotta.

Si chiamava Spartaco, era gladiatore. Nato forse nel 109 a.C. in Tracia morì 38 anni dopo combattendo in Basilicata contro Marco Licinio Crasso, futuro triumviro.

Che faccia avesse non si sa; ma molti lo immaginano coi capelli biondi e la fossetta sul mento di Kirk Douglas, che nel 1960 lo interpretò in un film di Stanley Kubrick: Spartacus.

Oltre a quel film, nell’ultimo secolo la Spartaco-story ha ispirato saggi, romanzi, opere d’arte, fiction televisive, partiti politici, persino squadre sportive: il nome Spartak dilaga negli stadi d’Europa da Mosca a Busto Arsizio, con massima densità nei Paesi dell’Est.

Ma vediamo la storia di Spartaco: del gladiatore che tra il 73 e il 71 a.C. guidò una rivolta di schiavi, mise a ferro e fuoco il sud Italia e diede filo da torcere ai Romani.

1. Chi era il vero Spartaco?

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Ma chi era il vero Spartaco?

Per ricostruire la sua storia ci si basa essenzialmente su sei autori antichi, due greci (Appiano e Plutarco) e quattro di lingua latina (Sallustio, Eutropio, Floro e Orosio).

Che però in comune hanno poco:
- Infatti Sallustio (86-34 a.C.) era un senatore della Sabina (fra Lazio e Abruzzo), supporter di Giulio Cesare;
Eutropio, nato a Bordeaux, un pagano vissuto quando il paganesimo era già alla frutta (IV secolo);
Orosio (375-420 d.C.) un aggressivo polemista cristiano portoghese, fedelissimo di sant’Agostino.
Appiano (95-165 d.C.) faceva invece l’avvocato ad Alessandria d’Egitto,
mentre Plutarco (46-127 d.C.) era un raffinato intellettuale di Atene, animalista ante litteram, e
Floro (70-145 d.C.) un magrebino che in casa parlava dialetto berbero.

Eppure, benché lontani per epoca, patria e cultura, almeno gli autori latini un dato comune ce l’hanno: di Spartaco parlano male tutti.

Eutropio gli imputa “molte calamità”. Floro ne dà un giudizio sprezzante (“da soldato a disertore, poi predone”) e dice che “distrusse con orrendi eccidi” varie città. Il testo di Sallustio è monco, ma basta per tacciare gli spartachisti di “ira barbara”.

Infine Orosio definisce “infame” la rivolta, accusa i ribelli di “stragi, incendi, rapine e stupri” e narra di una loro prigioniera violentata e morta suicida.

2. Ma è tutto vero?

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Ma è tutto vero? Almeno Orosio va preso con le pinze.

Ciò sia perché scrisse quasi 500 anni dopo i fatti, quindi basandosi su fonti di quarta mano, sia perché i suoi erano testi a tesi: volevano dimostrare quanto male avesse prodotto il passato di Roma rispetto al benefico presente cristianizzato.

Ma da guardare con sospetto non è solo Orosio. Osserva un biografo moderno di Spartaco, Aldo Schiavone, già docente all’Istituto italiano di scienze umane di Firenze:
«Come per altre grandi figure che hanno combattuto contro Roma – il cartaginese Annibale (nella foto a sinistra) o il gallo Vercingetorige – tutto ciò che sappiamo di Spartaco lo dobbiamo a quel che hanno ricordato di lui i suoi mortali nemici. Le immagini della tradizione antica sono un riflesso di quelle fissate negli occhi dei vincitori».

Eppure, se dagli autori latini si passa ai greci, almeno una voce fuori dal coro c’è.

Infatti Plutarco, pur confermando le violenze dei ribelli, attribuisce la colpa di tutto allo stato disumano in cui vivevano gli schiavi, “rinchiusi a forza per la lotta gladiatoria, non per aver commesso gravi colpe ma per l’ingiustizia del loro padrone”.

Dallo stesso Plutarco ci giunge l’unico ritratto positivo di Spartaco, uomo “dotato non solo di grande coraggio e forza fisica, ma anche di intelligenza e dolcezza superiori alla sua condizione”.

Quanto poteva valere sul mercato degli schiavi un uomo come Spartaco, robusto, grintoso e addestrato nell’uso delle armi, quindi pronto per essere usato come gladiatore? Sicuramente migliaia di sesterzi, ma è difficile essere più precisi.

Sappiamo che nel I secolo a.C. uno schiavo generico, da usare come bracciante valeva tra i 1.000 e i 2.500 sesterzi, cioè come 100-250 pasti in taverna, che costavano in media 10 sesterzi.

Il prezzo aumentava per un servo istruito, utilizzabile come precettore domestico, ma una star da stadio (come i calciatori oggi) valeva più di un uomo di cultura (un tempo un precettore, oggi un docente universitario).

3. Un mercenario che combatteva per i Romani

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Predone o dolce eroe, dunque? Ripartiamo dai fatti.

Tutto iniziò quando in Italia era da poco finita l’epopea dei Gracchi e in Africa fumavano ancora le rovine di Cartagine, distrutta da meno di 35 anni.

Fu allora che in un villaggio dei Rodopi (i “Monti delle rose” oggi tra Bulgaria e Turchia), abitato dalla tribù trace dei Maidi, venne al mondo il futuro gladiatore.

All’epoca i Maidi non erano ancora sudditi di Roma, che però aveva già incluso nei suoi domini la vicina Macedonia.

E qualche tempo dopo (87 a.C.), quando Spartaco era ventenne o poco più, la Tracia diventò – come metà dei Balcani – un teatro di manovra delle legioni romane, dirette a est per combattere il re dei Parti, Mitridate (nella foto).

In quell’ambiente di frontiera il giovane Spartaco fece ciò che fecero poi molti indiani d’America durante le guerre coloniali anglo-francesi: si arruolò nell’esercito che pagava meglio.

Quando, come e per quanto tempo il futuro ribelle abbia offerto i suoi servigi agli invasori, non si sa. Ma la notizia è certa: Eutropio, sinteticamente ma chiaramente, dice che Spartaco “aveva combattuto un tempo con i Romani”.

E il magrebino Floro conferma. Per via indiretta possiamo dedurre il resto: per esempio che il nostro militò quasi sicuramente nella VI legione, detta Macedonica dalla zona dove operava; o che il suo primo capo fu Silla, futuro dittatore di Roma, fino all’83 kapò militare dei Balcani.

La carriera di mercenario non durò: presto Spartaco disertò e diventò il “predone” di cui parla Floro. Perché?

Schiavone avanza un’ipotesi suggestiva anche se basata solo su indizi logici: Spartaco avrebbe disertato nel 77, quando il successore di Silla, tale Appio Claudio Pulcro, attaccò i Maidi.

A quel punto Spartaco si sarebbe riunito ai suoi nella resistenza. Diventò un ribelle e per i Romani un bandito. In realtà era un guerrigliero, un partigiano. Ma anche la carriera di partigiano durò poco.

Non oltre il 75 l’ex legionario fu catturato con sua moglie (una sacerdotessa di Dioniso) e ridotto in schiavitù. La Tracia, era in quegli anni, con le Gallie, uno dei bacini di approvvigionamento per il sistema schiavistico romano.

Spartaco finì a Roma e lì fu comprato da un lanista (impresario-allenatore) di Capua, Lentulo Baziato.

4. La ribellione

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All’epoca Capua aveva un attivissimo anfiteatro, con annessa un’atroce scuola-prigione gladiatoria, dove uomini atletici e sfortunati si riciclavano in tori da corrida, a uso di una torma sadica di spettatori urlanti.

Gli “allievi” della scuola venivano abituati all’idea che l’unico metodo per sopravvivere era scannare qualcun altro. Un incubo, insomma.

In quell’inferno Spartaco rimase un anno scarso: arrivato nel 74, all’inizio del 73 era già evaso. Lo fece con altri compagni di sventura: minimo 30 (secondo Floro), massimo 78 (secondo Plutarco).

Iniziò così quella che Roma chiamò poi “terza guerra servile” (le prime due scoppiarono in Sicilia nel 135 e nel 104 a.C.) e gli spartachisti moderni “guerra proletaria”.

Che gli evasi fossero proletari veri, cioè uomini che non avevano “nulla da perdere se non le loro catene” (parole del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels) è indubbio.

Però nei loro bagagli, invece di falci e martelli, c’erano spiedi e coltelli. Erano armi rudimentali, più da cuochi che da guerriglieri. Infatti Plutarco riferisce che erano state prese in una cucina.

Vagando nelle campagne, gli evasi incrociarono alcuni carri carichi di spade e forconi da gladiatore, destinati – curiosa coincidenza – all’anfiteatro di Capua.

Dopo l’ovvio assalto alla carovana, i 78 (o meno) si equipaggiarono a dovere e, a marce forzate, andarono ad arroccarsi tra le vigne del Vesuvio, prima “terra liberata” della rivolta.

Là scelsero tre capi: due galli (Crisso ed Enomao) e il trace Spartaco. All’inizio il Senato non si rese conto della portata di quei fatti.

Prima lasciò il compito di ristabilire l’ordine pubblico alle deboli truppe locali, che ebbero subito la peggio; poi inviò da Roma quattro coorti (circa 2.500 uomini) al comando di un ingenuo pretore, Claudio Glabro, che si limitò a bloccare i sentieri della montagna, pensando che i ribelli si sarebbero arresi per fame e sete.

Grave errore: una notte i gladiatori intrecciarono delle funi usando tralci di vite; quindi si calarono da una parete, presero gli assedianti alle spalle e li decimarono.

Le prime vittorie permisero a Spartaco e soci di prendere tre piccioni con una fava: si sottrassero all’assedio; si rifornirono di armi migliori, prese ai militari battuti; infine si fecero pubblicità calamitando nuove reclute.

Così quando da Roma arrivò un nuovo pretore, Publio Varinio, non si trovò davanti poche decine di sbandati, bensì un esercito: secondo Floro, 10mila uomini.

Seguirono mesi di guerriglia di logoramento: prima gli spartachisti annientarono in un agguato una colonna nemica, comandata da un luogotenente di Varinio, tale Furio; poi piombarono in una villa fra Ercolano e Pompei, dove un altro luogotenente (Cossinio) stava tranquillamente facendo il bagno.

Ucciso Cossinio, venne il turno di Varinio, sconfitto presso Nola (Napoli).



5. Gli ultimi anni

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A pochi mesi dall’evasione, Spartaco era padrone di fatto della Campania e di mezzo Meridione.

Ma quanto si era rivelato abile nella tattica militare, tanto fu inconcludente nella strategia, dando inizio a un percorso contraddittorio su e giù per l’Italia che si concluse in Calabria, da dove tentò di passare in Sicilia con l’aiuto di alcuni pirati, che però lo bidonarono.

Che cosa si proponeva l’ex gladiatore con quella “lunga marcia”? La spiegazione di Plutarco è che Spartaco intendeva varcare le Alpi e poi dare il rompete le righe in modo che tutti tornassero alle rispettive patrie; ma fu ostacolato da altri leader della rivolta, che preferivano saccheggiare le opulente città del Sud.

Non tanto Enomao, morto in una delle prime battaglie, quanto Crisso, che a un certo punto si separò da Spartaco e si diresse in Puglia. Dei contrasti che minavano la solidità dell’armata ribelle, Roma non sapeva nulla.

E quando Spartaco attraversò due volte l’Italia Centrale, dopo i pretori del 73, il Senato mandò i consoli del 72, Lucio Gellio e Cornelio Lentulo. L’unico che ottenne un parziale successo fu Gellio, che al Gargano uccise il “dissidente” Crisso.

Ma poi entrambi i consoli furono sconfitti e costretti alla fuga. Solo nel 71 il vento cambiò. A invertirne la direzione fu Marco Licinio Crasso (nella foto), l’erede politico di Silla, patrizio durissimo e ricchissimo, cui il Senato affidò 8 legioni.

Costui esordì accusando di viltà i veterani che avevano già affrontato Spartaco. E con metodi protonazisti ne fece uccidere 50, scelti con il metodo della decimazione. Poi, quando fu sicuro che i soldati temevano più lui che il nemico, puntò contro i ribelli.

Il contatto avvenne presso Reggio, dove Spartaco vivacchiava scornato dopo il fallito trasbordo in Sicilia.

In realtà, “contatto” è una parola grossa, perché sulle prime Crasso sigillò i ribelli in un lembo di costa, scavando loro intorno un fossato profondo 15 piedi (cioè 4,5 metri) e lungo 300 stadi (circa 55 chilometri).

Poi accanto al fosso costruì un alto muro, tipo quello che oggi corre tra Israele e i territori palestinesi. Per Spartaco, stretto tra muro e mare, pareva finita.

Eppure in un sussulto di vitalità l’ex gladiatore riuscì ancora una volta a rompere l’assedio in una buissima notte di tormenta e a riparare coi suoi in Lucania. Ma era il canto del cigno: scoperta la sortita, Crasso attaccò i ribelli.

Prima di buttarsi nella mischia, Spartaco uccise il suo cavallo, proclamando, pare: “Se perdo non servirà più; se vinco ne avrò altri”. Si avverò la prima ipotesi: l’ex schiavo morì combattendo e il suo corpo, fatto a brani, non fu mai trovato.

Con lui, narra Appiano, caddero in 60mila. Peggio andò ad altri 6mila, presi vivi e crocifissi sulla strada a nord di Capua, dove tutto era iniziato. E Roma visse felice e contenta.






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