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5 domande “pazze”… e relative risposte

“Il mondo è pieno di pazzi”, si dice.

E, in effetti, capita di pensarlo osservando il comportamento di chi ci circonda e (se siamo abbastanza onesti) il nostro.

Le domande (peraltro molto comuni) che vi presentiamo oggi ci levano ogni dubbio: siamo molto meno razionali di come amiamo dipingerci.

Qualche esempio? Il fatto che con gli occhiali scuri tendiamo a comportarci come se nessuno ci vedesse; o che cambiare squadra di calcio ci risulti difficile come cambiare religione; e ancora, perché dopo un gol si esulta in diversi modi (spesso abbastanza bizzarri), ecc…

Che siate in cerca di conforto (sì, non siete gli unici picchiatelli in giro), o di conferme (certo, sono tutti pazzi meno che voi), speriamo che questa lettura vi piaccia.

1. Con gli occhiali da sole si è più egoisti?

CON GLI OCCHIALI DA SOLE SI È PIÙ EGOISTI-300x180

Con gli occhiali da sole si è più egoisti? SI.

Lo ha rivelato un esperimento condotto dalle Università di Toronto (Canada) e della North Carolina (Usa): alcuni volontari dovevano decidere se, e come, dividere 6 dollari con un’altra persona che si trovava in una stanza diversa e con cui interagivano tramite pc.

Anche se nessuno poteva essere visto dalla controparte, chi indossava occhiali da sole teneva per sé più soldi.

Gli studiosi lo hanno verifcato anche osservando il comportamento dei partecipanti in diverse condizioni di illuminazione. 

Ai volontari era stata affdata una busta con 10 dollari e dovevano svolgere dei compiti matematici, attribuendosi 50 centesimi per ogni risultato corretto.

Chi si trovava nella penombra era portato a intascare più soldi del dovuto.

INVISIBILITÀ. L’oscurità dà quindi un’illusione di anonimato: proprio come succede ai bambini piccoli che, giocando a nascondino, chiudono gli occhi pensando che così nessuno possa vederli, la penombra (anche quella degli occhiali) dà la sensazione di essere protetti dal controllo altrui.

2. Perché dopo un gol si esulta in tanti modi diversi?

Perché dopo un gol si esulta in diversi modi-300x180

Molti atleti festeggiano la vittoria alzando le braccia per affermare la propria dominanza sugli avversari, facendo così apparire il proprio corpo più grande, esattamente come molti animali si “gonfiano” in segno di minaccia o per comunicare la propria supremazia nel gruppo.

È emerso da uno studio della San Francisco State University, che ha esaminato i movimenti degli atleti subito dopo un trionfo e li ha distinti in 3 categorie:
- quelli di “espansione”, come alzare le braccia e spingere il petto in fuori;
- quelli di “aggressione” che includono smorfie, grida e scatti del braccio con il pugno chiuso, come a voler sferrare un colpo;
e infine quelli di “attenzione” come fissare l’avversario in segno di sfida.

Se si analizzassero le esultanze dei calciatori che hanno realizzato i 463 gol degli ultimi tre Mondiali si constaterebbe che sono accomunate dalla presenza di abbracci, urla e corse (nell’80% dei casi).

Ecco cosa si scopre:

  • - ALLARGANO LE BRACCIA 29%: L’esultanza più comune è quella di prodursi, dopo il gol, in una corsa a braccia larghe. I significati – oltre alla dominanza sugli avversari – possono essere molteplici, dal richiamo alla sensazione di volo e di libertà, fino a lanciare un ideale abbraccio a tutta la tifoseria se i palmi sono rivolti verso l’alto.
  • - LANCIANO MESSAGGI 14%: Mandare baci, mimare il cuore con le mani, inchinarsi, parlare alla telecamera: sono messaggi rivolti ai tifosi o a una persona specifica che sta seguendo la partita in tv. Se si indica un compagno, significa riconoscergli il merito del gol.
  • - AGITANO I PUGNI 13%: Il gesto può assumere due significati. Se il calciatore non si rivolge a nessuno in particolare, vuole mostrare la sua determinazione agli altri. Se invece mentre agita i pugni guarda i compagni di squadra, intende incitarli, come a dire: “Forza, ce la facciamo!”.
  • - GIOISCONO IN MODO CONTENUTO 12%: Molti calciatori festeggiano in modo composto, producendosi in pochi gesti, cercando di infondere tranquillità alla squadra. In genere sono i calciatori più introversi, oppure quelli molto sicuri di sé, come a dire: “Ho fatto gol, che c’è di strano?”.
  • - DRIBBLANO I COMPAGNI 12%: È un’esultanza quasi incontenibile nella quale si scarica, correndo, tutta la tensione accumulata. Chi sceglie questo tipo di “celebrazione” non vuole essere fermato da nessuno oppure, al contrario, cerca una persona specifica da abbracciare e non si fermerà fino a quando non l’avrà raggiunta.
  • - NON ESULTANO 11%: È una moda degli ultimi anni nelle partite tra squadre di club (non le nazionali, insomma): quando un calciatore segna a una sua ex squadra, non esulta per rispetto verso i tifosi. Altre “non esultanze”: quando si segna un gol inutile (a risultato ormai compromesso) o, al contrario, quando non c’è da perdere tempo per la rimonta.
  • - SCIVOLANO SULLE GINOCCHIA 10%: Dopo una corsa, il modo migliore per scaricare l’adrenalina è quello di scivolare sulle ginocchia, oppure di saltare o addirittura tuffarsi sulla pancia. A farlo sono parecchi calciatori, che danno così una specie di segnale ai compagni: “Ora abbracciatemi, cominci la festa!”.
  • - PUNTANO IL DITO IN ALTO 9%: “Sono stato io, ho fatto gol!”. Col dito puntato in alto il calciatore si prende tutto il merito della rete e si autocelebra, sia da fermo, in posizione statuaria, che correndo. Questo gesto indica enfasi, potere, autorità. Comportamenti simili sono quello di indicare se stessi, battersi la mano sul petto o indicare il proprio nome sulla maglia.
  • - INDICANO IL CIELO 7%: È un modo per dedicare il gol a qualcuno che in genere non c’è più. I gesti più usati per dedicare invece un gol ai propri famigliari sono baciare la fede al dito (per la moglie) o mettersi il pollice in bocca (per un figlio).
  • - DANZANO, FANNO CAPRIOLE 4%: Per manifestare la loro gioia, alcuni giocatori (o squadre) si esibiscono in piccoli show, talvolta provati prima della partita per non farsi trovare impreparati: si tratta di balli (in genere le squadre africane o sudamericane), scenette divertenti, capriole...
  • - GIOCANO CON LA MAGLIA 3%: Toccare la divisa, agitarla, indicare lo stemma sulla casacca sono tutti messaggi che indicano un profondo legame di appartenenza a una determinata squadra o Paese. Altro è togliersi la maglia, che può essere fatto come gesto polemico (e meritare così l’ammonizione), oppure per mostrare i muscoli.
  • - FANNO SMORFIE E LINGUACCE 2%: A prescindere da quale sia il modo in cui viene celebrato il gol, quasi sempre il gesto è accompagnato da urla (70% dei casi), da smorfie o altre espressioni del viso. Alcuni mostrano la lingua: nella maggior parte dei casi è una manifestazione di gioia e solo raramente indica scherno nei confronti degli avversari.

3. È più facile cambiare religione che squadra di calcio?

È PIÙ FACILE CAMBIARE RELIGIONE CHE SQUADRA DI CALCI-300x180

È più facile cambiare religione che squadra di calcio? VERO E FALSO.

In realtà è difficile proprio allo stesso modo, almeno stando ai risultati di una ricerca dell’Università del Kentucky (Usa).

Secondo gli studiosi, infatti, il tifo soddisfa nell’uomo bisogni simili a quelli che spingono verso le religioni.

Per esempio, il desiderio di sentirsi parte di una comunità e di identificarsi in essa, la voglia di fuga dalle difficoltà di ogni giorno, il bisogno di sperare in un domani migliore.

Cambiare fede (o squadra di calcio) equivale quindi a rinnegare convinzioni che ci aiutano a vivere.

LINGUAGGIO: 

  • Non a caso, i tifosi di calcio spesso usano un vocabolario ispirato alla religione, per esempio con termini come “fede”, “spirito”, “idolo”.
  • E il momento più importante della settimana si svolge in una “cattedrale” (lo stadio) dove ci si ritrova e si “prega” tutti insieme per la vittoria.
  • Come se si partecipasse a una messa, allo stadio si mettono in atto rituali codificati dalla tifoseria, che afferma la propria “fede” in antitesi con altre, ritenendola migliore o più giusta.

4. Quanti modi ha inventato l'uomo per uccidere?

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Quanti modi ha inventato l'uomo per uccidere? Moltissimi, alcuni estremamente violenti gli altri appena un po' più civile e rispettose dei condannati.

Ecco alcuni metodi di morte più adoperati nel corso della storia:

  • Crocifissione: Utilizzata fin dai tempi più antichi, la crocifissione ebbe particolare successo presso i Romani tra il III sec. a. C. e il I sec. d. C. La vittima veniva prima flagellata, poi moriva per emorragia, infarto o blocco respiratorio causato dalla postura, dopo un’agonia che poteva durare giorni.
  • Decapitazione: Fin dai tempi dell’antico Egitto e dell’antica Roma, dove fu in auge soprattutto in età imperiale, la decapitazione (diffusa anche in Asia) è stata considerata una delle pene più “benevole”. Il condannato è infatti immediatamente incosciente (per via del mancato afflusso di sangue al cervello) e muore in meno di due minuti, senza agonia.
  • Rogo: Associata alla caccia alle streghe, la morte sul rogo era già diffusa nell’antica Roma e presso l’Impero bizantino, ma conobbe maggior successo in epoca medioevale mietendo vittime come Giovanna d’Arco (1431). La morte avveniva per bruciatura degli organi oppure, prima, per asfissia.
  • Squartamento: La morte per squartamento conobbe un vasto utilizzo nell’Europa medioevale soprattutto in Inghilterra, dove nel XIV sec. imperava la pena Hanged, drawn and quartered (“impiccato, tirato e squartato”), con il condannato trainato da un cavallo prima di essere attaccato a un palo, sbudellato e privato di arti e testa.
  • Impiccagione: Diffusasi in Gran Bretagna a partire dal XIII secolo, l’impiccagione fu esportata oltreoceano (negli Usa fu in uso fino ai primi del Novecento) ed è tuttora in auge in Paesi come Giappone e Iraq (pur non essendo sempre efficace). In tale metodo, il decesso avviene in genere per rottura del collo, delle vertebre o per asfissia, con un’agonia che può sforare il quarto d’ora.
  • Lapidazione: In uso fin dall’antichità in Medio Oriente e in Europa, la lapidazione è oggi diffusa in Paesi islamici come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Caratterizzata dalla partecipazione di molti “boia” (spesso una folla intera), tale pratica prevede che il reo, seppellito per metà, venga preso a sassate fino al trapasso, per asfissia e danni cerebrali. L’agonia può durare ore.
  • Ghigliottina: La ghigliottina conobbe il suo periodo d’oro nella Francia post rivoluzionaria, durante il cosiddetto terrore giacobino. Nata come perfezionamento della decapitazione, tale macchina di morte introdusse nel 1792 la novità della lama obliqua, ritenuta più efficace nella recisione del collo rispetto ad accette e spade.
  • Fucilazione: La pratica della fucilazione iniziò a prendere piede attorno alla fine del XVIII secolo negli Stati Uniti, in particolare durante la Guerra di Indipendenza (1775-1783). Diffusasi più tardi in Europa e in Asia (oggi è in uso in Afghanistan e Cina), prevede che la vittima venga colpita da un singolo boia o da un intero plotone. Il decesso è immediato.
  • Sedia elettrica: Ideata negli Usa alla fine del XIX secolo, la sedia elettrica (oggi in disuso) prevede che al condannato siano trasmesse delle forti scariche elettriche per provocarne l’arresto cardiaco o la paralisi respiratoria. Peraltro, mentre gli organi “friggono”, la vittima talvolta sobbalza, si urina addosso e vomita. La morte subentra di norma dopo un’agonia di qualche minuto.
  • Camera a gas: Le prime camere a gas sono comparse negli Stati Uniti nel XX secolo, trovando poi diffusione nella Germania nazista durante l’Olocausto. Il detenuto (o i detenuti, nel caso di esecuzioni multiple) viene chiuso in una camera stagna e intossicato con acidi letali, perdendo dapprima conoscenza e morendo per asfissia in circa 10 minuti.
  • Iniezione: Tra le ultime pratiche di morte ideate dall’uomo vi è l’iniezione letale, diffusasi negli Usa dalla fine del XX sec. e in uso oggi anche in altri Paesi (Cina). Sono iniettate sostanze chimiche che portano al decesso per blocco respiratorio in un arco di tempo che va dai cinque ai 15 minuti.




5. Come nasce la paura degli animali?

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Tecnicamente, la paura degli animali si chiama “zoofobia”: un termine generico, quasi mai applicabile all’intero regno (la vita diventerebbe un incubo), ma utilizzato in psicologia come contenitore per racchiudere oltre venti differenti fobie, ciascuna specifica di un animale o di un’intera categoria.

Si può avere paura di tutti gli insetti (entomofobia) o dei cavalli (equinofobia). La natura dell’animale, la cui presenza provoca un’irrazionale sensazione di pericolo nel fobico, influenza anche le cause.

TRAUMI:  Dal punto di vista psicologico, le zoofobie si possono dividere in tre categorie. Le fobie di animali predatori, dai cani agli squali, che spesso si confondono con una sana prudenza di fronte a un potenziale pericolo, potrebbero essere nate come meccanismo di difesa nei nostri antenati.

Il terrore che paralizza un aracnofobo, invece, è legato alla natura disgustosa e aliena della creatura, nella quale non si riesce a riconoscere tratti umani.

Serpenti e uccelli, invece, sono tra gli animali che hanno, per così dire, una cattiva reputazione: simbolo del peccato, considerati presagi di morte, vengono associati al male in molte mitologie.

E poi, naturalmente, la fobia per un animale si può sviluppare a causa di un evento traumatico, come chiunque sia stato punto da una vespa può testimoniare.

PAURA DEI RAGNI. Una tra le fobie più diffuse è anche quella potenzialmente più devastante, perché causata da creature piccole ma comunque letali (spesso solo nella testa del fobico), e delle quali è difficile liberarsi, tanto che l’aracnofobia è spesso associata all’ossessione per la pulizia domestica. Il nostro bagaglio evolutivo e un’immensa quantità di letteratura negativa hanno influenzato la nostra visione di ragni e scorpioni, tanto che anche chi non soffre di aracnofobia ha un’ottima probabilità di provare comunque un leggero disagio in presenza di un “otto zampe”.
PAURA DEI CANI. Sono con noi da migliaia di anni, ma alcuni non riescono proprio ad avvicinarli, un po’ per innato timore della loro aggressività, un po’ per paura del loro aspetto.
PAURA DELLE GALLINE. Anche se limitata a galline e polli vivi, può estendersi anche a quelli morti o addirittura alle sole uova. Deriva probabilmente da traumi infantili.
PAURA DEGLI SQUALI. Caso unico di fobia indotta da esperienze indirette (pochi possono dire di aver incontrato uno squalo nella loro vita), la selacofobia è associata, nell’immaginario collettivo, all’uscita nel 1975 del film Lo squalo. L’animale veniva eletto a protagonista assoluto di una pellicola nata per terrorizzare.
PAURA DEI TOPI. I topi hanno sempre vissuto a stretto contatto con gli umani, come elemento di disturbo e contaminazione. Il loro ruolo nelle grandi epidemie di peste è una delle cause principali della diffusione della musofobia.
PAURA DEGLI UCCELLI. Becchi, ali e artigli possono spaventare, specie se da piccoli si è stati attaccati da un uccello, anche minuscolo. È possibile che i genitori fobici passino la paura ai figli.
PAURA DEL RATTO TALPA. La più bizzarra delle zoofobie, associata a un animale bruttino ma innocuo, timido e piuttosto diffcile da incontrare tutti i giorni. A meno di non abitare in Kenya o in Somalia.
PAURA DELLE API. Api, vespe e calabroni fanno paura se si è stati punti da piccoli. Se non si va incontro a shock anafilattico, la puntura è innocua, ma la fobia rimane.
PAURA DEI SERPENTI. Un uomo adulto su tre soffre di ofidiofobia, la paura dei serpenti. Non è difficile immaginare perché: esistono 600 specie velenose al mondo, un quarto del totale dei serpenti, e alcune possiedono tra le tossine più letali presenti in natura.
PAURA DEI GATTI. Sembrerà impossibile a chi ne ha uno (o più), ma la paura dei gatti è una delle più diffuse al mondo, e d’altra parte i felini sono tra gli animali domestici più comuni, soprattutto in città. Anzi: tra le zoofobie, l’ailurofobia è una delle più facili da spiegare, visto che deriva quasi sempre da eventi traumatici che risalgono all’infanzia.






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