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Alla ricerca della felicità

Chiedimi se sono felice è un film comico del 2000. Autori e in­ terpreti: Aldo, Ciovanni e Gia­como.

Ma il titolista avrebbe potuto essere Platone, sant’Agostino o persino Marx.

Generazioni di filosofi (e tanta gente comune) si sono chiesti che cos’è la felicità e come ottenerla.

Le ri­sposte, dall’antichità a oggi, sono state le più diverse, ma nessuna definitiva: tanto che in nome della felicità si sono fatte rivoluzioni, proclamate dittature e persino combattute guerre.

“Felice non è chi d’es­serlo non sa”. “Cuor contento, il ciel l’aiuta”. “Contento io, contento il mondo”. “Chi s’acconten­ ta gode”… Da sempre, la felicità e i modi per ottenerla sono tra i soggetti più gettonati dai proverbi.

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Un cam­pionario di consigli che -a partire dal Medioevo- hanno trasformato, semplificandoli, mas­sime bibliche e inse­gnamenti dei filosofi antichi. È rifacendosi a questa tradizione che si diffuse l’idea che per essere felici basti un po’ di buon senso.

In realtà, un buon senso “naturale” non esiste. Esiste invece un senso comune, il common sense degli inglesi, che è l’opinione condivisa dai più, ma che cambia a seconda delle epoche.

Molti proverbi italiani sulla felicità, per esem­pio, sono di tipo “agri­colo” perché la nostra è stata una società preva­ lentemente contadina fino alla metà del ‘900.

I consigli degli antichi, le provocazioni dei libertini, gli esperimenti dei filosofi. Dalla Grecia ai tempi moderni, le ricette per partire… alla ricerca della felicità!!!

Sotto, Stan Laurel (in Italia noto come Stantio) in un fotogramma del film I figli del deserto (1933). Il suo volto ispirava simpatia e spensieratezza.

 

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1. Felici per caso... ...Anzi, no

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«C’è un legame storicamente documentato tra felicità e caso in gran parte delle culture» spie­ga Darrin McMahon, storico della Flori­da State University (Usa) e autore di una vasta ricerca sull’argomento.

«Lo dimo­stra l’etimologia di questa parola in di­verse lingue».

In tedesco felicità e fortu­na hanno la stessa antica radice: glück. L’inglese happiness deriva dall’antico nor­vegese happ, che significa “caso” . Il fran­cese bonheur equivale a “buonasorte”. E, in latino, felix voleva dire “fortunato”.

Ma allora, ragionavano gli antichi, per essere felici basta assicurarsi contro gli imprevisti. Il che, dagli Egizi ai Babilo­nesi, dagli Ebrei ai Greci, voleva dire sa­per interpretare e onorare il volere delle divinità: “Felice e fortunato l'uomo che co­nosce e rispetta le festività, conosce i presa­gi, evita le trasgressioni e fa il suo lavoro, sen­za offendere gli dèi".

Era la ricetta di Esiodo (VIII-VII secolo a. C.) per l’eudaimonia, la felicità (letteralmente “demone buono”) greca.Una ricet­ta valida per 4 secoli, fino ai tem­pi di Socrate. «Alla fine del IV se­colo la ricerca della felicità era ormai al centro di tutte le scuo­le filosofiche greche» spiega I McMahon.

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La filosofia avreb­be insegnato agli uomini come diventare, attraverso la cono­scenza, felici facendo a meno degli dèi. O almeno come sof­frire meno, visto che per Epi­curo (che sulla felicità scrisse una famosa lettera) il massimo del be­nessere era l’assenza del dolore.

C’era chi consigliava di affidarsi ai pia­ceri del sesso e della tavola. Ma i più (So­crate e Platone in testa, ma anche il me­no“talebano” Aristotele e lo stesso Epi­curo) raccomandavano: se vuoi essere fe­lice, diventa saggio, limita i tuoi bisogni e goditi ciò che hai. A quanto ne sappia­mo, era la prima volta nella Storia che gli uomini osavano dire che essere felici dipendeva solo da loro.

Che sia successo in Grecia, non fu un caso. Il sistema di governo delle città-stato greche, basato sull’assemblea de­mocratica, favorì la nascita dell’idea di “bene comune”, che implicava la possibilità di contri­buire tutti alla ricerca della fe­licità. M

a quei “tut­ti” erano solo una minoranza degli abi­tanti: i cittadini liberi. Donne, schia­vi e stranieri erano esclusi dalla ricer­ca della felicità. Comunque, la breve epoca d’oro delle città-stato fu cancel­lata dalle guerre fra Atene e Sparta e dai grandi imperi di Alessandro Magno e di Roma. E proprio a Roma, la felicità pre­se un aspetto molto più concreto.

Sotto, il sorriso di una statua greca del VII secolo a. C.

 

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2. A portata di mano

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Su un punto sono tutti d’accordo: la felicità (che in­sieme alla virtù, nel’700, il filosofo tedesco Immanuel Kant definì "sommo bene”) sfugge come un’anguilla.

Per questo molti l’hanno cercata in cose concrete. In una panetteria di Pompei sopravvissuta all’eruzione del 79 d. C. è stato trovato il bassorilievo di un fallo, con la scritta Hic habitat felicitas (“Qui ri­siede la felicità”).

Infatti, il latino felicitas significava anche “fertilità” e aveva la stessa radice di fecundus (“fecondo”). «Intorno al I secolo d. C., quando il be­nessere e la prosperità si diffusero nel­l’Impero romano, la Felicità entrò persi­no nel novero delle divinità e in seguito apparve sulle monete insieme alle facce degli imperatori» spiega McMahon.

Fin qui la felicitas publica. Ma c’era an­che quella privata. «Onesto, lavorato­re, sicuro di sé e robusto: questo era il beatus vir (l’uomo felice) romano, padre di famiglia sereno e solitario, contento di lavorare i campi e coltivare il proprio orto con dignità».

Mettete l’ufficio al posto dei campi e avrete il ritratto idea­le del padre di famiglia della borghesia europea di 1.800 anni dopo.

La prosperità romana, però, già alla fine della repubblica (I secolo a. C.) ap­pariva in pericolo: “Coditi i beni della vi­ta e non dimenticare mai che i tuoi giorni so­no contati" diceva il poeta Orazio. Ovve­ro: carpe diem, cogli l’attimo.

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Tutto il contrario di quel­lo che predicavano, 2mila anni fa, pro­feti e maestri che batte­vano i deserti della Giu­dea. Secondo alcuni sto­rici del cristianesimo, tra i seguaci di Gesù c’era chi si aspettava la felici­tà eterna a breve termi­ne: se non proprio “qui e ora” , almeno dopo un ra­pido avvento del regno di Dio, di cui loro sarebbero stadi figli prediletti.

Ma dopo pochi secoli, le cose erano già cambiate. La ricerca della felicità, nel cristianesimo, divenne solo trascendente. Una felicità che l’anima poteva guadagnar­si con il sacrificio, la preghiera, la fede e la rinuncia al mondo materiale. Non era più felicità, era beatitudine.

Che la felicità potesse essere solo po­stuma lo dimostravano, alla gente del Medioevo, due cose. La prima non era tangibile, la inventò sant’Agostino nel IV secolo e si chiamava peccato origina­le: Adamo ed Eva erano stati felici, ma avevano sfidato Dio ed erano stati cac­ciati dall’Eden.

Da qui la condanna alle sofferenze terrene. La seconda era con­cretissima: fame, malattie, aspettati­ va di vita che non superava i trent'an­ni, carestie e guerre continue.

In un mondo dove resistenza era in pericolo costante, la speranza in un aldilà gioio­so aiutava a tirare avanti in un penoso aldiquà. Va però ricordato che per molti movimenti ereti­ci la ricerca della felicità in terra conti­nuò a essere un obiettivo, da persegui­re per esempio sotto forma di fratellan­za universale.

 

3. Sorrisi rivelatori e ottimisti

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La felicità di las­sù e quella di quaggiù tornarono a in­crociarsi solo nel ’400, in Italia. Meri­to dei primi umanisti (devoti cristiani) che riscoprirono greci e latini.

«Per Pico della Mirandola, Cristo rappresenta­va la felicità stessa. Ma Pico parlava an­che della “felicità naturale" delle cose e dell’uomo quando si realizzano» fa no­tare McMahon.

La prova del ritorno della felicità terre­na è tutta in un sorriso. «Nell’arte greca arcaica il sorriso era l’immagine dell’eudaimonia.

Poi, con l’arte medioeva­le, era diventato una rarità riservata al­le figure religiose (la Vergine, Adamo ed Eva prima della cacciata, angeli e san­ti)» spiega McMahon.

Solo con il Rina­scimento uomini e donne comuni tor­narono a sorridere nei quadri: dall’Igno­to sorridente (1470) di Antonello da Messi­na alla Gioconda(1506) di Leonardo.

Mentre il genio di Vinci faceva sorride­re Monna Lisa, muovevano i primi passi la fisiologia e la scienza. Che cosa c’en­tra con la ricerca della felicità? Molto.

 

Lo studio delle leggi di natura svelò i mec­canismi del desiderio e diede alla feli­cità un posto tra i diritti naturali: tutti possiamo essere felici, basta soddisfare i propri bisogni.

La pensava così anche un “estremista” del piacere: Julien Offray de La Mettrie, medico francese, gaudente a oltranza e ateo dichiarato, che intorno al 1750 ve­deva l’uomo come una macchina.

"La natura ci ha creati per essere felici, ciascuno di noi, dal verme che striscia all’aquila" scris­se. «Per La Mettrie la felicità era una questione di piacere, e il piacere una questione di gusti» spiega McMahon.

Il “sommo bene” pareva di nuovo a portata di mano. Nella secon­da metà del ’600 erano apparsi i primi “breviari della felicità”. Ecco alcuni ti­toli, che sembrano rubati dai manuali per il successo delle nostre librerie: Vo­glio essere felice, La scuola della felicità, Teo­ria della felicità.

Con queste premesse, il ’700 fu un boom di ottimismo. «Gli individui, gra­zie al progresso tecnico, alla fine delle grandi carestie e a lunghi periodi di pa­ce, erano sempre più liberi dalla fatica quotidiana di restare vivi» prosegue Mc­ Mahon.

«Nel ’700, la popolazione euro­pea, da circa 120 milioni di abitanti, rag­giunse i 190 milioni alla fine del seco­lo. Sostenuta da tassi di morta­lità decrescenti e aspettative di vita più lunghe, non sa­rebbe più diminuita».

Fu l’inglese Jeremy Bentham a teoriz­zare la felicità per tutti, sulla base di una filosofia utilitaristica. «Grazie alla democrazia, che rappresen­ta gli interessi individuali, si sarebbe potuto garantire il bene comune, cioè la piena realizzazione degli interessi di ognuno. Partito da queste idee, lo scoz­zese Francis Hutcheson elaborò la sua “formula della felicità” (foto sotto).

 

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4. Rivoluzionari e delusioni

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La ricerca della fe­licità finì persino nella dichiarazione d’indipendenza americana scritta da Thomas Jefferson nel 1776:
"Noi riteniamo che queste siano verità autoevidenti: che tut­ti gli uomini sono creati uguali; che sono do­tati dal loro creatore di diritti inalienabili; che fra questi vi sono la vita, la libertà e la ricer­ca della felicità".

La ricerca della felicità all’americana è individuale, mediata dal sistema politico che tutela la proprie­tà privata.

In Eu­ropa, durante la Rivoluzione francese, quella ricerca si farà invece in massa. Il benessere del singolo, per i rivoluziona­ ri, è sempre meno importante del gran­de obiettivo collettivo: la nascita di una società più giusta ed egualitaria.

Di fatto, il progetto americano deluse molti. Intanto, gli afro-americani esclusi da quei "diritti inalienabili” e costretti a vivere da schiavi per un altro secolo. E poi uno stuolo di cittadini.

«Negli ar­chivi statali e federali degli Stati Uniti si conservano centinaia di denunce del XIX secolo contro il governo o altri americani, accusati di ostacolare il sacro diritto alla felicità» racconta McMahon.

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Altrettanto scontenti fu­rono i seguaci di Etienne Cabet, che nel 1849 si precipitarono in Texas per fonda­re Nuova Icaria.

Cabet era un socialista e aveva promesso la nascita, in quello Stato ancora selvaggio, di una comuni­tà ideale: abolizione della proprietà pri­vata, lavoro collettivo per il bene comu­ne e conseguente "reciproca felicità".

Ma di quell’Eden, in Texas, non c’era trac­cia. Cabet non si presentò nemmeno e gli speranzosi aspiranti icarii lo som­mersero di denunce per frode.

Il francese ci riprovò a Nauvoo (Illi­nois), un villaggio abbandonato dai mor­moni: in meno diun anno l’esperimen­to era fallito e tut­ti erano più infelici di prima. Compreso Etienne, che si am­malò di depressione e morì poco dopo.

 

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5. Ingegneri e "Benessere vendesi"

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Cabet fu solo il più sfor­tunato di molti “in­gegneri della felici­tà” dell’800.

«Circa 16 comunità model­lo basate sulle teo­rie dell’utopista inglese Robert Owen furono lanciate tra il 1825 e il 1830» dice McMahon.

Altre si ispirarono al france­se Charles Fourier. In quegli esperimenti si univano socia­lismo egualitario, religione e lavoro col­lettivo.

Togliete la religione (liquidata come “felicità illusoria”) e mantenete il la­voro, e avrete la ricetta della felicità se­condo Karl Marx. Peccato che nel nome del benessere comunista milioni di per­sone abbiano avuto vite tristissime.

Sotto, un brindisi fra amici e famigliari in un dipinto danese del 1888: l'ideale borghese della felicità era questo.

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I regimi totalitari del Novecento, di stampo comunista o fascista, si sono spesso proposti come portatori di benes­sere e gioia.

Ma la ri­cerca della felicità, per i “padri” sette­centeschi degli attuali sistemi politici occidentali, non è un compito del po­tere, bensì dei singoli cittadini. Il pas­saggio al totalitarismo avviene proprio quando il potere chiede, in cambio di una promessa di felicità futura, l’obbe­dienza assoluta e immediata.

Lo scenario è cambiato di nuovo negli ultimi cin­quantanni. Oggi i sociologi misurano la felicità con il tasso di “benessere sog­gettivo”. Un benessere cercato per lo più nell’accumulo di beni materiali.

Eppu­re, secondo varie ricerche, tra cui quella condotta dall’osservatorio internaziona­le World values survey, il denaro fa la fe­licità solo fino a una certa soglia. «Nelle società industria­li avanzate non c’è rapporto fra il livel­lo di reddito e il benessere soggettivo» spiega il sociologo americano Ronald Inglehart, direttore dell’osservatorio.

Del resto, la faccina che ride (lo smiley oggi simbolo del buonumore) fu inven­tata nel 1963 dal pubblicitario america­no Harvey R. Ball per tirar su di morale i dipendenti di un’azienda in crisi. E, a guardarlo bene, sembra dire: “Chiedimi se sono felice”.

Sotto, prigionieri liberati dal lager tedesco di Dachau nel 1945. Il concetto di felicità è relativo: questi uomini senza più nulla esultano per la ritrovata libertà.

 

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