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Corea: 5 cose importanti e molto utili da sapere (lingua, razza ecc.)

II territorio della Corea, oggi diviso in due distinte unità politiche in seguito ai noti e tragici avvenimenti storici che seguirono alla liberazione dal dominio giapponese, nel 1945, è poco più di due terzi di quello dell’Italia.

Il nome “Corea” deriva da quel “Corai” di cui ci parla Marco Polo nel Milione.

Il mercante veneziano non vi si recò mai, ma il nome che egli ci tramanda si rifà senz’altro a “Koryŏ”, lo stato retto dalla dinastia Wang che allora governava il territorio coreano.

A nord confina con la Repubblica Popolare Cinese e, per un brevissimo tratto nella sua estrema parte nord-orientale, con il territorio della Russia. A ovest è bagnata dal Mar Giallo (“Hwanghae” in coreano), a est dal Mar del Giappone, che i coreani chiamano “Tonghae” (“Mare Orientale”). A sud, gli stretti di Corea e di Tsushima (acque che i coreani chiamano “Namhae”, ossia “Mare Meridionale”) la separano dall’arcipelago giapponese.

La civiltà coreana, così come la vediamo oggi, è il risultato di un lungo processo storico al quale hanno contribuito in varia misura, nel corso dei secoli, anche genti straniere come cinesi, mongoli, mancesi e giapponesi.

Sull’origine dei coreani si sa davvero poco. Nelle antiche fonti cinesi essi sono annoverati fra i “Donghu” o “Dongi” (barbari orientali), termine generico che designava tutte le popolazioni non cinesi stanziate a nord-est dell’Impero Celeste.

La lingua coreana contemporanea viene graficamente rappresentata per mezzo di un alfabeto, detto han’gŭl, il cui uso venne ufficializzato nel 1446.

I caratteri cinesi, aboliti in Corea del Nord, vengono ancora usati in Corea del Sud soprattutto per trascrivere termini altamente specialistici oppure quando, in caso di omofonia fra vocaboli diversi, la scrittura alfabetica potrebbe generare equivoci nella comprensione.

In ogni caso, diversamente che nel giapponese, dove gli ideogrammi cinesi vengono usati anche per trascrivere i vocaboli indigeni, nel coreano contemporaneo essi possono essere usati, in alternativa alla scrittura alfabetica, solo per trascrivere i termini di origine cinese.

Oggi vedremo 5 cose molto interessanti sul territorio, la lingua, la gente, il clima e la razza coreana.

Chi dei nostri lettori è interessato all’argomento, consigliamo vivamente la lettura del bellissimo libro di Maurizio Riotto “Storia della Corea: Dalle origini ai nostri giorni”. Buona lettura.


 

1. Il territorio

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II territorio della Corea, oggi diviso in due distinte unità politiche in seguito ai noti e tragici avvenimenti storici che seguirono alla liberazione dal dominio giapponese, nel 1945, è poco più di due terzi di quello dell’Italia, con una superficie complessiva di 219.681 km2.

Di questi, 120.538 spettano alla Repubblica Popolare Democratica di Corea (DPRK), detta comunemente Corea del Nord, con capitale P’yŏngyang, e 99.143 alla Repubblica di Corea (ROK), meglio conosciuta come Corea del Sud, che ha come capitale Seoul.

Il nome “Corea” deriva da quel “Corai” di cui ci parla Marco Polo nel Milione. Il mercante veneziano non vi si recò mai, ma il nome che egli ci tramanda si rifà senz’altro a “Koryŏ”, lo stato retto dalla dinastia Wang che allora governava il territorio coreano.

A sua volta, “Koryŏ” è un termine derivato da “Koguryŏ” uno degli antichi Tre Regni della Corea che fiorì, secondo le date tradizionali, dal 37 a.C. al 668.

La Corea è stata chiamata comunque in vari modi: “Chosŏn” (“Calmo mattino”) è senz’altro uno dei più conosciuti, ma in passato essa è stata indicata (soprattutto dai cinesi, oltre che dagli stessi coreani) anche come “Haedong” (cinese: “Haidong”), ossia “(Paese) a est del mare” e “Tongguk” (cinese: “Dongguo”), ossia “Paese d’Oriente”.

Più rari sono altri appellativi come “Sohwa” (“Piccola Cina”) e “Ch’ŏnggu” (“Verdi colline”). Oggi, i coreani del Nord preferiscono chiamare la Corea col vecchio nome “Chosŏn”, mentre i coreani del Sud usano il termine “Han’guk” (“Paese Han”). Tutti i coreani però, nel nominare la patria, ricorrono spessissimo all’espressione “uri nara”, ossia “il mio (o nostro) Paese”.

La Corea è una penisola, piuttosto tozza anziché slanciata, che protendendosi dal continente asiatico in direzione sud-est, verso il mezzogiorno dell’arcipelago giapponese, si trova compresa fra 33 e 43° nord di latitudine e 124 e 131° est di longitudine.

A nord confina con la Repubblica Popolare Cinese e, per un brevissimo tratto nella sua estrema parte nord-orientale, con il territorio della Russia. A ovest è bagnata dal Mar Giallo (“Hwanghae” in coreano), a est dal Mar del Giappone, che i coreani chiamano “Tonghae” (“Mare Orientale”).

A sud, gli stretti di Corea e di Tsushima (acque che i coreani chiamano “Namhae”, ossia “Mare Meridionale”) la separano dall’arcipelago giapponese.

2. Il clima

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Il clima della Corea è segnatamente continentale, con l’anno rigorosamente diviso in quattro distinte stagioni come è proprio delle regioni poste nella fascia temperata.

D’estate le correnti meteorologiche provengono da levante, portando umidità e grandi piogge (il 60% delle precipitazioni annue avviene nel solo mese di luglio): è questa la changma ch’ŏl (stagione delle piogge), una stagione nella stagione, che dura pressappoco dalla fine di giugno alla fine di luglio.

Seguono tre o quattro settimane di gran caldo, occasionalmente stemperato da precipitazioni a carattere di rovescio (“sonagi” in coreano), durante le quali si raggiungono non di rado temperature di 35°.

La grande città di Taegu, a tale riguardo, è senz’altro una delle più calde. È proprio in questo periodo, fra luglio e agosto, che si raggiungono i cosiddetti “tre picchi del caldo” ossia il ch’obok (primo caldo), il chungbok (caldo di mezzo) e il malpok(caldo finale).

L’autunno è splendido, asciutto, luminoso e ventilato, con la natura che si ammanta di colori straordinari (il rosso delle foglie d’acacia e la brillantezza della luna fanno facilmente intendere perché questa stagione sia così celebrata nella letteratura) comunicanti spesso un senso di struggente malinconia.

L’inverno comincia ad affacciarsi già dalla metà di novembre e presto si rivela in tutta la sua severità. In questa stagione le correnti fredde provenienti dall’Artico e dalla Siberia investono in pieno la penisola coreana dando luogo a un clima secco e rigidissimo: a Seoul, città che sorge alla stessa latitudine di Catania, la temperatura può scendere anche a -20°, ma nelle zone montane al confine con la Cina si può arrivare anche a -40°.

È allora che arrivano a gelare anche i grandi fiumi, dove si pesca praticando un foro nella superficie ghiacciata, alla maniera eschimese, e molte attività rallentano. Le scuole chiudono, facendo risparmiare in tal modo il combustibile per il riscaldamento, mentre particolare attenzione è dedicata a tutto quanto è liquido per evitare che gelando (e dunque aumentando di volume) esso possa danneggiare i contenitori.

A marzo inizia il disgelo e presto la primavera irrompe recando una miriade di colori e una temperatura gradevole, regolata sovente dalla pom pi (pioggia di primavera, appunto) un fenomeno mai eccessivo e, anzi, spesso ben salutato. I fenomeni naturali della Corea sono lontani dal raggiungere le valenze estreme riscontrabili, per esempio, nel vicino Giappone.

Le fonti maggiori di preoccupazione sono certamente rappresentate dai tifoni ("t’aep’ung" in coreano) che sono abbastanza frequenti soprattutto sul finire dell’estate, fra agosto e settembre, e interessano maggiormente le regioni più meridionali della penisola e la grande isola di Cheju. Agenti endogeni modificatori della plastica terrestre come il vulcanismo e i terremoti non hanno particolarmente influenzato la storia dell'uomo in Corea.

3. La gente

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A dispetto di ripetuti richiami della propaganda ufficiale locale a una pretesa unità etnico-linguistica (e più in generale, culturale) del popolo della penisola, la civiltà coreana, così come la vediamo oggi, è il risultato di un lungo processo storico al quale hanno contribuito in varia misura, nel corso dei secoli, anche genti straniere come cinesi, mongoli, mancesi e giapponesi nonché, in epoche più antiche, popolazioni non meglio identificate come Ye, Maek (o Yemaek), Okchŏ, Puyŏ, Malgai e Khitan.

Sorge il dubbio, anzi, che una tale propaganda sia stata intrapresa allo scopo di contrastare la tendenza tutta coreana a privilegiare il piccolo gruppo (o, al massimo, la regione di appartenenza) a danno della collettività rappresentata dalla nazione.

In effetti, a prima vista quello coreano può sembrare un popolo molto nazionalista, al pari di quello giapponese, ma basta una conoscenza neppure profondissima del passato del Paese per accorgersi che, in tutta la sua storia, la Corea ha conosciuto solamente due autentici momenti di sciovinismo e nazionalismo, per così dire, “ufficiali”, ed entrambi siffatti momenti sono stati la conseguenza di eventi molto particolari:

  1. L’ondata di nazionalismo che interessò la Corea tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, infatti, coincise con il riscatto dalla dominazione mongola (che a lungo aveva spietatamente calpestato l’identità nazionale) e l’instaurazione della nuova dinastia Yi, ispirata ai princìpi del Confucianesimo, che aveva soppiantato la dinastia Wang di chiara impronta buddhista.
  2. Allo stesso modo, l’ondata di nazionalismo che interessò la Corea agli inizi del XX secolo scaturì come reazione alle pretese origini divine conclamate dai colonizzatori giapponesi.

 

Si può dunque affermare che, diversamente da quello giapponese, quello coreano sia stato (e continua a essere, se pure oggi qualcuno fosse in grado di identificarlo), un nazionalismo episodico, perseguito a puro fine “difensivo”.

Per il resto, quello coreano è stato uno dei popoli più pragmatici di tutto l’Estremo Oriente. La delicata posizione geopolitica ha infatti costretto per secoli i coreani al compromesso, mentre una situazione sociale immutata per secoli ha generato, insieme all’amore per la curiositas, anche una certa propensione alla polemica, alla dialettica e al dibattito.

4. La razza coreana

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Il mondo culturale coreano è dunque un mosaico unico e prezioso di usi, costumi e tradizioni. Ma la varietà si estende anche all’aspetto puramente fisico.

I coreani appartengono al ramo settentrionale della grande razza, della quale hanno tutti i tratti caratteristici: brachicefalia, occhi “a mandorla”, denti incisivi “a paletta”, glabella piatta, zigomi prominenti, capelli spessi e pesanti, arti relativamente corti per combattere la dispersione del calore.

Sono caratteristiche che si riscontrano già nei resti antropici preistorici, ma all’interno di tali elementi standardizzati s’incontrano fisionomie eterogenee, con coloriti chiari che vanno caricandosi fino ad assumere la tonalità rossastra di certe popolazioni siberiane, e tratti mongolici più o meno accentuati.

Non è a torto che i coreani vengano considerati fra gli asiatici più avvenenti, ma ad alcune loro caratteristiche fisiche hanno certo contribuito processi storici e culturali.

L'abitudine di sedersi "all'indiana" sembra infatti averli preservati dalla innaturale curvatura delle gambe (intese in stretto senso anatomico, ossia la parte dal ginocchio in giù) che invece presentano molti giapponesi, fin da piccoli abituati a sedersi in posizione “seiza”, ossia sulle ginocchia.

Sempre rispetto ai giapponesi, poi, i coreani presentano dentature più regolari, per motivi forse riconducibili alla maggiore mescolanza genetica. La statura è piuttosto alta: da dati riferiti alla fine degli anni ‘80 risultava che la donna coreana era alta in media mt. 1,58, ossia due centimetri in meno rispetto all’Italia.

D’altra parte, il fatto che i giapponesi siano in antico stati indicati dalle fonti cinesi e coreane col termine “Wo” (“Wae” in coreano), ossia, presumibilmente, “nano”, lascia presupporre che qualche differenza di statura doveva esistere fra gli abitanti del continente e quelli dell’arcipelago nipponico.

Sull’origine dei coreani si sa davvero poco. Nelle antiche fonti cinesi essi sono annoverati fra i “Donghu” o “Dongi” (barbari orientali), termine generico che designava tutte le popolazioni non cinesi stanziate a nord-est dell’Impero Celeste.

In particolare, “barbari orientali” che gravitavano nell’area della penisola e nelle sue immediate vicinanze erano gli Ye, i Maek (ma c’è chi pensa che questi due popoli siano in realtà uno solo: gli Yemaek), i Puyŏ e gli Okchŏ.

Queste notizie si riferiscono a un’epoca compresa fra la fine del I millennio a.C. e gli inizi del I millennio d.C. e ne tratteremo più diffusamente nel capitolo dedicato alla protostoria.



5. La lingua

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La lingua coreana contemporanea viene graficamente rappresentata per mezzo di un alfabeto, detto han’gŭl, il cui uso venne ufficializzato nel 1446.

I caratteri cinesi, aboliti in Corea del Nord, vengono ancora usati in Corea del Sud soprattutto per trascrivere termini altamente specialistici oppure quando, in caso di omofonia fra vocaboli diversi, la scrittura alfabetica potrebbe generare equivoci nella comprensione.

In ogni caso, diversamente che nel giapponese, dove gli ideogrammi cinesi vengono usati anche per trascrivere i vocaboli indigeni, nel coreano contemporaneo essi possono essere usati, in alternativa alla scrittura alfabetica, solo per trascrivere i termini di origine cinese.

La lingua coreana è di tipo agglutinante, ossia esprime i rapporti grammaticali giustapponendo vari elementi all’interno della stessa parola. Mancano infatti genere e numero, nonché le flessioni verbali.

La lingua coreana presenta numerosi livelli di conversazione, usati di volta in volta a seconda dell’età e dello status dell’interlocutore, nonché della familiarità con quest’ultimo. I livelli di conversazione vengono resi da suffissi verbali e, in misura minore, dall’uso di posposizioni e sostantivi onorifici.

Come altre lingue agglutinanti, inoltre, il coreano presenta il fenomeno dell’armonia vocalica. La lingua coreana viene solitamente assegnata al ramo orientale degli idiomi uralo-altaici. Oggi, più del 60% del lessico è costituito da termini di origine cinese che pare abbiano conservato nel coreano le originarie quattro tonalità.

Un pioniere della coreanistica come Gustaf John Ramstedt impiegò molti anni della propria vita per risalire alle etimologie dei termini sicuramente coreani, stabilendo confronti con lingue “affini” quali il mongolo, il mancese, il goldi (o nanaj), lo evenki, il lamut, ecc., ma i dubbi (molti dei quali prospettati dallo stesso studioso finlandese) oggi sono, se possibile, aumentati. 

Parecchi problemi rimangono dunque aperti, a partire dalla quella “somiglianza” col giapponese che spinge molti studenti a studiare contemporaneamente le due lingue. Di fatto, volendo cercare delle affinità fra le due lingue che investano tanto la sfera della fonologia quanto quella della sintassi e del lessico ci si accorge che, almeno oggi, di fronte a un’indubbia corrispondenza sintattica non sono riscontrabili particolari somiglianze fonetiche.

Ai giorni nostri il coreano appare una lingua alquanto unitaria, nel senso dell’esistenza di una dialettologia relativamente poco marcata, fra le varie regioni, e l’assenza di “isole linguistiche” all’interno del territorio della penisola.

Una importante eccezione è costituita dall’isola di Cheju, il cui idioma, pur a volte lontano dalla lingua ufficiale, è comunque considerato dai linguisti coreani “dialetto” anziché lingua vera e propria.

I coreani vanno oggi fieri del loro alfabeto e ne hanno ben ragione, visto che la sua creazione è stata, contrariamente alla stragrande maggioranza degli alfabeti mondiali, una vera e propria operazione scientifica, condotta a tavolino e rigidamente pianificata.

È un altro dono di questo Paese alla cultura di un mondo che in massima parte, però, continua a ignorarlo e ad arroccarsi in una sterile posizione di pretesa superiorità.






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